Giulio Einaudi editore

Donatella Di Pietrantonio

Dopo L’Arminuta, romanzo vincitore del Premio Campiello 2017, e Borgo Sud, finalista allo Strega 2021, Donatella Di Pietrantonio torna nelle librerie con L’età fragile.

All'origine di questo nuovo lavoro c'è un episodio di cronaca che risale agli anni Novanta nel cuore dell'Abruzzo appenninico, quando l'orrore si era insinuato in un luogo fino ad allora immacolato.

Amanda prende per un soffio uno degli ultimi treni e torna a casa, in quel paese vicino a Pescara da cui era scappata di corsa. A sua madre basta uno sguardo per capire che qualcosa in lei si è spento... vorrebbe tenerla al riparo da tutto, anche a costo di soffocarla, ma c’è un segreto che non può nasconderle. Sotto il Dente del Lupo, su un terreno che appartiene alla loro famiglia e adesso fa gola agli speculatori edilizi, si vedono ancora i resti di un campeggio dove tanti anni prima è successo un fatto terribile.

Con la sua scrittura scabra, vibratile e profonda, capace di farci sentire il peso di un’occhiata e il suono di una domanda senza risposta, Donatella Di Pietrantonio tocca in questo romanzo una tensione tutta nuova.

L’età fragile sta appassionando lettori e critica. Di seguito alcuni estratti dell’eccezionale rassegna stampa:

«Donatella Di Pietrantonio affronta questa storia usando risorse sempre più rare – per questo urgenti – nel racconto contemporaneo: pudore, delicatezza, rispetto per i sentimenti dei personaggi, capacità di ascolto. È il modo attraverso cui il lettore può accostarsi a una dimensione che altrimenti non si rivelerebbe, e percepire un rumore di fondo rispetto a cui di norma siamo sordi – il dolore delle persone normali, così prezioso, di cui nessuno sa nulla».
Nicola Lagioia, «tuttolibri – La Stampa»

«Di Pietrantonio torna con slancio e profondità nei luoghi anche interiori del rapporto aspro tra persone e luoghi […] Leggete questo romanzo intenso e preciso, in cui i piani temporali si intrecciano e cambiano lo sguardo, e in cui le donne lottano contro una forza brutale e antica (“uomo nei campi, femmina in casa”). Eccole tutte insieme: il passato oscuro del mondo, ma anche il presente, sempre meno fragile».
Annalena Benini, «Il Foglio»

«La scrittrice rielabora narrativamente un vecchio episodio di cronaca realmente accaduto sulla Maiella che negli anni Novanta sconvolse l'Abruzzo e l'Italia e lo fa con una prosa che avvince, pagine che si leggono in apnea, una sintassi asciutta e pulsante. Entriamo nel bosco alla ricerca dell'assassino, le torce illuminano il costone della montagna, si sentono spari, piccole fette di cielo stellato tra le chiome, in basso solo nero. Lucia partecipa alle ricerche infreddolita e impaurita […] Il bosco — la faggeta del Dente del Lupo — è l'altro personaggio di questo romanzo, che è insieme saga generazionale e favola nera».
Raffaella De Santis, «la Repubblica»

«Dietro queste fragilità si impone il grande personaggio di una natura raccontata senza retorica, nella sua durezza quotidiana di chi la deve “lavorare come uno schiavo”. […] Perché, montagna o città, ricorda il giudice Grimaldi, “dove arriva l'uomo, può portare il male”».
Ermanno Paccagnini, «la Lettura – Corriere della Sera»

«Usa la parola come il trapano da odontoiatra, la sua prima (o seconda?) professione insieme con quella della scrittura; con precisione chirurgica batte là dove il dente duole, di solito le relazioni umane o l'angustia di una terra che sembra fatta apposta, anche orograficamente, per bloccare progetti e sogni».
Sara Ricotta Voza, «tuttolibri – La Stampa»

«Nell'ultimo romanzo Donatella Di Pietrantonio ancora una volta riesce in modo estremamente convincente a scavare nelle anime fragili che il tempo spesso non fortifica»
Brunella Schisa, «il venerdì – la Repubblica»

«Al nuovo romanzo Donatella Di Pietrantonio ha dato la tensione di un thriller che si muove tra l'Abruzzo, terra della scrittrice Premio Campiello nel 2017 per L'Arminuta, fintamente accogliente con la sua natura, e una Milano miraggio di libertà non mantenuta».
Francesco Mannoni, «Il Mattino»

«Il romanzo nasce da un ricordo che riguarda la sua terra, l'Abruzzo, e che ha covato a lungo come un fuoco sotto la cenere. Un tragico fatto di cronaca avvenuto tanti anni fa due ragazze uccise sulla montagna dopo una violenza sessuale, una terza ferita che diventa la scintilla per parlare di fragilità, di quanto noi esseri umani siamo precari».
Isabella Fava, «Donna Moderna»

Qualità, premio, corriere, vittoria, traduzione

Tre titoli Einaudi ai primi tre posti della Classifica di Qualità 2023 de la Lettura – Corriere della Sera. Un risultato senza precedenti che vede il trionfo di Cormac McCarthy, al primo posto con Il passeggero, e al terzo con Stella Maris.

