L’uomo che trema
PREMIO NAPOLI PER LA NARRATIVA 2019
Gli autori di Addio fantasmi e L'uomo che trema discutono di letteratura e impegno civile partendo dai loro romanzi.
Andrea Pomella
Ciao Nadia. Vorrei iniziare questa chiacchierata scoprendo subito le carte. Leggendo ciò che in molti hanno scritto a proposito del tuo romanzo, ho notato che le espressioni più frequenti sono: «ossessione di una perdita» e «assenza del padre». Sono i temi portanti non solo di Addio fantasmi, ma anche de Gli anni al contrario, ed è innegabile. Così come è innegabile che parliamo di eventi eccezionali nella vita di una persona. Eppure, noto una differenza nel modo di declinarli. Ne Gli anni al contrario ci conducevi nella storia che è all’origine dell’ossessione. In quel caso l’ossessione e l’assenza erano, per così dire, la conseguenza di fatti eccezionali, e forse anche il motore che ti ha spinto a raccontarli. Immergendosi tra le pagine del tuo nuovo libro, invece, ciò che salta all’occhio è il racconto non dell’eccezionalità, ma della normalità. L’assenza e l’ossessione ora si nascondono nelle pieghe del quotidiano. E il tutto è ben rappresentato dal titolo di un capitolo della seconda parte, Cose terribili come fossero normali e forse viceversa. Mi viene in mente che, se la letteratura di ogni tempo nasce dal racconto dell’eccezionalità – l’impresa, l’epopea, la saga, la morte, la terribilità dei fenomeni di natura – la tua attenzione sembra posarsi invece su ciò che resta quando le acque del diluvio si sono ritirate. Non è che, tutto sommato, l’eccezionalità del vivere sta proprio lì?
Nadia Terranova
Ciao Andrea. È coerente che tu, che hai fatto della narrazione autobiografica il fondamento del nuovo corso della tua letteratura, parta da queste considerazioni. Penso ad Anni luce, dove il racconto di una adolescenza come tante diventa lo specchio di tutte le adolescenze ribelli e inquiete del mondo. O a L’uomo che trema, dove attraverso visioni concrete (la malattia delle piante, il figlio piccolo che si arrampica sul corpo del padre depresso) dai senso narrativo a una malattia universale, trasversale e diffusa come la depressione. Tu parti da te e ti apri e chi legge vede sé, come nello specchio dentro l’anta dell’armadio. Non so se esiste un’eccezionalità del vivere, però esiste un’eccezionalità del raccontarlo, quella a cui chi scrive ambisce. Io ho imparato dai libri di Natalia Ginzburg e, dopo, da quelli di Annie Ernaux che gran parte delle storie che potevo raccontare stava dentro la mia infanzia e la mia famiglia. L’ho sempre saputo, ma è come se leggendo loro abbia sentito il permesso di farlo. Cesare Pavese e Giorgio Bassani mi hanno insegnato poi che da quel poco che avevo potevo partire per inventare e costruire e giocare d’inganno con la forma del romanzo. E usare i miei luoghi, la mia geografia, la provincia dove sono nata e cresciuta per farne il centro del mondo. Ho scoperto che non si tratta solo di cambiare nomi e situazioni, ma mettere un piede nell’immaginazione può aiutare il realismo più sfrenato. Quali sono gli autori a cui ti senti più debitore, in questo momento del tuo percorso?
