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Mario Vargas Llosa, il grande autore peruviano, è morto a 89 anni a Lima, «in pace, circondato dalla sua famiglia». Nato il 28 marzo 1936, era naturalizzato spagnolo.
Vinse il Nobel per la letteratura nel 2010 «per la sua cartografia delle strutture del potere e per le acute immagini della resistenza, rivolta e sconfitta dell'individuo». Ha scritto capolavori come La città e i cani, La zia Julia e lo scribacchino, La Casa Verde, Elogio della matrigna.
Per volontà della famiglia i funerali saranno celebrati in forma privata e, rispettando le sue volontà, le sue spoglie saranno cremate.
«Ho imparato a leggere a cinque anni, nella classe di frate Giustiniano all’Accademia de la Salle di Cochabamba». Così, nel 2010, iniziava il suo discorso di accettazione del premio Nobel per la Letteratura all’Accademia di Svezia. Settanta anni dopo, riconosceva serenamente che il momento magico in cui - decifrando i segni e trasformandoli in parole - aveva abbattuto le frontiere dello spazio e del tempo, «era la cosa più importante che mi è mai accaduta».
Avvenne nel 1941: il piccolo Mario - nato in Perù - cresceva in Bolivia senza padre (gli avevano detto che era morto), con la famiglia della madre: grandi lettori, appassionati di poesia. Anni talmente felici che non proverà mai a raccontarli. La scrittura è una forma di protesta: nasce sempre dal trauma, dal conflitto, dalla rivolta.
Nel suo caso, contro il padre, che nel 1946 riapparve per riprenderlo, riportarlo in Perù e sottometterlo alla propria ferrea disciplina. Nel 1950 lo iscrisse all’Accademia Militare Leoncio Prado. La tirannia familiare duplicava quella nazionale, perché il Perù era allora sottomesso alla dittatura del generale Odría. La letteratura divenne per il ragazzo ribelle il passaporto per la libertà. Il precoce matrimonio con la zia acquisita Julia, dieci anni più grande di lui, il trasferimento in Spagna e poi a Parigi, dove scoprì l’America Latina (e lesse Borges, Paz, García Márquez, Fuentes, Rulfo, Cabrera Infante, Onetti, Cortázar, Donoso) e il viaggio in Amazzonia dove - rifiutando ogni tentazione di esotismo o idealizzazione di una presunta armonia con la natura - scoprì il Perù arcaico dei nativi, esclusi dalla modernità e in balia del dispotismo e dell’ingiustizia, fecero di lui uno scrittore.
Il suo primo amore in verità era stato il teatro (sedotto da Morte di un commesso viaggiatore di Miller al teatro Segura di Lima), e aveva esordito come giornalista e autore di racconti (I cuccioli. I capi, 1959). È stato anche critico letterario (pregevoli i suoi scritti su Flaubert e Borges e sul romanzo - fra cui La verità della menzogna e La letteratura è la mia vendetta, dialogo con Claudio Magris), saggista (articoli e interviste raccolti in Contro vento e marea, 1982-86, mentre Il richiamo della tribù, 2018, è una ricognizione fra i pensatori liberali, come Aron, Berlin e Popper, che hanno anteposto l’individuo alla tribù, cioè alla classe, al partito, alla nazione), e politico.
Da studente marxista e socialista, intellettuale engagé nella maturità, come molti della sua generazione influenzato da Sartre, salutò con favore la rivoluzione cubana, per poi rinnegarla quando essa, divenuta regime, iniziò a reprimere il dissenso. L’invasione russa della Cecoslovacchia nel 1968 sancì la disillusione, e l’inizio di un sofferto percorso di avvicinamento all’umanesimo laico di Camus e al liberalismo. Nel 1987, col Movimiento Libertad, ha guidato le proteste contro il progetto del presidente García di nazionalizzare il sistema bancario: divenuto leader del Frente Democratico, si è candidato nel 1990 alle elezioni presidenziali del Perù. Denigrato come reazionario e conservatore (mentre lui ha sempre sostenuto che nell’America Latina funestata dalle dittature, dal terrorismo, dal nazionalismo, dal misticismo, dal razzismo, essere liberali significa essere rivoluzionari), fu sconfitto al secondo turno da Fujimori, su cui si riversarono i voti della sinistra.