Fra i due libri dello scrittore americano scomparso quest’anno, troviamo Ian McEwan con Lezioni.

Nei top ten ci sono anche Bret Easton Ellis con Le schegge, al quinto posto, e Niccolò Ammaniti con La vita intima, al settimo.

Podio «Einaudiano» anche nelle traduzioni. Vince Maurizia Balmelli per il suo lavoro con Il passeggero; la traduttrice occupa anche il secondo posto con Stella Maris. Terza Susanna Basso con Lezioni. Quarto posto per Giuseppe Culicchia con Le schegge.

«McCarthy è un mistico, secondo me. Con questi ultimi libri, dal suo mondo insanguinato, polveroso, in cui ha rimestato per tutta la vita, riesce a distillare qualcosa di estremo e purissimo, quasi come da una specie di calderone delle streghe».
Maurizia Balmelli

  • Ian McEwan

    Lezioni

    «Il romanzo piú importante e piú necessario e piú bello che sia comparso in questo (quasi) primo quarto di secolo».
    Sandro Veronesi
    pp. 576
    € 16,00
  • Cormac McCarthy

    Stella Maris

    Un romanzo di diamantina intelligenza e strabiliante vis drammatica: l'ultima degna parola di un autore di genio.
    pp. 200
    € 12,50
  • Bret Easton Ellis

    Le schegge

    Nell'autunno del 1981, la vita di un gruppo di diciassettenni californiani che frequentano l'elitaria Buckley School viene sconvolta dall'arrivo di un ragazzo tanto affascinante quanto disturbato e perverso. Cosa nasconde Robert Mallory, e qual è il suo legame con il serial killer che sta imperversando...
    pp. 752
    € 23,00
  • Niccolò Ammaniti

    La vita intima

    «La paura finisce dove comincia la verità».

    Niccolò Ammaniti è ritornato piú cattivo, divertente e romantico che mai.
    pp. 312
    € 19,00
Maurizio de Giovanni

Con Soledad è tornato nelle librerie il commissario Ricciardi, uno dei personaggi più amati dai lettori italiani, nato dalla penna di Maurizio de Giovanni.

È il 1939 e mentre l'Italia si prepara a vivere l'ultimo Natale di pace, un omicidio squassa il ventre della città.

In Europa la guerra è cominciata, eppure qualcuno si illude ancora che sia possibile tenerla fuori della porta. E poi sta arrivando la più bella delle feste, quella dove si mangia, si beve, ci si abbraccia, quella in cui ci si scambiano doni con le persone care; non bisogna avere pensieri tristi.

La solitudine, però, la solitudine vera, è difficile da scacciare. Puoi essere solo perfino se stai in mezzo alla gente, se hai una famiglia, degli amici. Soprattutto puoi essere solo se decidono che sei diverso… Erminia Cascetta era diversa, a modo suo. Aveva troppa voglia di vivere, perciò l’hanno uccisa. In questo tempo che accelera verso l’abisso, spetta al commissario Ricciardi e al brigadiere Maione scoprire chi è stato.

«Intanto, c'è Napoli. Sempre Napoli […] Poi ci sono i sentimenti, viscerali quanto il Vesuvio, ma anche ancestrali: con essi, il cosiddetto “giallo” - da Hammett e Chandler fino al contemporaneo Connelly - ha il potere di rendere familiari e seducenti ambienti urbani, contesti e personaggi […] Infine, c'è il tocco del firmatario, la sigla personale, persino al di là dei generi […] Possiamo dirne tante, sulla questione “letteratura o intrattenimento”. Restiamo di fronte a emozioni dirette, collettive, e proprio per questo complessissime e umane, troppo umane. Soledad si legge senza pause e prova una maestria raggiunta».
Piero Melati, «il venerdì - la Repubblica»

«La bellezza della serie del commissario Ricciardi risiede in buona parte nello sguardo con cui Luigi osserva il mondo. È come se ce lo mostrasse attraverso un personalissimo vetro e, dunque, anche noi ci sentiamo calati nella sua speciale malinconia. Quella ipersensibilità che abbiamo imparato a conoscere e che ci ha accompagnato fino a questo ultimo Natale di pace. Ma in Soledad c'è qualcosa che va oltre, qualcosa che si avverte sin dall'incipit: “Potessi farlo, ti parlerei di solitudine”. L'introversione del commissario più famoso d'Italia è ormai un tratto che conosciamo».
Roberta Scorranese, «Corriere della Sera»