Non so se esiste un’eccezionalità del vivere, però esiste un’eccezionalità del raccontarlo, quella a cui chi scrive ambisce. Nadia Terranova
A.P. Non ho autori a cui mi sento debitore, o forse ne ho talmente tanti che a elencarli tutti non basterebbe lo spazio che ci è riservato per questa conversazione. Potrei dirti il Brodkey di Questo buio feroce, ma non tutto Brodkey. Il Tondelli di Camere separate, ma non tutto Tondelli. Il Berto de Il male oscuro, e sarebbe fin troppo facile. Credo più nei singoli libri che nell’intera carriera letteraria di un autore. Pur avendo scelto la via del realismo autobiografico sono convinto che restiamo sempre, come dici tu, con “un piede nell’immaginazione”. Insomma, per quanto possiamo ridurre la distanza tra la realtà e il racconto che ne facciamo, rimane sempre un margine. Non si descrive la realtà, la si narra. Perciò è sempre fiction. Tu ed io siamo un po’ un esempio di come a partire dalla propria storia privata si possano prendere strade diverse. Perfino le ossessioni, l’assenza del padre, la malattia, l’infinito vagare nel proprio passato e in quello della propria famiglia, sono i moli comuni da cui siamo salpati. Eppure i nostri libri hanno preso forme diverse, com’è normale che sia. Io mescolo la narrazione pura al reportage, e in qualche caso all’indagine speculativa da saggio filosofico; tu resti fedele alla forma romanzo, allo schema logico della fabula. In questa tua scelta credi che possa rientrare in parte l’aver lavorato tanto a lungo nell’ambito della letteratura formalmente più esigente e rigorosa, quella destinata ai più giovani?
N.T. Direi che è il contrario, ho cominciato a scrivere prima per gli adulti e poi mi sono accorta di poter parlare anche ai ragazzi. Prendo molto sul serio l’attenzione del lettore, cerco di non dimenticare mai che sto ospitando qualcuno fra le mie parole, e che dietro quel qualcuno c’è una persona che fondamentalmente vuole sapere “come va a finire”. Sono stata una bambina e un’adolescente famelica, accumulavo romanzi su romanzi e non sbirciavo mai prima l’ultima pagina. Sono rimasta così. Credo che la letteratura ti modifichi profondamente mentre non te ne accorgi. C’è sempre un bambino anche nelle mie storie per adulti. A volte è il bambino che un personaggio è stato. A volte è un bambino fantasma, come nell'ultimo romanzo, quando Ida vede accanto a sé la creatura ferma a tredici anni, mai cresciuta dai tempi della scomparsa del padre. Anche tra le tue pagine c’è un bambino: è il figlio della voce narrante, e ci rivela una cosa terribile e ovvia insieme, ovvero che i bambini vedono tutto, anche la depressione. È curioso, perché anche Ida ha avuto un padre depresso. E così abbiamo entrambi accostato una malattia adulta a uno sguardo che si vorrebbe innocente. Io credo che non ci sia innocenza e non ci sia riparo neppure nell’infanzia. Soprattutto nell’infanzia.
A.P. C’è una concomitanza minore tra i nostri libri che però mi ha colpito molto, ha a che fare con le rondini. In Addio fantasmi c’è una scena in cui Ida bambina spera che una rondine elegga la sua casa a luogo di transito, e quando chiede: “Perché non si fermano pure da noi?”, la madre risponde: “Si nidifica solo dove è sporco”. Ne L’uomo che trema c’è la rievocazione di un nido che fu popolato dalle rondini solo nei tempi remoti dell’infanzia, prima di essere definitivamente abbandonato; un comportamento, quello delle rondini, che per i Greci aveva una connotazione profetica, perché evitavano le dimore votate alla rovina. È davvero singolare che per introdurre il tema della rovina abbiamo entrambi fatto ricorso alle rondini. Mi viene in mente una frase di Wittgenstein: “Il passato diventerà un mucchio di rovine e alla fine un mucchio di cenere, ma sulla cenere aleggeranno degli spiriti” (ecco che tornano i tuoi fantasmi!). Perché in senso stretto i nostri sono libri che raccontano rovine: le conseguenze di un trauma, di una malattia, di un abbandono, quell’oscuro angolo del passato che spesso nella storia di una famiglia diventa la-cosa-che-non-si-dice.
