Giulio Einaudi editore

Stefano Massini

Il 30 settembre, in occasione di Ravenna InOnda e in diretta sulle frequenze di Rai Radio 3, Stefano Massini ha presentato in anteprima il suo nuovo lavoro: Manhattan Project, in uscita nella Collezione di teatro Einaudi a marzo 2023.

L’autore, vincitore del Tony Award per il migliore testo dell’anno con Lehman Trilogy, torna nel mondo che più conosce e che ha saputo far vivere con la sua travolgente scrittura: il suo occhio ci porta fra gli ebrei espatriati oltreoceano, figli di una memoria di riti e costumi che fanno la ricchissima cultura yiddish. Ed è sorprendente che la genesi della bomba atomica sia stata in effetti quasi completamente ebraica, annoverando non solo Oppenheimer, Fermi ed Einstein, ma anche il gruppo dei geniali giovani fisici ungheresi che posero le basi per lo sviluppo del progetto.

Scritto in oltre due anni, dal marzo 2020 al settembre 2022, Manhattan Project segue il prendere forma dell’arma più spaventosa mai creata sul pianeta. Una ballata furiosa e spiazzante, in cui l’adrenalina del countdown si alterna a vortici di profonda umanità e sprazzi di tipica ironia yiddish, a comporre un grande mosaico su quell’ecatombe nucleare che il 2022 ha riesumato dall’armadio dei nostri peggiori incubi.

«Sarà sulla stessa linea narrativa di Lehman, storia di uomini e donne. Sarà pubblicato da Einaudi. I diritti per la messa in scena sono stati già venduti in Germania, Spagna, Francia e in Usa c'è un progetto enorme con un gigante della scena internazionale, di cui non posso ancora fare il nome».
Stefano Massini, «la Repubblica»

Ravenna InOnda: Stefano Massini Manhattan Project - estratti
Jackie Polzin

Con Quattro galline Polzin ha scritto una singolare meditazione filosofica sulla maternità. L’autrice affronta temi come quelli dell'aborto spontaneo, della perdita e della frustrazione, con profondità stemperata di leggerezza: «Il mio è un romanzo ironico su una esperienza devastante e ho da subito pensato che fosse possibile avvicinare una materia così bruciante e triste al senso dell'umorismo. Mi sono sempre pensata come una scrittrice umoristica e quando dicevo che stavo scrivendo un libro sulle galline la gente dava per scontato che fosse un romanzo buffo. Poi mi sono detta che potevo concedermi di essere entrambe le cose, sia seria che ironica» (Jackie Polzin intervista da Giulia Caminito su «7 - Corriere della Sera»).

Un romanzo sorprendente, che sta entusiasmando critica e mondo letterario:

«Nell’occhio della gallina è custodita la verità del mondo. La gallina non pensa, sa. Doveva arrivare il romanzo sulla migliore e piú derisa amica dell’uomo».
Niccolò Ammaniti

«Può un pollaio diventare la lente con cui leggere la vita, le nostre fragilità, le nostre cadute, i timori degli uomini e i pensieri delle donne, la maternità, le speranze e le perdite e le piccole conquiste, può offrire veri lampi di illuminazione esistenziale? Con un pizzico di ironia e un incedere narrativo lieve, quasi zen, con una lingua precisa, chirurgica, del tutto priva di compiacimenti, Jackie Polzin riesce in tutto questo […] Quattro galline è uno dei migliori romanzi che io abbia letto negli ultimi anni, una sorpresa totale. Leggetelo, lo amerete in un modo che non potete immaginare. E io da oggi ho una nuova autrice preferita».
Matteo Bussola, link

«Le colombe di Mercè Rodoreda, i pavoni di Flannery O’ Connor e le galline di Jackie Polzin, tutti volatili letterari che sanno raccontare le donne, i loro pensieri intimi e le loro assurdità. Un romanzo che sotto l’ironia e la lingua ben misurata cova speranze e perdite, un universo umano sodo e compatto».
Giulia Caminito