«Maurizio de Giovanni riesce a coniugare la solitudine personale e lo smarrimento collettivo in una trama che risponde ai canoni del giallo popolare e conduce progressivamente nella tela dell'intrigo. La tonalità del jazz che attraversa la narrazione dà suono allo spirito di quei giorni, la musica già proibita dall'autarchia diventa il simbolo della solitudine: “L'improvvisazione geniale, quel senso di libertà e di meraviglioso disordine che ne costituivano l'anima, erano proprio ciò che mancava nel grigio e rigido ordine nel quale si pretendeva che si vivesse”».
Generoso Picone, «Il Mattino»

«Nel nuovo libro Soledad il commissario Ricciardi indaga su un caso e sulla sua solitudine, sentimentale e personale, ma pure collettiva e storica, nell'Italia del 1939. L'ultimo Natale di finta serenità, con vista sull'abisso in cui l'Italia seguirà la Germania. La guerra, e poi la persecuzione degli ebrei che radicalizza un Paese, l'Italia, che non era così ferocemente antisemita».
Luca Mastrantonio, «7 - Corriere della Sera»

«Dopo Caminito, lo scrittore napoletano Maurizio De Giovanni ci delizia con un altro romanzo-tango appassionato e struggente che artiglia il cuore della vita, l'invoglia e la proietta in un contesto in cui avvampa la speranza della libertà, ma la nostalgia e la solitudine incurvano le prospettive del tempo».
Francesco Mannoni, «Giornale di Brescia»

«Soledad è forse uno dei più coinvolgenti dei romanzi del ciclo di Ricciardi proprio per questo continuo intrudersi nel plot investigativo di episodi che ci restituiscono il clima di esaltazione e di sospetto, di incertezza e di attesa di un Paese che sta vivendo in quell'inverno del '39 le prime avvisaglie di quel sonno della ragione che sempre genera mostri».
Bernardina Moriconi, «Roma»


Per chi volesse vivere, o rivivere, le emozioni della presentazione ufficiale di Soledad, ecco il video integrale dell'evento:

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Margherita Botto

Margherita Botto, insegnante di Lingua e Letteratura francese in varie università, si è dedicata alla traduzione sin dalla fine degli anni Settanta. Tra i suoi autori Fernand Braudel, Emmanuel Carrère, Alexandre Dumas, Marc Fumaroli, Jonathan Littell, Stendhal, Laurent Binet, Fred Vargas, insieme a molti altri. Per Einaudi aveva recentemente firmato la traduzione della Certosa di Parma, dopo essersi dedicata alcuni anni prima a un altro capolavoro di Stendhal, Il rosso e il nero. «Nella secolare disputa fra gli amanti di Stendhal che preferiscono Il rosso e il nero e quelli che preferiscono La Certosa di Parma (i rougistes e gli chartreux, come vengono chiamati in Francia), quasi a smentire la dedica che chiude il romanzo, “To the happy few”, questi ultimi sono senza confronto i piú numerosi», scriveva nel risvolto di copertina. E lei, da «rougiste sfegatata», come si definiva in un’intervista della primavera del 2017 per la rivista «tradurre», era riuscita a restituire in italiano anche la grandezza della Certosa, nella sua traduzione classica e moderna al tempo stesso, tanto accurata quanto briosa, in cui Fabrizio del Dongo, la duchessa Sanseverina e i numerosi personaggi prendono forma e vita in un affresco brulicante di passioni grazie alla sua straordinaria lingua.

Ed è proprio attraverso le sue parole che vorremmo ricordarla oggi, attraverso alcuni incipit dei libri più celebri a cui ha lavorato. Sono le parole che hanno dato una voce italiana a tanti autori francesi, le parole che sempre rimarranno tra le pagine delle traduzioni di Margherita Botto.

«Il 15 maggio 1796 il generale Bonaparte fece il suo ingresso a Milano alla testa di quel giovane esercito che aveva appena attraversato il ponte di Lodi, e reso noto al mondo che dopo tanti secoli Cesare e Alessandro avevano un successore. I prodigi di coraggio e di genialità di cui in pochi mesi fu testimone l’Italia risvegliarono un popolo assopito. Ancora otto giorni prima che i francesi arrivassero i milanesi li consideravano semplicemente una manica di briganti, abituati a darsi sempre alla fuga di fronte alle truppe di Sua Maestà imperialregia. Perlomeno, era quel che ripeteva loro tre volte alla settimana un giornaletto grande come il palmo della mano, stampato su cartaccia».

Stendhal, La Certosa di Parma, 2022

«Fratelli umani, lasciate che vi racconti com’è andata. Non siamo tuoi fratelli, ribatterete voi, e non vogliamo saperlo. Ed è ben vero che si tratta di una storia cupa, ma anche edificante, un vero racconto morale, ve l’assicuro. Rischia di essere un po’ lungo, in fondo sono successe tante cose, ma se per caso non andate troppo di fretta, con un po’ di fortuna troverete il tempo. E poi vi riguarda: vedrete che vi riguarda. Non dovete credere che cerchi di convincervi di qualcosa; in fondo, come la pensate è affar vostro. Se mi sono deciso a scrivere, dopo tutti questi anni, è per mettere in chiaro le cose per me stesso, non per voi».

