Giulio Einaudi editore

Fred Vargas

Il morso della reclusa di Fred Vargas segna il ritorno dell'amato commissario Adamsberg, il nebbioso, beccheggiante, indolente capo dell'Anticrimine al tredicesimo arrondissement parigino che «ha reso la regina del noir francese celebre in tutto il mondo» (Fabio Gambaro, «la Repubblica»).

In questo nuovo capitolo c’è una «storia affascinante e complicata a base di ragni, incidenti misteriosi, storie passate e crimini contemporanei che mette a dura prova l’intuitivo commissario» (Fabio Gambaro, «la Repubblica»). Adamsberg, in vacanza in Islanda, è costretto a tornare per seguire le indagini su un omicidio. Il caso è ben presto risolto, ma la sua attenzione viene attirata da quella che sembra una serie di sfortunati incidenti: tre anziani che, nel Sud della Francia, sono stati uccisi da una particolare specie di ragno velenoso, comunemente detto reclusa.

Per tutti, stampa, opinione pubblica e studiosi, si tratta di una strana coincidenza o, teoria molto diffusa nel web, di un aumento del numero delle recluse a causa del surriscaldamento terrestre. Per tutti, ma non per il commissario capo che sospetta qualcosa, anche se non riesce a dare un nome a questi «pensieri prima dei pensieri». È convinto che le morti non siano casuali ma deve scontrarsi con quasi tutto l’arrondissement: soprattutto con il colto comandante Danglard, ferocemente contrario alle idee del commissario.

Con l’avanzare delle indagini la tensione cresce: si creano due schieramenti, «la squadra di Adamsberg non è certo una comunità idilliaca dove tutto funziona a meraviglia. Come in ogni gruppo, non mancano i conflitti e le contraddizioni. Esattamente come accade nella vita, ma in maniera deformata» (Fred Vargas, intervistata da Fabio Gambaro, «la Repubblica»).

Scavando in profondità emergono episodi di violenze subite da molte donne nella zona di Nîmes, e questi eventi diventeranno centrali ne Il morso della reclusa. È la stessa autrice ad ammettere che «all’inizio non è che avessi in testa di scrivere un romanzo sulla violenza contro le donne, ma poi il libro ha preso questa direzione per tutta una serie di motivi che il lettore scoprirà leggendo»  (Fred Vargas, intervistata da Fabio Gambaro, «la Repubblica»).

Mettere insieme i vari tasselli di questo complicato caso, e ricompattare la squadra, non sarà facile ma Adamsberg  sa che è necessario. Ecco allora che escono con forza gli altri personaggi del libro, i colleghi, i loro problemi e le loro intuizioni: «Non credo che sia possibile risolvere i problemi da soli, credo alla forza del gruppo. Per questo cerco di dare sempre più spazio a quelli che all’inizio erano secondari».

Il risultato è un noir avvincente, particolare dove, oltre all’intrigo criminale «contano l’atmosfera, le divagazioni e i personaggi. Vorrei che alla fine del libro il lettore si sentisse un po’ meglio di quando ha iniziato a leggere» (Fred Vargas, intervistata da Fabio Gambaro, «la Repubblica»).

Il commissario Adamsberg ha reso la regina del noir francese celebre in tutto il mondo Fabio Gambaro, «la Repubblica»

Auður Ava Ólafsdóttir

Un affascinante concentrato di poesia e fantasia, un piccolo incantesimo che conquista il lettore trascinandolo in un mondo straniante e sospeso Claire Devarrieux , «Libération»

Hotel Silence è il nuovo romanzo di Auður Ava Ólafsdóttir, vincitore dell'Icelandic Literature Prize ed eletto Libro dell'anno 2016 dai librai in Islanda, terra natale della scrittrice.

È la storia di Jónas, uomo di quarantanove anni con un talento speciale per riparare le cose. La sua vita però non è facile da sistemare: la madre oramai vive in un ospizio e soffre di demenza, ha appena divorziato e l’ex moglie gli confessa che la loro amatissima figlia in realtà non è sua. Tutte e tre le donne si chiamano Guðrún.

La vita di Jónas ruotava intorno a queste tre figure, «io faccio quello che le tre Guðrún della mia vita mi chiedono di fare», e ora la sua esistenza sembra aver perso di senso. Non si riconosce più davanti lo specchio: «Mi sento i muscoli della parte superiore del braccio, e mi sento gli addominali, ma non saprei dire se io sono quello oppure l’altro. Da questa parte ci sono io e dall’altra il mio corpo. Entrambi estranei allo stesso modo». E sceglie di farla finita.

Jónas non vuole lasciare a nessuno l’imbarazzo di disporre del suo cadavere, soprattutto a sua figlia, e decide di partire per un paese straniero (di cui la scrittrice non svelerà il nome), appena uscito da una sanguinosa e tragica guerra civile, con un solo cambio di vestiti e una cassetta per gli attrezzi – portata per mettere in atto il suicidio.