I nostri sono libri che raccontano rovine: le conseguenze di un trauma, di una malattia, di un abbandono, quell’oscuro angolo del passato che spesso nella storia di una famiglia diventa la-cosa-che-non-si-dice. Andrea Pomella
N.T. Gli anni al contrario finiva con un nido di rondini, quando scrivevo quella scena che è quasi all’inizio di Addio fantasmi volevo mettere un filo rosso fra i due libri, la fine che è un ricominciamento. Quando ho trovato le rondini nell’Uomo che trema ho sussultato, ho pensato: ma tu guarda se Andrea e io senza saperlo ci siamo scambiati pure le visioni. In fondo non abbiamo fatto altro che ragionare delle cose che nelle nostre famiglie non si potevano dire. Prima citavi Questo buio feroce di Harold Brodkey: lo hai letto prima di me, e io che non avevo il coraggio di leggerlo perché parlava di aids, la malattia di cui è morto mio padre e di cui non parlo mai ma invece scrivo negli Anni al contrario, ho trovato forza nello specchio della tua lettura. Questo forse non te l’avevo mai detto. Oppure penso a quando ti costringo a leggere Conversazione in Sicilia di Vittorini perché mi convinco che in quel momento possa servirti, con quei dialoghi fra il protagonista e la madre, si dicono tante cose ma a lungo evitano abilmente il cuore della loro ferita. Sentivo che stavi lavorando intorno a quel tema e volevo che lo attraversassi. Forse nella letteratura italiana moderna il racconto che meglio sintetizza questo scrivere intorno a una parola che non si può pronunciare è un racconto di Dino Buzzati, Una cosa che comincia per elle. La cosa che comincia per elle è la lebbra, è la vergogna, è la parola infetta che non si può dire. Come la tua pagina sulla parola padre: «La malattia in me, quindi, originariamente si è manifestata nella sfera del linguaggio. Mi autocensuravo, sopprimevo dal mio vocabolario alcune parole, parole che se pronunciate ad alta voce mi si conficcavano nella pelle come spine, parole che non riuscivo a tollerare e che se fossi stato il più spietato dittatore a capo di uno stato totalitario avrei abrogato dall’uso comune. Papà era ovviamente la più insopportabile di tutte. Una parola così leggera, impalpabile, che presuppone confidenza, scherzo, affetto, una parola che dentro di me risuonava sgradevole come un insetto in un occhio. Se mi trovavo costretto a pronunciare la parola papà, ero capace di vergognarmi per ore, di avvertire un malessere sordo e prolungato».
A.P. In effetti no, non mi avevi mai detto di Brodkey e di come il mio avertene parlato avesse provocato in te questo effetto-specchio. Qualche giorno fa ho partecipato a un incontro pubblico durante il quale, a un certo punto, si è parlato della capacità terapeutica dei libri. In linea di massima sono contrario all’idea della scrittura come autoterapia, credo che lo scrittore quando si mette al lavoro debba innanzitutto compiere un gesto di altruismo. Scrivere è parlare agli altri. La mia scrittura può essere semmai terapeutica per il lettore (non per me, o quantomeno non in via programmatica), ma spero sia anche tanto altro. Quando sono di umor nero penso addirittura che scrivere sia spargere un contagio. Nell’incipit di Diceria dell’untore, Bufalino, che so essere uno dei tuoi autori più amati, scrive: «Degli alberi non riuscivo a sognare che i nomi, ho imparato solo più tardi a incorporare nei nomi le forme». Se ci pensi è un potere enorme quello di saper incorporare nei nomi le forme. E da un potere enorme deriva un’enorme responsabilità. Una delle cose attraverso cui, da lettore, giudico la riuscita di un libro, è proprio il modo in cui l’autore dimostra di avere coscienza di questa responsabilità. Spesso i libri meno buoni sono libri irresponsabili, libri in cui si sente che l’autore non ha cognizione del proprio potere.