Jonathan Littell, Le Benevole, 2007

«Vi siete mai chiesti quante volte al giorno dite grazie? Grazie per il sale, per la porta, per l’informazione.
Grazie per il resto, per il pane, per il pacchetto di sigarette.
Grazie di cortesia, di buona creanza, automatici, meccanici. Quasi vuoti.
A volte omessi.
A volte troppo insistiti: grazie a te. Grazie di tutto. Grazie infinite.
Grazie mille.
Grazie professionali: grazie per la sua risposta, il suo interessamento, la sua collaborazione.
Vi siete mai chiesti quante volte nella vita avete detto grazie sul serio? Un vero grazie. Espressione della vostra gratitudine, della vostra riconoscenza, del vostro debito».

Delphine de Vigan, Le gratitudini, 2020

«Gabčík – cosí si chiama – è un personaggio che è realmente esistito. Ha forse sentito, fuori, dietro alle imposte di un appartamento immerso nell’oscurità, solo, sdraiato su un lettuccio di ferro, ha forse ascoltato lo stridio cosí inconfondibile dei tram di Praga? Mi piace pensarlo. Conoscendo bene Praga, posso immaginare il numero del tram (ma forse è cambiato), il suo percorso, e il luogo dove, dietro alle imposte chiuse, Gabčík aspetta, sdraiato, riflette e ascolta. Siamo a Praga, all’angolo tra Vyšehradska e Trojička. Il tram numero 18 (o 22) si è fermato davanti all’Orto botanico. Soprattutto, siamo nel 1942. Nel Libro del riso e dell’oblio Kundera lascia intendere che si vergogna un po’ di dover dare un nome ai suoi personaggi, e benché quella vergogna non traspaia nei suoi romanzi, che pullulano di Tomas, di Tamina e di Tereza, la sua è l’intuizione di un’evidenza: c’è forse qualcosa di piú volgare dell’attribuire arbitrariamente, per un puerile scrupolo di realismo o, nel migliore dei casi, per semplice comodità, un nome inventato a un personaggio inventato? Secondo me, Kundera avrebbe dovuto spingersi oltre: c’è forse qualcosa di piú volgare, infatti, di un personaggio inventato?»

Laurent Binet, HHhH, 2011

«Gardon, il piantone del commissariato del XIII arrondissement, a Parigi, maniacalmente scrupoloso, era al suo posto alle sette e trenta in punto, testa china verso il ventilatore dell’ufficio per farsi asciugare i capelli, come al solito, il che gli permise di veder arrivare da lontano, a passi lentissimi, il commissario Adamsberg. Il quale, palmi all’insù e con la cautela da riservare a un vaso di cristallo, reggeva sugli avambracci un oggetto non identificato. Con quel cognome talmente appropriato alla funzione che ricopriva da avergli procurato un sacco di prese in giro finché tutti non si erano stufati, Gardon non si segnalava per il suo acume, ma adempiva il proprio compito con uno zelo quasi eccessivo. Compito che consisteva nell’individuare qualunque stranezza in avvicinamento, per quanto minima, da cui proteggere il commissariato. E in questo era bravissimo, tanto per l’occhio esercitato da anni di servizio quanto per l’inattesa velocità dei riflessi. Nel sancta sanctorum che era l’Anticrimine non entravano cani e porci, e dovevi avere un aspetto più che raccomandabile perché il cerbero del luogo – tutt’altro che impressionante – acconsentisse ad aprire il cancello di sicurezza all’ingresso. Ma nessuno avrebbe mai avuto da ridire sull’ossessione sospettosa di Gardon, che più di una volta aveva notato i rigonfiamenti a malapena visibili di armi nascoste sotto i vestiti, o aveva dubitato di maniere troppo melliflue per sembrargli naturali, e bloccato le velleità degli aggressori. In genere si era trattato di tentativi di liberare un indiziato in stato di fermo, ma a volte invece di fare la pelle a Adamsberg, né più né meno, e questi allarmi si andavano moltiplicando. Due in venticinque mesi. Con gli anni, e i successi del commissario  nelle indagini più tortuose, la sua fama si era consolidata così come le minacce alla sua vita».

Dalla traduzione di Sulla pietra di Fred Vargas a cui Margherita Botto stava lavorando, inedita.

Aveva compiuto da pochi giorni 98 anni. È uscito per la solita passeggiata mattutina e al ritorno ha avuto un attacco di cuore dall’esito rapido. Si è conclusa così, nella maniera meno traumatica, la lunga e operosa vita di Carlo Carena, a dieci anni più o meno esatti dalla scomparsa del suo grande amico e conterraneo Roberto Cerati. Lui di Borgomanero, Cerati di Cressa, a pochi chilometri di distanza. Due novaresi che hanno fatto la storia dell’Einaudi.