L’uomo alloggerà all’Hotel Silence, gestito da due fratelli, ancora in piedi ma bisognoso di molte riparazioni. L'incontro con le persone del posto e le loro ferite, in particolare con i due giovanissimi gestori dell'albergo,  fa slittare il suo progetto giorno dopo giorno... La sua buona manualità diventa fondamentale per la comunità. «Lirico e rassicurante (come la vita ogni tanto) è l’avanzare del romanzo, che mette a monte le asperità per lasciarsi ingentilire da incontri e accadimenti» (Tiziana Lo Porto, «D – la Repubblica»).

La Ólafsdóttir è stata capace di scrivere «un affascinante concentrato di poesia e fantasia, un piccolo incantesimo che conquista il lettore trascinandolo in un mondo straniante e sospeso» che, nonostante il continuo confronto fra la vita e la morte, fra la felicità e il dolore, è «pieno di grazia e umorismo» (Claire Devarrieux, «Libération»).

La crisi di Jónas è profonda, a tratti destabilizzante, ma Hotel Silence è anche «un affascinante romanzo sulle seconde possibilità e sui viaggi fatidici, pieno di tranquillità e speranza» («Publishers Weekly»), capace di alternare momenti struggenti ad altri pieni di spirito e tenerezza.

Con una prosa surreale, quasi kafkiana, la favolosa storia di Ólafsdóttir riguarda il risveglio inaspettato di un uomo. Una storia di trasformazione avvincente e sorprendente, raccontata in forma quasi allegorica Kirkus

Andrea Bajani

Promemoria si rivela dunque un libro attraverso cui scoprire diversi, inaspettati gradi della nostra realtà, viaggiare nel multiverso dei mondi possibili, raccogliendo il testimone, a distanza di trent’anni, di un altro importante esordio poetico: quello di Valerio Magrelli con Ora serrata retinae Bianca Garavelli, «Avvenire»

Con questo petit livre, «che ha la forma di annotazioni sul da farsi nel corso della giornata» (Antonio Prete, «il manifesto»), Bajani celebra con ironia, crudeltà e diffidenza il nonsense del mondo. Nel suo esordio in versi sceglie una scrittura poetica essenziale, richiamandosi così alla tradizione italiana del Novecento.

Ospite di Jovanotti al «Jova Pop Shop», l'autore ha ammesso che mettersi in gioco con la poesia «è stato come reimparare a parlare, a scrivere»; durante l'incontro il cantante, grande estimatore di Bajani, ha musicato e dato voce a due poesie di Promemoria.

I calibratissimi versi esprimono lo spaesamento, la solitudine, l'assenza. La scelta ricorrente dei verbi all'infinito rimanda sì all'appunto domestico da appendere, per ricordare, ma esprime anche la ripetitività delle azioni e situazioni umane. Per Tiziano Scarpa, Andrea Bajani è stato capace di ascoltare la nostra lingua, «non soltanto nella sua sapidità lessicale, ma nella sua muscolatura grammaticale; ha assecondato questa potenzialità, questa potenza; le ha obbedito. Fra le pieghe della grammatica ha trovato questa energia e l'ha fatta sprigionare», dando vita ad un libro «abissale».

Promemoria è un libro «che punta all'essenzialità. Il tema è la consistenza del linguaggio: le parole sono indumenti che vanno stretti, rifugi in cui chiudersi a chiave, urne per conservare reliquie, case da arredare, bestie che vanno in calore e abbaiano la notte» (Andrea Cortellessa, «Il Sole 24 Ore»).

Bisogna «lasciare una | sporta di parole per chi resta | lasciare una sporta a parte | per chi nel buio si dispera». Ecco allora che si intravedono come feritoia e spiraglio di speranza in un mondo ingannevole l'ironia e l'amore anche se il senso ultimo dell'esistenza rimane impenetrabile e «imprendibile» (Antonio Prete, «il manifesto»).

In ogni uomo dimora nel profondo una scatola nera, va trovata, suggerisce l'autore, e poi «ascoltata» e alla fine «colorata». Tanti sono gli spunti di riflessione suggeriti dalle parole incisive; è necessario capire perché e quando siamo morti, lasciare indietro i padri, «dentro la tagliola», per affrontare il cammino difficile del vivere.

Quando incontro un libro abissale mi tolgo lo zaino dalle spalle, lascio a terra il paracadute e mi tuffo. Quest’anno è successo con Promemoria di Andrea Bajani Tiziano Scarpa

Joe R. Lansdale

«Preparatevi a ridere a crepapelle per una battuta esilarante per poi coprirvi gli occhi davanti a una feroce sparatoria due righe più sotto».
«Booklist»

«Torbido e avvincente. Lansdale compone un intreccio pirotecnico, riuscendo al tempo stesso a parlare di amicizia, famiglia e lealtà come nessun altro».
«Publishers Weekly»

«Chi conosce Joe R. Lansdale ne consuma le pagine come si fa con le ciliegie».
Gianni Cuperlo

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La leggendaria coppia nata dalla penna di Joe R. Lansdale, alle soglie di una carriera trentennale, questa volta è alle prese con un omicidio a sfondo razziale che minaccia di far esplodere una cittadina dell'East Texas. Proprio quel Texas amato dall’autore, nonostante tutti i suoi difetti. Quel Texas che «ha scambiato ignoranza testarda per pensiero indipendente, ma che resta un posto pieno di gente interessante. Il Texas come stato mentale, un posto mitologico sulla terra reale» (Joe R. Lansdale intervistato da Gianni Cuperlo, «L’Espresso»).