«Quattro galline è un libro intriso di dolore ma allo stesso tempo lieve; la storia di più di un fallimento, e della lotta quotidiana per fallire beckettianamente ancora, ma se possibile un po' meglio. Vi ricorda qualcosa?»
Giuseppe Culicchia, «tuttolibri – La Stampa»

«Quattro galline di Jackie Polzin è un romanzo commovente e spiritoso, lieve e struggente, un libro sull’assenza, sulla nostra continua lotta contro la solitudine, sulla difficoltà di comunicare – ma sulla bellezza di riuscire a volte a farlo – sulla maternità agli inizi del XXI secolo, sulla necessità di prendersi cura degli altri. C’è un mondo intero e pieno di emozioni, nel piccolo pollaio immaginato da Jackie Polzin».
Nicola Lagioia

«La grande forza del libro sta nella risolutezza con la quale Polzin tiene sul palcoscenico, quasi costantemente, le sue galline, come per farsene schermo, per evitare cedimenti sentimentali, cadute retoriche, per conservare pudore alla sua scrittura. […] Anche se la scrittura di Polzin è spesso carica di ironia (altra forma di pudore), la dignità delle galline, direi anzi la serietà delle galline, non è mai in discussione. Il disegno della loro morfologia e del loro comportamento ha precisione etologica e forza letteraria, gli avvenimenti del pollaio non solo non sono "minori" rispetto a quelli della casa degli uomini, ma ne sono il contrappasso costante. Se quella che si narra è una tragedia – e per molti aspetti lo è – non è mai stabilito se siano le galline a fare la parte del coro di fronte alle vicende umane, o viceversa. Le pagine più intense del libro attingono indifferentemente a quanto capita nella casa e a quanto capita nel pollaio».
Michele Serra, «la Repubblica»

«Quattro Galline racconta di una casa, dei suoi proprietari e di un pollaio. Le galline si rivelano l’unico punto di vista dal quale capire qualcosa di sé stessi. In questa spassosa meditazione su cosa diventa ricordo o memoria e cosa no, Jackie Polzin risponde insomma alla domanda se sia nato prima l’uovo o la gallina. La gallina. Animale sintesi delle nostre nostalgie e dei nostri perché».
Chiara Valerio

«Pieno di sfumature, umorismo e stravaganza. Polzin scrive magnificamente».
«The New York Times»

L’Ultimo Uomo

Anche lo sport, come la storia, celebra spesso i vincitori, dimenticando non solo gli sconfitti, ma anche quanto la competizione sia necessaria per raggiungere livelli di eccellenza impensabili in solitudine. La rivalità è un tipo di rapporto che può prendere sfumature diverse, ognuna interessante: può essere tossica, quando finisce per avvelenare uno dei due sfidanti, oppure virtuosa, quando porta entrambi i protagonisti a superare i propri limiti.

Quante vittorie, quanti record individuali sono, almeno in parte, merito anche di chi viene sconfitto, del secondo classificato?

Che siano vissute in modo tragico o come stimolo a migliorarsi, le storie raccontate in questo volume sono diventate l’archetipo di altre rivalità, presenti e future, e ancora a distanza di anni non hanno smesso di emozionare.

Due rivali sono necessari l’uno all’altro, la storia dell’uno appartiene, almeno in parte, anche all’altro. In fondo, come tutte le faccende umane, lo sport è fatto soprattutto di relazioni l’Ultimo Uomo

«Sfide fra grandi atleti che vanno oltre il campo di gioco e diventano un modo per raccontare tanto altro, soprattutto quell'intreccio indissolubile fra sport e storia».
Mauro Berruto, «Il Foglio»