Quando ancora Carena insegnava al liceo Rosmini di Domodossola, Cerati gli affidò la sua prima traduzione, Le tragedie di Eschilo. Siamo nel 1956 e il «Millennio» doveva uscire per Natale. Cerati faceva il corriere tra Torino e Domodossola per recuperare in tempo reale le ultime parti delle traduzioni appena sfornate consegnando le bozze di quelle precedenti. Carena non era contento di quella sua prima traduzione e giurò che non avrebbe mai più tradotto con ritmi così incalzanti. Per Einaudi ne ha fatte poi almeno una trentina, dal greco, dal latino e dal francese, tutte ben ponderate e nei tempi giusti. E parliamo di opere capitali come tutte Le poesie di Orazio, le Vite parallele di Plutarco, Le confessioni di Agostino, gli Adagia di Erasmo, i Pensieri di Pascal. L’ultimo lavoro ha riguardato una scelta dai Moralia di Plutarco intitolata L’arte della politica: ha spedito le ultime correzioni sulle bozze pochi giorni prima di morire. Ancora una volta ha consegnato nei tempi…

Oltre al lavoro di traduttore e curatore di testi classici, Carena ha lavorato come interno della casa editrice dalla fine degli anni Sessanta ai primi anni Ottanta, come responsabile dei classici, come segretario generale e come direttore editoriale. Sotto la sua spinta i «Millenni» sono diventati una collana di riferimento per la letteratura greca e latina, proponendo nuove edizioni degli autori più famosi ma anche, per la prima volta, opere mai pubblicate prima interamente come l’Antologia Palatina in quattro volumi, la Storia naturale di Plinio in cinque volumi e L’arte dell’agricoltura di Columella.

La sua predilezione era per una letteratura “morale”, cioè di pensiero, con un forte contenuto etico ma senza pesantezze filosofiche. Meglio ancora se scritta con uno stile elegante e non enfatico. Per questo è tornato continuamente su Plutarco e su Erasmo, che per il suo gusto concentravano tutte le migliori qualità letterarie. Eleganza, cordialità, ironia e bontà d’animo, che lui cercava negli scrittori, erano anche le sue fondamentali qualità umane. Tutti coloro che passavano a trovarlo nella sua splendida casa sopra il Lago d’Orta potevano godere dell’amabile conversazione sua e della sua amatissima Luciana in cui, a differenza di tanti altri salotti intellettuali, non albergava mai la malignità verso gli assenti. E tutti coloro che leggevano le sue recensioni nelle pagine domenicali del «Sole 24 Ore» potevano apprezzarne la chiarezza, l’arguzia, la capacità di rendere vive le discussioni dei classici senza mai forzature attualizzanti.

Mens sana in corpore sano era un motto perfettamente incarnato in lui. Fino a qualche anno fa tagliava ancora personalmente la legna del suo bosco e fino all’ultimo, come si è detto, faceva una passeggiata tutte le mattine. Gli piaceva fondere in una sola persona l’intellettuale e l’uomo di campagna. L’amico interlocutore di Contini e Isella e il sodale dei contadini cusiani. Anche questo ne fa una figura indimenticabile e forse irripetibile.

© Basso Cannarsa

Non poteva che andarsene d’autunno, A. S. Byatt, quando i colori delle foglie si moltiplicano e i boschi sono più incantevoli e incantati che mai. Mi mancherà molto, mi mancheranno le sue osservazioni sulla scrittura e il vetro, mi mancherà il rumore delle sue sinapsi, che mi pareva di udire ogni volta che avevo occasione di conversare con lei, «Non sono un’accademica cui è capitato di scrivere un romanzo, – disse in un’intervista del 2009. – Sono una romanziera cui capita di essere molto in gamba accademicamente». Da ciò lo scricchiolio sinaptico. Che sempre mi è sembrato colmo d’ironia oltre che d’intelligenza e cultura assimilata fino a diventare pelle, occhi, corpo.

Corpo che lei ha prestato ininterrottamente ai suoi personaggi, a Christabel LaMotte, ma anche a Randolph Ash, a Frederica Potter, ma anche agli uomini di cui più o meno opportunamente lei s’innamora, a Marcus Potter, che ama un altro uomo con matematica delicatezza, ai bambini e le bambine del Libro, alla narratologa Gillian, «un essere di second’ordine», che immaginando un genio uscito per lei dalla bottiglia racconta la quint’essenza del desiderio.

Quando insieme a Fausto Galuzzi traducevamo i suoi libri (migliaia di pagine in ogni senso indimenticabili), riflettevamo spesso sul privilegio di dar voce ad A. S. Byatt nella nostra lingua, che lei comprendeva bene e amava. Ne amava il suono, le etimologie, la creatività delle metafore nel parlato. E noi amavamo quel suo instancabile cercare e immaginare, quel suo complesso e documentato ragionare che non dava scampo, ora raggrumandosi in pagine terribilmente dolorose o robustamente filosofiche, ora sciogliendosi in pagine fiabesche, o di pura poesia.