Nel 1992, con un colpo di stato, Fujimori abolì parlamento e democrazia, instaurando l’ennesima dittatura: ma Vargas Llosa si era già trasferito in Spagna, paese del quale è divenuto cittadino. Se ho rievocato questa esperienza (da Vargas Llosa raccontata nell’autobiografia Il pesce nell’acqua, 1993) è perché essa ha fatto di lui il protagonista di uno dei suoi romanzi, svelando l’essenza stessa della letteratura – che dai fatti e dal vissuto nasce, ma insegna a inventare la vita e a trasformarla. La riflessione sulla natura del potere, sulla debolezza e la nobiltà dell’essere umano è del resto il nucleo della sua opera, tanto da figurare nella motivazione del premio Nobel, attribuitogli appunto per «la cartografia delle strutture del potere, per la sua immagine della resistenza, della rivolta e della sconfitta dell’individuo».
Ma Vargas Llosa è stato soprattutto un romanziere, trascinato dalla «passione, il vizio, la meraviglia della scrittura». Dal primo romanzo, La città e i cani (1962), ispirato alla sua esperienza all’accademia militare di Lima, fino all’ultimo, Tempi duri (2019), non ha mai cessato di credere nel potere del romanzo. Ha riconosciuto come maestri Flaubert, Faulkner, Dickens, Balzac, Conrad, Mann, Orwell, ma sin dal fulminante esordio che lo impose in tutto il mondo (è stato tradotto in 60 lingue), ha cercato di rinnovarlo e reinventarlo, traghettandolo nel XXI secolo. Combinando lirismo e realismo, moltiplicando i punti di vista, stravolgendo i piani temporali, usando il monologo interiore e i dialoghi, la storia, la cronaca, la satira e l’erotismo, ha indagato le miserie del suo paese e dell’animo di tutti.
In Perù – il paese di «ogni sangue» secondo José Maria Arguedas – sono ambientati La casa verde (1966), Conversazione nella cattedrale (1969), Pantaleon e le visitatrici (1973), Zia Julia e lo scribacchino (1977), Avventure della ragazza cattiva (2006), L’eroe discreto (2013), Crocevia (2019) e Le dedico il mio silenzio (2023). Ma le sue storie esplorano l’America Latina tutta, dal Brasile ottocentesco de La guerra alla fine del mondo (1981), alla Santo Domingo di Trujillo in La festa del caprone (2000), al Guatemala di Tempi duri (2019), fino alla Polinesia de Il paradiso è altrove (2003), e al Congo-belga devastato dal colonialismo de Il sogno del celta (2010).
Vargas Llosa non ha mai perso la fiducia nella capacità sediziosa della narrativa di creare un mondo alternativo, senza frontiere di lingua, cultura e religione, nel quale trovare rifugio contro le avversità o la barbarie, dissipare il caos, eternare la bellezza di un istante. Un mondo senza letteratura (o con una letteratura ridotta a svago e passatempo) sarebbe un mondo senza desideri e ideali – ha detto - perché le menzogne della letteratura diventano verità attraverso di noi, e i lettori contagiati dal dubbio metteranno in discussione la realtà mediocre in cui gli tocca vivere. La finzione è un’assoluta necessità affinché la nostra civiltà continui a esistere, si rinnovi e preservi in noi il meglio di ciò che è umano. E per questa utopia visionaria, che si è tradotta in personaggi ambigui e indimenticabili, e in migliaia di pagine trascinanti, sinistre, divertenti, feroci, sempre gli saremo grati.
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