«Le più originali dentro Rivali sono però tre, emozioni pure che restituiscono allo sport tutta l'umanità di cui ha bisogno per diventare immortale. La prima è la gara a chi scende più in profondità negli abissi marini fra Enzo Maiorca e Jacques Mayol, il bronzo siciliano di Siracusa e l'intellò francese nato a Shanghai. […] Il secondo duello riguarda due monumenti del tennis, Björn Borg e John McEnroe. Senza il rissoso e geniale americano, il gelido svedese non avrebbe mostrato al mondo limiti e umanità. […] La terza pepita del libro è un duello fra scriccioli atomici, Nadia Comaneci e Nelli Kim. Luogo dello scontro un tappeto, una trave, due parallele, un cavallo con maniglie, due anelli sospesi; il tutto avvolto da una nuvola di talco».
Giorgio Gandola, «Panorama»

«[…] La rivalità per eccellenza che ancora oggi infiamma i cuori partenopei e non solo, è quella fra Diego Armando Maradona e Pelé. Certo, chiarisce lo scrittore Fabrizio Gabrielli, i due non si sono mai affrontati sul rettangolo di gioco, non hanno mai incrociato i loro scarpini fra scatti, finte, dribbling e colpi di tacco, eppure, chiunque aspiri al trono di miglior giocatore del mondo – da Messi a Cristiano Ronaldo sino a Francesco Totti – deve passare da qui. Edson Arantes do Nascimento o El Pibe de Oro?»
Francesco Musolino, «Il Messagero»

«Se amate lo sport, questo è il libro che fa per voi […] una miscellanea di articoli che sono racconti e paiono elzeviri sopraffini. A cura di “l'Ultimo Uomo”, una rivista fondata nel 2013 che ha fatto dello sport un'imperdibile occasione di letteratura»
Alberto Pezzini, «Libero»

«Chi conosce lo stile della rivista troverà lo stesso equilibrio tra letteratura e tecnica, cultura pop e giornalismo sportivo».
Alberto Piccinini, «il venerdì – la Repubblica»

Javier Marías

Alcuni anni fa, in occasione di un incontro con i lettori romani, scrissi le parole che seguono e che pubblico soltanto ora perché, da un’ora, ho saputo che Javier Marías è morto, nella sua Madrid. Non sapevo che stesse così male.
Preferisco pubblicare queste parole pensate con calma per lui piuttosto che improvvisare trascinato dall’emozione, dalla tristezza, dalla mancanza.