Aveva un talento tutto suo nell’ascoltare e nel guardare, A. S. Byatt, e un miracoloso talento per le domande, forse perché conosceva i labirinti delle risposte.

Se n’è andata, ma i suoi libri restano. Sarei più triste se non avessi questa certezza, e poiché sono tradotti in 38 lingue, tante almeno quanti sono i colori delle foglie in questa stagione, posso immaginare una torre di babele su cui arrampicarsi con fiducia, la sua stessa fiducia nella lingua, nella letteratura e nella poesia.

«Non credo in Dio, – diceva A. S. Byatt, – ma credo in Wallace Stevens», e anche diceva: «Sono un’europea. E la mia casa è un luogo in Inghilterra, ma è la mia casa proprio perché è piena di libri in tante lingue, su scaffali che sono la mia casa».

Anna Nadotti

Paolo Cognetti

In questo romanzo duro e levigato come un sasso, Cognetti scende dai ghiacciai del Rosa per ascoltare gli urti della vita nel fondovalle. La sua voce canta le esistenze fragili, perse dietro la rabbia, l'alcol e una forza misteriosa che le trascina sempre più giù, travolgendo ogni cosa. Lungo la Sesia come in tutto il mondo, a subire il dolore dell'uomo restano in silenzio gli animali e gli alberi.

Col passo rapido e la lingua tersa dei grandi autori, Paolo Cognetti ha scritto il suo Nebraska: «Erano anni che volevo fare questa “operazione di cover”: scrivere un libro da un disco, da Nebraska. Ho scoperto da poco che anche Denis Johnson, altro scrittore che amo molto, aveva scritto Jesus'son a partire dalla canzone Heroin di Lou Reed; e De André con Non al denaro non all'amore né al cielo è partito dall'Antologia di Spoon River. È un’operazione che ha senso solo se la senti tua, se non è un esercizio di stile. Ascolto Nebraska, grazie a mia sorella, da una vita, quelle canzoni fanno parte di me» (Paolo Cognetti a «la Lettura», in conversazione con Vasco Brondi).

Il nuovo romanzo di Cognetti, vincitore del Premio Strega 2017 con Le otto montagne, sta ricevendo una calorosa accoglienza. Ecco alcuni estratti:

«In questo libro bellissimo – brillante come un cristallo di ghiaccio – accade che lungo il corso della Sesia ogni cosa subisca il dolore delle azioni della nostra specie: alberi, donne, uomini e animali».
Stefano Mancuso, «la Repubblica»

«Stavolta oltre Le otto montagne ci è andato davvero […] Cognetti ha questo potere qui che è proprio dei migliori letterati. Far vivere le proprie pagine oltre il tempo presente, come fosse un Melville o un Hemingway, senza la necessità di aggrapparsi a riferimenti e ammiccamenti culturali che fanno salotto buono oggi. L’esposizione dei tormenti interiori dei singoli, infine, è nuda e fiera, partecipata e diretta, tra il dolente bisogno di una calda carezza e la durezza di una selvatica libertà, verso una progressiva faticosa redenzione che riposa in una grazia di scrittura infinita e commovente».
Davide Turrini, «il Fatto Quotidiano», link

«La forma breve è di sicuro la più congeniale a Cognetti, e lui la maneggia con l'assoluta confidenza di chi ha, sviluppatissimo, il senso del ritmo. In certi punti, è come se andasse a orecchio, alternando la violenza e la dolcezza, i battere e i levare, e seguendo la musica interna di ciascun personaggio per poi ricopiarla sulla pagina».
Laura Pezzino, «tuttolibri – La Stampa»

«Giù nella valle è un libro che invita a fare delle pause. Fermarti un attimo e ricominciare».
Luciana Littizzetto

«Il mondo di mezzo di Giù nella valle è una realtà, in Piemonte come ai piedi degli Appalachi. Chi lo racconta ci aiuta a capire chi siamo».
Stefano Ardito, «Il Messaggero»

«Scende a valle, Paolo Cognetti, si immerge nelle acque della fragilità, nelle ombre delle persone perse, nella vita che sbatte a terra […] Il suo Nebraska nasce così, desolato, dritto al cuore delle cose, sul solco di un dialogo con gli autori, i “suoi classici”, dove musica e racconti trovano un terreno comune: Giù nella valle risuona duro, con la sua caratteristica scrittura asciutta e limpida, senza niente di troppo, che a tratti ha il suono crudo di una ballata per chitarra e armonica».
Francesca Cingoli, «Il Libraio», link

«Cognetti nasce come autore di racconti con un passo veloce e lo sguardo attento, qualità che tornano nel suo nuovo libro […] racconti che si intrecciano e che si chi che si chiudono, si sente l’influenza di Flannery O'Connor, maestra del racconto breve e del suo mondo perduto. Cognetti tesse destini in alta quota mentre racconta le luci lontane delle città, con una certezza amara: se le cose si sono messe male, sei fiumi sono pieni di scorie e i ghiacciai sono solo un ricordo, dobbiamo solo guardarci allo specchio»
Francesco Musolino, «L’Unione Sarda»