N.T. Quando ero più giovane e più spietata sostenevo a occhi chiusi che la letteratura non avesse il dovere di curare. In realtà lo penso ancora, la parola dovere vicino alla parola letteratura mi fa orrore (l’unico dovere che ha la letteratura per me è di essere interessante) però sono diventata diversamente indulgente: non posso non riconoscere che certi libri mi hanno aiutato a superare momenti difficili, di grande buio. L’anno del pensiero magico di Joan Didion non è solo un libro sulla vedovanza, è un libro sull’addio e sul tempo dei riti simbolici della sepoltura: può far bene perfino se a morire è una parte di te. I buoni libri li riconosci perché il loro effetto va al di là delle intenzioni dell’autore, in questo senso mi trovi d’accordo sulla potenza della perdita del potere. Se perdi il controllo su quello che hai scritto, aumenti la possibilità che altri ci leggano dentro le loro vite. Sempre Bufalino diceva «ho imparato a non rubare ascoltando Mozart»: sono le passioni, le distrazioni a renderti involontariamente una persona migliore (l’accento è su involontariamente) più che l’educazione civica. Se leggi Delitto e castigo come fai a essere razzista? C’è tanta esplorazione della complessità che poi non può mai venirti in mente una cosa cretina come il razzismo. Però poi mi rendo conto che neppure questo è vero, perché appunto le persone sono complesse, e la storia è piena di feroci sanguinari dalle inappuntabili ottime letture.
A.P. Viviamo un tempo di farneticazioni e d’odio, e la letteratura sta rispondendo come può e come deve, pur nell’oggettiva debolezza del suo peso sociale. E tuttavia i libri non smettono di essere anticorpi formidabili, come giustamente sottolinei tu citando Delitto e castigo (di questi tempi, con lo stesso spirito, invito chiunque a leggere Luce d’agosto di Faulkner). Molti scrittori italiani sono in prima linea nella lotta contro i respingimenti in mare e contro lo smantellamento in atto del sistema di accoglienza dei migranti, per non dire della difesa della 104 e dell’attenzione sempre alta su ogni tipo di manovra oscurantista messa in atto dall’attuale governo. Gli scrittori lo sono molto più di quanto non lo siano, per esempio, gli esponenti politici dei partiti d’opposizione. Questo è un dato oggettivo. In un paese in cui si lamenta da decenni la scomparsa di un tipo di figura intellettuale che faccia da guida ai processi di riforma e da argine alle barbarie, oggi scopriamo che a mancare in realtà è proprio la politica. E tutto questo accade in un’Italia in cui si legge pochissimo e in cui le istituzioni scolastiche sono al collasso. Voglio vederlo come un piccolo ma concreto spiraglio. Allora l’utopia che si rinnova è che, prima ancora delle ferite interiori, con i libri si possano lenire i mali del mondo.
N.T. Io sono molto arrabbiata con il vuoto lasciato dallo smantellamento politico e istituzionale perché sta costringendo tutti noi a far passare per rivoluzionari l’antirazzismo o l’accoglienza, che dovrebbero essere alla base della nostra società. Il rischio, presi dal dovere di colmare quel vuoto, è di ridurre la complessità: stare dalla parte del bene è una scelta civile, non per forza poetica. I libri che mi lasciano qualcosa sono una spina del fianco non di un comune nemico, ma mia. Io se leggo un romanzo, una poesia, se vado a teatro il male lo voglio riconoscere dentro di me, come nella tragedia greca. Cronistoria di un pensiero infame di Edoardo Albinati denuncia qualcosa di indicibile dentro di noi, è interessante perché viene da una persona che nella vita e nelle scelte concrete, anche di lavoro, è sempre stata dalla parte degli ultimi. Eppure, una volta, è caduto dentro un pensiero infame. Non importa dire se quel pensiero ha attraversato anche noi oppure ci ha risparmiato: importava indagarlo perché esiste, è nell’aria. Albinati, offrendo la sua indicibilità, ha fatto a pezzi l’immagine dello scrittore-guru. Continuo a credere che la letteratura abbia una possibilità superiore, una prospettiva diversa, fastidiosa, pungolante. Quando Sandro Veronesi propone agli scrittori di portare i propri corpi sulle navi in mezzo al Mediterraneo e Elena Stancanelli scrive un diario che è qualcosa di più di una cronaca siamo in presenza di qualcosa di fortissimo, c'è uno sguardo che si è fatto fisico e letterario insieme. Se uno riesce a scrivere un trattato sull’accoglienza che è pura poesia come l’inizio dell’Odissea, quando Telemaco vaga di corte in corte alla ricerca di notizie del padre, o quando Ulisse viene ricevuto dai Feaci, ecco, allora resterà davvero per sempre.