«Raccontare è quasi sempre un regalo», scrive Javier Marías nella prima pagina di Il tuo volto domani. E se ogni lettore prova a ripensare i libri letti e amati nel corso del tempo e lungo la propria vita non fatica a scoprire o a riconoscere la naturale verità di queste parole. Esistono scrittori a cui siamo grati per un libro o due, per una storia, per un personaggio, addirittura per un dialogo o una frase, o anche solo per una scena, che entra così a far parte del catalogo di quelle scene assolute – come le chiamava Stevenson – che si imprimono per sempre nella nostra memoria e che ci servono nel corso della vita per dar forma alle nostre esperienze, ai sentimenti, ai pensieri. Anche per questo si legge, non per trovare formule, ma per cercare forme. E con esse provare a fermare provvisoriamente l’indefinito che incontriamo sul nostro cammino.
Differente, e più raro, è il caso degli scrittori a cui siamo grati per aver creato un regno in cui, se certamente loro sono sovrani, noi lettori di sicuro non ci sentiamo sudditi ma cittadini. Voglio dire che in quel regno, sempre a intermittenza fra verità e immaginazione, noi non ci sentiamo in alcun modo costretti, ma ci ritroviamo. Ne condividiamo i luoghi e il tempo, le aperture fantastiche e il lato oscuro, le figure, le citazioni, le letture e perfino i tic, che riconosciamo come segnali di orientamento. In questi casi allora non si tratta di una singola storia, di un personaggio o di una scena assoluta, ma di un’opera, o meglio di un universo in movimento, di una «forma di durata», «quel luogo della mia eternità» – come scrive Marías – che ci convoca al proprio interno da ogni punto della sua sfera, sia che abbia la forma narrativa di un romanzo o di un racconto, di una poesia, di un saggio, di uno scherzo, o anche solo di un articolo di giornale o di una cronaca sportiva. Credo che Javier Marías appartenga a questo genere ultimo di scrittori. Certo, come sempre, li si può incontrare o disincontrare, ma se li si incontra allora sarà difficile preferire o rifiutare questo o quel libro, nel nostro caso Un cuore così bianco, Domani nella battaglia pensa a me, Nera schiena del tempo, L’uomo sentimentale, Vite scritte, Quand’ero mortale, (oggi aggiungo) Così ha inizio il male, Berta Isla, Tomás Nevinson. Piuttosto li si distinguerà come passaggi differenti di una stessa città, in cui avviene sempre, in mille forme diverse, uno stesso evento, un gioco che diventa anche il nostro gioco. «So che nel momento di scrivere o raccontare storie e inventare personaggi – dice Marías – ho saputo o ho riconosciuto oppure ho pensato cose che solo nella scrittura si possono sapere o riconoscere o pensare. A volte solo nella finzione, ecco, nella scrittura di romanzi e racconti. Spesso mi torna presente l’esistenza di qualcosa che si tende a dimenticare e che anticamente si chiamò “pensiero letterario”, differente da qualsiasi altro, da quello scientifico e filosofico, da quello logico e matematico e perfino da quello religioso e politico». Marías spiega che non si tratta di un pensiero sulla letteratura, ma di un modo di pensare letterariamente il mondo, un pensiero difficile da definire perché può contraddirsi e non è soggetto ad alcuna dimostrazione o verifica, può sembrare arbitrario, capriccioso e perfino ridicolo. È una forma di «riconoscimento», che ci fa dire: ecco, è così. Insomma, «è un modo di sapere che si sa ciò che non si sapeva di sapere».
La letteratura che interessa a Javier Marías, come scrittore ma anche come lettore, è quella che, senza proporsi di spiegarlo, «racconta il mistero». Se il nostro sentire accoglie un’idea del mondo e dell’esperienza fatta sia da ciò che è accaduto che da ciò che sarebbe potuto accadere, sia da ciò che è reale e sia da ciò che è, più profondamente, vero, sia dall’immaginazione che dal ragionamento, non avremo trovato solo un libro o qualche storia, ma un regno in cui, senza consolazione alcuna, potremo riconoscerci.

Ernesto Franco, Cittadino Onorario del Reino de Redonda

© Enrica Scalfari / Agf.

Eugenio Scalfari è stato un testimone e un uomo di azione nel cuore del Novecento, caparbiamente fino ad oggi. Di solida cultura classica, notoriamente compagno di scuola di Italo Calvino, Scalfari ha attraversato l’ultimo secolo rendendosi noto per le sue battaglie politiche e civili, nel segno di una prospettiva liberale radicale, contemporaneamente attenta all’individuo e alla comunità.

Le sue imprese giornalistiche, dal «Mondo» all’«Espresso» degli anni ‘60, a «La Repubblica» dalla fondazione, sono state sempre un riferimento per la parte più attenta e progressiva della società italiana. Ha scelto Einaudi come editore delle sue riflessioni mature sui significati della parabola umana, sulla laicità della vita, sulla dimensione spirituale sottratta alla fede e a ogni dogmatica, sulla inevitabilità della morte. Lo lasciamo come un amico da cui abbiamo imparato molto, a cui siamo stati affezionati, con un grato ricordo.

Matteo Melchiorre

L’ultimo erede di una dinastia decaduta, i Cimamonte, si è ritirato a vivere nella villa da sempre appartenuta alla sua famiglia. La tenuta giganteggia su Vallorgàna, un piccolo e isolato paese di montagna. Il mondo intorno, il mondo di oggi, nel quale le nobili dinastie non importano piú a nessuno, sembra distante. L’ultimo dei Cimamonte è un giovane uomo solitario che in paese chiamano scherzosamente «il Duca».