«Quelli di Cognetti sono eroi marginali, forse antieroi, e di conseguenza perfettamente calati in una quotidianità feroce che la montagna, sentinella fedele di ogni cosa, non può che certificare. Ma le parole di Cognetti sono anche carezze, non solo letterarie, rivolte ai luoghi che conosce bene e di cui il turismo di massa vorrebbe appropriarsi per ricavarne profitto. Il suo merito è spogliarli della loro apparente lontananza per restituirceli nella loro bellezza più intima e vera, che è anche la nostra salvezza».
Giuseppe Di Matteo, «Quotidiano Nazionale»

© Alberto Ramella/SYNC

Che facesse il dirigente editoriale, il critico letterario, lo scrittore, il traduttore o l’organizzatore culturale non cambiava la sostanza delle cose: Ernesto Ferrero aveva un suo quid, una sua personalità che attraversava i ruoli rimanendo sempre ben riconoscibile, inconfondibile. Gli «ingredienti» erano la gentilezza e l’eleganza combinate però (a dispetto dei pregiudizi sui torinesi) con la franchezza e la nettezza dei giudizi e delle posizioni; la prontezza dell’intelligenza con la disponibilità e la capacità di ascolto; il garbo e l’ironia anche nelle situazioni di stress.
Nella sua attività editoriale, dal 1963 al 1989 all’Einaudi, poi alla Bollati Boringhieri, alla Garzanti e alla Mondadori, ha sempre messo a proprio agio autori, colleghi e collaboratori cercando, secondo un’idea fissa del suo mentore Giulio Bollati, la «felicità» delle persone. E questo ne ha fatto una delle figure più amate dal mondo letterario italiano. Dagli infiniti incontri di questa lunga esperienza professionale restano appassionate memorie e indimenticabili ritratti in due libri, per l’appunto, molto felici: I migliori anni della nostra vita (Feltrinelli 2005) e Album di famiglia (Einaudi 2022). La sua capacità di cogliere un modo di camminare, una parlata, un tic e di proiettarlo in un carattere, e di connettere il carattere ai pensieri e agli scritti dei suoi personaggi disegnati dal vero ne fa il nostro Sainte-Beuve.
Anche il suo acume critico, esercitato su autori come Gadda, Primo Levi e Italo Calvino, risulta corroborato dalla conoscenza diretta, dalla testimonianza, dalla capacità di racchiudere in icastiche formule descrittive/interpretative il nocciolo stilistico e umano degli scrittori più amati. Esempio eccellente ne è il recentissimo Italo, che rimarrà purtroppo il suo ultimo libro.
Come scrittore in proprio prendeva spunto dalla storia ma costruiva i suoi protagonisti con lo stesso calore letterario dei personaggi di finzione: dal Napoleone di N. al grande truffatore Edgar Laplante dell’Anno dell’Indiano (nato Cervo bianco), dal Salgari di Disegnare il vento al san Francesco di Francesco e il Sultano. Tutte parabole esistenziali straordinarie in affreschi d’epoca precisi e suggestivi.
Come direttore del Salone del libro dal 1998 al 2016 rimarrà nella storia di questo evento come sapiente organizzatore, ma verrà ricordato anche per la capacità di presenziare a tutti gli incontri più importanti e di pronunciare sempre le parole più appropriate per introdurli. Sembrava possedere soprannaturali doti di ubiquità perché avresti giurato di averlo sentito parlare un attimo prima a una tavola rotonda e già stava presentando un premio Nobel in un altro padiglione. Tanti discorsi che non avevano mai il peso dell’ufficialità e della retorica. Per lui che aveva studiato i gerghi del Quattrocento e che aveva tradotto Céline, la lingua parlata, immediata, creativa era il miglior antidoto contro qualsiasi enfasi e ben rappresentava il suo animo più profondo.

Viola Ardone

Dopo il successo internazionale de Il treno dei bambini e di Oliva Denaro, il nuovo libro di Viola Ardone, Grande meraviglia, completa un'ideale trilogia del Novecento.

In questo magnifico romanzo di formazione, il legame di una ragazzina con l'uomo che decide di liberarla rivela il bisogno tutto umano di essere riconosciuti dall'altro, per sentire di esistere.