Sospeso tra l’incredibile potere del luogo, il carico dei lavori manuali e le vecchie carte di famiglia si ritrova via via in una quiete paradossale, dorata, fuori dal tempo. Finché un giorno bussa alla sua porta Nelso, appena sceso dalla montagna. È lui a portargli la notizia: nei boschi della Val Fonda gli stanno rubando seicento quintali di legname. Inaspettatamente, risvegliato dalla smania del possesso, il sangue dei Cimamonte prende a ribollire.

Matteo Melchiorre ha costruito una storia tesissima ed epica sulla furia del potere, le leggi della natura e la libertà individuale. Un romanzo classico eppure nuovissimo, epico e politico, torrenziale e filosofico, che invita a riflettere sulla libertà delle scelte e la forza irresistibile del passato.

Un congegno narrativo dal quale è impossibile staccarsi che sta entusiasmando critica e mondo letterario:

«Ti prende, questa strana lingua, come il bosco che ti cresce intorno e non te ne accorgi».
Paolo Cognetti

«Lontanissimo dal realismo isterico, Il Duca appartiene a una variante più maestosa e sicura di sé del romanzo borghese: il romanzo nobile. Alla fine, con tanto di colpi di scena, si rivela un giallo […] Un libro formidabile, capace di entusiasmare per eleganza e compiutezza, nonché di far pensare che siano ancora vive o in buona salute, di certo raggiungibili, alcune delle cose perdute e impalpabili per cui, oggi, continuiamo a setacciare i romanzi: la voglia d'avventura, il freddo della montagna e la grandezza da cui non siamo stati lambiti».
Nicola H. Cosentino, «la Lettura – Corriere della Sera»

«Una prima persona sontuosa, implacabile. Con una tensione che non abita solo nei trucchi del mestiere, ma nel talento di produrre personaggi viventi. Leggerete di un Duca Don Quijote che ha in Nelso, il suo Sancho […] Bisogna comprarlo perché ci riconcilia col mestiere dello scrittore e ce lo fa sembrare un atto indispensabile per la nostra crescita».
Marcello Fois, «tuttolibri – La Stampa»

«Siamo davanti ad un romanzo pazzeschissimo. Io gli darei lo Strega. Adesso. Subito».
Luciana Littizzatto
, link 

«Melchiorre ha una tecnica narrativa meravigliosamente efficace e raffinata […] Cercando di definire che cosa ci emoziona quando si troviamo davanti a un capolavoro, Borges suggerisce che possa trattarsi dell'"imminenza di una rivelazione che non ha luogo". Il romanzo di Melchiorre conferma questa brillante intuizione».
Alberto Manguel, «Robinson – la Repubblica»

«Il Duca è pervaso da una forza nera».
Marco Missiroli

«Melchiorre rinnova la tradizione del romanzo storico italiano, da Manzoni a Eco: quello che il Duca scoprirà è la somiglianza degli esseri umani, nell'essere vittime e carnefici della storia, e un meraviglioso senso di pace che può darci la contemplazione della natura mentre assiste alle nostre piccole vicende».
Christian Raimo, «L’Essenziale»

«Mario Fastréda è un cattivo diverso dal solito, un antagonista dal destino imprevedibile, un duellante come non se n'erano mai visti. Un personaggio che, insieme al Duca, lascerà il segno nella nostra letteratura».
Tiziano Scarpa, «Domani»

«Matteo Melchiorre è uno scrittore che scuote e ispira perché è uno storico che lavora sulle fonti con tutto il corpo, un geografo che calca la mappa con gli scarponi e le cui intuizioni non mancano mai di sorprendere, un medium che evoca i fantasmi del territorio e li raduna a convegno. Fantasmi di confini, fantasmi di conflitti, fantasmi di paesaggi scomparsi o trasfigurati. Seguiamo il suo lavoro da molti anni, non come si segue un collega, ma come si segue dal versante di un monte il percorso di un viandante sul monte di fronte. Ogni tanto entra nel bosco e lo perdi di vista, ma sai che lo vedrai riapparire al prossimo tratto scoperto, e sai che presto lo incontrerai, in quella zona dove i nostri sentieri si uniranno, là dove l'archivio è la strada, e la strada è l'archivio».
Wu Ming

 

Spatriati di Mario Desiati è il libro vincitore della LXXVI edizione del Premio Strega.