Grande meraviglia sta conquistando i lettori e la critica:

«Un romanzo di formazione luminoso: Ardone fa un salto definitivo con audace bellezza, guarda negli occhi il precipizio esistenziale della follia e gli dona una forma non convenzionale attraverso due storie che colgono l'importanza di riconoscere l'altro, di sentire che esiste e che esistiamo e che mettersi in ascolto è forse la chiave per accedere a ogni grande meraviglia».
Federica Bassignana, «Il Foglio»

«Una storia che non ci si stacca di dosso».
Marta Cervino, «marie claire»

«Benvenuti nella grande bellezza di Viola Arcione, che si conferma - dopo un romanzo sulla miseria dei bambini di Napoli e uno sul l'oppressione delle ragazze in Sicilia - straordinaria raccontatrice del nostro Novecento, tutto storto eppure pieno di umanità».
Cristina De Stefano, «Elle»

«…Grande meraviglia, l’ultimo romanzo di Viola Ardone che ci commuove col sorriso sulle labbra, una lingua musicale, un mix di temi (la paternità non biologica, la pazzia, l'amore) e uno stile aderente al senso dell’opera».
Rossana Campisi, «Io Donna»

«Ardone costruisce personaggi che parlano all'anima di tutti e vivono nel cuore dei grandi eventi […] Grande Meraviglia è un romanzo coi piedi nella Storia e la testa nelle invenzioni, una ballata degli addii dove “i fatti si confondono in una nebbia che mescola le azioni, i sogni, i desideri, i ricordi». Come quando ti svegli e «non sai se il bacio che hai sognato l'hai dato veramente, se la persona che hai visto ti ha parlato davvero”».
Vittorio Lingiardi, «la Repubblica»

«Dopo Amerigo Speranza, protagonista di Il treno dei bambini, e Oliva Denaro, che nell'omonimo libro si ribella a una cultura patriarcale, la scrittrice Viola Ardone ci consegna il ritratto di un altro indimenticabile io narrante nel suo nuovo romanzo di formazione Grande meraviglia: la piccola Elba – un nome che ricorda un fiume del Nord e una vita che trascorre insieme alla madre nel “mezzomondo, la casa dei matti”».
Benedetta Marietti, «il venerdì – la Repubblica»

«Ardone ha il raro talento di declinare in modalità fantastiche temi edificanti e battaglie civili con una scrittura ricca, spesso ammiccante, divertente e per questo anche più incisiva, intessuta d'invenzioni lessicali e neologismi adattati ai vissuti dei suoi "io" narranti. […] Ardone diverte, e a volte si diverte motteggiando qua e là nei riferimenti a personaggi e tic anche del mondo letterario».
Titti Marrone, «Il Mattino»

«Con la grazia che contraddistingue la sua scrittura Viola Ardone ci consegna il terzo suo romanzo sul Novecento».
Valeria Parrella, «Grazia»

«Il libro di Viola Ardone Grande Meraviglia è davvero importante […] I romanzi non si raccontano, si leggono. E questo vale proprio la pena di conoscerlo. È una scrittura che ha due ritmi, a seconda della voce di chi racconta, ma una uguale capacità di portarti dentro quell'inferno e di farti provare forti emozioni».
Walter Veltroni, «7 – Corriere della Sera»

Premio Campiello 2023

È Benedetta Tobagi la vincitrice della sessantunesima edizione del Premio Campiello con La Resistenza delle donne, uscito nelle Frontiere a ottobre ’22. Il libro ha ottenuto 90 voti sui 288 inviati dalla Giuria dei Trecento Lettori Anonimi.

Queste le parole dell’autrice dopo la premiazione:

«Questo libro mette al centro la resistenza della Costituzione e con essa la resistenza delle donne, è per me un onore essere stata premiata in una cinquina così potente e spero che coloro che mi hanno selezionato si siano fatti toccare dal coraggio quotidiano che racconto tra le pagine del mio libro, un coraggio che nasce dalla scelta di schierarsi dalla parte giusta. Dedico questo premio a tutte le donne che resistono, che non hanno voce e che spero possano trovarla nei libri. A tutte quelle persone che non si girano dall’altra parte e trovano una risposta alle situazioni di disperazione, accolgono e si occupano di contrastare la ferocia delle disuguaglianze» (link).

La Resistenza delle donne è prima di tutto un libro di storie, di traiettorie esistenziali, di tragedie, di speranze e rinascite, di vite. Da quella della «brava moglie» che decide di imbracciare le armi per affermare un’identità che vada oltre le etichette, alla ragazza che cerca (e trova) il riscatto da un’esistenza di miseria e violenza, da chi nell’aiuto ai combattenti vive una sorta di inedita maternità, a chi nella guerra cerca vendetta e chi invece si sente impegnata in una «guerra alla guerra», dalle studentesse che si imbarcano in una grande avventura (inclusa un’inedita libertà nel vivere il proprio corpo e a volte persino il sesso), alle lavoratrici per cui la lotta al fascismo è la naturale prosecuzione della lotta di classe. […] Possiede il rigore della ricostruzione storica, ma anche una straordinaria passione civile che fa muovere le vicende raccontate sullo sfondo dei problemi di oggi: qual è il ruolo delle donne, come affermare la propria identità in una società patriarcale, qual è l’intersezione tra libertà politiche, di classe e di genere, qual è il rapporto tra resistenza civile e armata, tra la scelta, o la necessità, di combattere e il desiderio di pace?

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