La cerimonia si è svolta il 7 luglio nei suggestivi spazi del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma. Il romanzo dell’autore pugliese ha ricevuto 166 voti e il premio è stato consegnato da Giuseppe D’Avino, presidente di Strega Alberti Benevento.

Questa la dedica di Desiati dopo il successo: «Lascerò questa bottiglia intonsa. La berrò in Puglia, in ricordo degli scrittori della mia terra, a cominciare da Mariateresa Di Lascia, che lo vinse nel 1995 e non poté ritirarlo perché morì alcuni mesi prima. E vorrei aprirla vicino a dove è Alessandro Leogrande, che era un mio amico: l’avremmo bevuta insieme».

L’Italia è uno dei Paesi con più spatriati al mondo, andare via non significa sconfitta l’Ultimo Uomo

Il libro racconta la storia dell’incontro tra Claudia e Francesco, una folgorazione, la nascita di un desiderio tutto nuovo, che è soprattutto desiderio di vita. Cresceranno insieme, bisticciando come l'acqua e il fuoco, divergenti e inquieti. Lei spavalda, capelli rossi e cravatta, sempre in fuga, lui schivo ma bruciato dalla curiosità erotica. Sono due spatriati, irregolari, o semplicemente giovani. Un romanzo sull'appartenenza e l'accettazione di sé, sulle amicizie tenaci, su una generazione che ha guardato lontano per trovarsi.

Giancarlo De Cataldo

Sharon, detta Sharo, è una ragazza di borgata come tante, con sogni nemmeno troppo grandi. È bionda, alta, magra e ha la faccia sempre imbronciata; non una bellezza classica, eppure attira gli uomini come il miele le mosche. Cresciuta alle Torri, nella periferia romana, ha sopportato a testa bassa una vita più dura del dovuto.

Vive con la madre invalida e ha bruciato un bel po’ di lavoretti precari sempre per la stessa ragione: le mani lunghe dei capi. Poi una misteriosa consegna portata a termine per conto del fidanzato, un piccolo balordo, cambia la sua esistenza. Con la protezione di un annoiato aristocratico, Sharo inizia la sua irresistibile ascesa criminale. Ma la mala che conta, quella che controlla il mercato della droga, si accorge di lei e comincia a tenerla d’occhio, a guardarla con rispetto, con timore, con odio.

Lí, in quell’ambiente, nella zona oscura della città, nessuno la chiama piú con il suo nome. Per tutti è la Svedese.

Andò a dormire stringendo lo zainetto e il suo prezioso contenuto. Prima di sprofondare nel dormiveglia, accompagnata da Eggy, un ultimo pensiero: cinque sacchi, cosí, puff! l’Ultimo Uomo

«La Svedese è una ragazza, mi sono sforzato di pensare come lei, e come i tanti che hanno vissuto in una bolla di disagio, insofferenza, antagonismo. Mi sono sforzato di vederla come quei ragazzi e quei disagiati che non potevano permettersi i duecento metri quadrati in centro, il posto fisso, il ristorante gourmet d'asporto. E ho chiesto alla Svedese di comunicarmi la sua rabbia, il suo impeto, la sua freschezza e la sua astuzia. Così la Svedese è diventata la protagonista di un'ascesa criminale nei giorni della pandemia, muovendo dalla sua immaginaria borgata alla conquista del centro».
Giancarlo De Cataldo, «tuttolibri – La Stampa»

«Il nuovo romanzo di Giancarlo De CaItaldo si beve come una birra ghiacciata quando fa caldo, ma contiene tutto: la lotta di classe, le nuove droghe, il virus, il potere. Più che a un romanzo, però, assomiglia al primo episodio di una serie. Non è un caso, perché la fine della fine è tra le novità più interessanti della narrativa d'azione degli ultimi anni: nell'impossibilità di ricavare una morale dalla storia, scoprire il colpevole e ridare un ordine al mondo frantumato dall'irruzione del male, la narrazione tende a prolungarsi all'infinito, moltiplicando attenzione e consumo, come nei serial tv […] La Svedese è un romanzo di formazione criminale in un mondo in cui, per i poveri, il crimine sembra tornato a essere l'unico romanzo possibile».
Giacomo Papi, «la Repubblica»

«Quando sostituisce Fabio investito e azzoppato da un'auto pirata, nella consegna porta a porta di vari stupefacenti, Sharon detta Sharo, a contatto con un mondo annoiato, viziato e prepotente, cambia rotta e diventa La Svedese. E fascino e senso spietato degli affari si fondono nella sua ammaliante bellezza».
Francesco Mannoni, «Il Mattino»

«Impossibile non affezionarsi alla protagonista dell'ultimo noir del magistrato che scrive i best seller criminali più raffinati: Sharon detta Sharo è una donna magnetica che sa ottenere rispetto. Anche dalla mala romana».
«Vanity Fair»

Ricordo, poesia, poeta
© Basso Cannarsa

Il suo primo libro, Le mie poesie non cambieranno il mondo, era arrivato in Einaudi proposto da Elsa Morante. Con l’orecchio fine che aveva, Elsa si era accorta subito che quella sua giovane amica aveva un talento poetico non comune. Il libro venne pubblicato nel 1974 e piacque molto a Giulio Einaudi che da lì in avanti stimò sempre l’autrice e ne divenne amico.

I libri successivi sarebbero arrivati regolarmente ma con cadenze estremamente rallentate, per non forzare l’ispirazione (il sarcasmo di Cavalli contro i «poeti professionisti» era proverbiale) e per alimentare la leggenda della sua pigrizia. A parte gli undici anni tra il secondo e il terzo libro (Il cielo, 1981; la raccolta fino ad allora complessiva Poesie, 1992), tutti gli altri intervalli tra una raccolta di poesia e la successiva sono di sette anni. Questo ritmo «presidenziale» è stato tenuto regolarmente fino a Vita meravigliosa di due anni fa, che purtroppo resterà la sua ultima opera. Tutti i suoi libri sono attraversati dalla stessa geniale mescolanza di profondità e nonchalance. Anche nelle sue performance che riempivano i teatri, leggeva i suoi versi come buttandoli via, il contrario di qualsiasi enfasi retorica. E però non li buttava via per niente: la metrica, la musicalità, le rime improvvise, le chiusure aforistiche spiazzanti, tutto era calibrato sotto l’apparente noncuranza.

Nei suoi libri si snoda un canzoniere amoroso tutto centrato sul corpo, sui suoi ritmi, sugli impulsi ormonali e delle stagioni, sui sensi più che sul sentimento. Ma intorno a questo nucleo erotico c’è un continuo divagare, quasi un avvicinarsi e un ritrarsi continuamente al e dal fuoco di un enigma. Le poesie di Patrizia Cavalli hanno saputo affascinare gli intellettuali e i critici più raffinati (Agamben, Berardinelli…) ma anche il pubblico più ampio, che la idolatrava come una pop star. E questa è la capacità polisemica dei grandi. Quella di Patrizia Cavalli è stata, e continuerà a essere attraverso i suoi libri, una delle voci poetiche più importanti degli ultimi cinquant’anni, in Italia e a livello internazionale.

Ricordo, Yehoshua, Einaudi

Ci sono autori che preferiscono frequentare il meno possibile il loro editore, altri che amano seguire da vicino la produzione e la pubblicazione del proprio libro. Poi c’era Yehoshua. Abraham non concepiva relazioni asimmetriche, non accettava un rapporto che non fosse paritario e reciproco. Se noi ci occupavamo di lui, lui doveva occuparsi di noi. Seguiva la carriera scolastica dei nostri figli ricordandone ogni dettaglio (spalleggiato dall’adorabile Ika, la moglie, che lo accompagnava sempre nei suoi viaggi), e chiedeva di vedere foto recenti dei bambini, e si scandalizzava che non ne tenessimo una aggiornata nel portafoglio. Conservo, come credo altri miei colleghi, i suoi fax di saluti e felicitazioni per le occasioni più disparate, messaggi scritti a mano in grossi e tremolanti caratteri stampatello, le linee che si inclinavano sempre di più nella pagina come a voler riacquistare la giusta direzione di scrittura, quella ebraica da destra verso sinistra. Non si stancava di interrogarci sulle ragioni del suo successo in Italia, e si era convinto che la centralità delle tematiche familiari nella sua narrativa avesse trovato qui una terra d’elezione, un terreno fertile. Ma “trattandosi di una storia d’amore, è meglio non approfondirne troppo le ragioni”, aggiungeva saggiamente nella postfazione scritta per il volume di Tutti i racconti. Anche l’Einaudi per lui era una grande famiglia, un ramo genealogico misteriosamente legato al suo, e si stupiva che i suoi componenti non si frequentassero di più al di fuori dell’ufficio. Ogni tanto, pressato dalle sue domande, inventavo le destinazioni vacanziere dei miei colleghi, anche se non avevo alcuna idea di dove passassero il mese di agosto.

Era nato a Gerusalemme nel 1936, dodici anni prima della fondazione dello Stato d’Israele. La sua famiglia viveva in Palestina da cinque generazioni, si sentiva figlio di quella terra, ma l’origine sefardita e mediorientale non legittimava in lui alcun miope nazionalismo, anzi, lo spronava nel suo impegno sincero e generoso per la pace. Considerava l’impegno politico, nel senso più alto della parola, inscindibile dalla pratica letteraria. La sua fiducia che la letteratura potesse e dovesse incidere sulla realtà provocava talvolta animate discussioni con gli altri scrittori, quando veniva in Europa. Yehoshua non concepiva la possibilità di una letteratura senza impegno, non accettava l’idea che uno scrittore fosse responsabile soltanto nei confronti del proprio lavoro, della parola scritta. Non solo, sottolineava anche la necessità che la letteratura tornasse ad affrontare i temi etici che il postmoderno e le avanguardie avevano messo da parte. Il signor Mani, che Yehoshua considerava il suo libro più importante e profondo, utilizzava un’innovazione formale fondamentale per capire la sua poetica: nelle sue parole si trattava di “un dialogo a senso unico, vale a dire un dialogo in cui si sente la voce di un solo interlocutore (che afferma e rivolge domande), mentre sta al lettore intuire le risposte dell’altro destinatario”. I lettori del libro si rendono conto fin dall’inizio che questo “dialogo a senso unico” non fa che enfatizzare il desiderio, la preghiera di una risposta, forse proprio dal lettore. Nel coinvolgimento assiduo del lettore, nell’insistenza sul ruolo chiave giocato dalla lettura, Yehoshua mostra di aver superato la lezione dei maestri modernisti. E, più in generale, la ricerca di un dialogo con l’Altro è il tema cruciale di tutta la sua opera. Come nella Sposa liberata, dove l’andirivieni continuo del protagonista dai territori palestinesi diventa figura dei confini che ci separano dal familiare e dall’estraneo, e che dobbiamo imparare ad attraversare se vogliamo uscire dal “labirinto dell’identità”. O come nel Responsabile delle risorse umane, in cui il viaggio per riportare nel paese natale il corpo di una donna straniera, morta in un attentato a Gerusalemme, si trasforma in un percorso di scoperta di sé e di assunzione di responsabilità. Per vincere il gelo che sembra sceso sul mondo.

Andrea Canobbio