Bastardi in salsa rossa inizia con Hap che, dopo esser stato ferito gravemente, ha realizzato di essere mortale; la sua testa però è dura, l'ha sempre avuta così e, anche se la «fatina della mortalità» ogni tanto turba le sue giornate, ha deciso di riprendere il lavoro con Leonard, il suo storico amico e collega.

Una donna di colore, Louise Elton, che vive a Camp Rapture, un quartiere violento e difficile dove i bianchi non piacciono, dove le regole non esistono, una sorta di Far West, vuole che si indaghi sulla morte del figlio che è stato, secondo lei, assassinato da tre poliziotti bianchi.

Il ragazzo, Jamar, era uno studente modello al Liceo e all'Università; la sua colpa è stata quella di voler far luce sulle molestie subite dalla sorella ad opera di Coldpoint, un agente corrotto. Ci sarebbe un testimone che ha assistito al pestaggio, tale Timpson, e l'indagine parte tra intimidazioni, dubbi, tensioni. Il problema principale è che non esiste alcuna prova del fatto che dei poliziotti l’abbiano ucciso. La sua storia non regge.

Il linguaggio del romanzo è duro come dura è quell'America che l'autore è abituato a raccontare; Lansdale, intervistato da Gianni Cuperlo per «L’Espresso», ha sottolineato come negli Stati Uniti i neri e la polizia abbiano sempre avuto un rapporto scomodo. Succede soprattutto in zone economicamente depresse, dove «i poveri vengono trattati come cittadini di seconda classe, come se fossero nati con il desiderio di essere dei fallimenti e vivere in povertà» (Joe R. Lansdale intervistato da «Gianni Cuperlo, L’Espresso»).

La sottotraccia etico-politca accompagna la storia, trascina il lettore in ambienti dove il male, il bene e la verità sono a volte difficile da distinguere. E lo fa divertendo: «chi conosce Joe R. Lansdale ne consuma le pagine come di fa con le ciliegie» (Gianni Cuperlo, L’Espresso»). C’è violenza ma c’è anche giustizia, sono due lati di una stessa medaglia, quella degli Stati uniti. C’è Hap «che pensa di aver tradito i suoi ideali, anche quando cerca di vivere rispettandoli»; e c’è Leonard, «un uomo pratico che accetta ciò che è». I personaggi «sono Yin e Yang, e si scambiano queste posizioni».

Insomma, «preparatevi a ridere a crepapelle per una battuta esilarante per poi coprirvi gli occhi davanti a una feroce sparatoria due righe più sotto» («Booklist»).

Maurizio de Giovanni

Un uomo viene trovato in un cantiere della metropolitana privo di documenti e di cellulare; qualcuno lo ha aggredito e percosso con violenza. Trasportato in ospedale, entra in coma senza che nessuno sia riuscito a parlargli. Di far luce sull'episodio sono incaricati i Bastardi, che identificano la vittima: è un americano in villeggiatura a Sorrento con la sorella e la madre, un'ex diva di Hollywood ora affetta da Alzheimer. Recandosi a piú riprese nella cittadina del golfo, vestita fuori stagione di un fascino malinconico, i poliziotti si convincono che la chiave del caso sia da ricercare in fatti accaduti là molti anni prima.

 

Souvenir è il nuovo capitolo della serie che vede protagonisti Lojacono e gli altri poliziotti di Pizzofalcone, alle prese con un mistero che ha la sua soluzione in un ricordo lontano e che li porta a uscire, per la prima volta, dalla città.

Un uomo, fra i cinquanta e i sessant'anni, senza documenti e cellulare, giace morente per una serie di percosse violente nel cantiere della metropolitana. In fin di vita viene portato in ospedale, dove inizia la sua personale battaglia contro la morte. Il quartiere dove è stato trovato è Pizzofalcone, proprio quello dei Bastardi, l'armata «irregolare e disordinata» che nel tempo inizia a farsi apprezzare, e della quale «nessuno ride più».

L'ispettore Lojacono e i suoi colleghi, di cui il lettore ormai conosce carattere e inquietudini, devono indagare;  Aragona, munito di un esilarante nuovo capo di abbigliamento, scopre ben presto l'identità della vittima, un americano ospite di un albergo di Sorrento, il Tritone. È il figlio di un’attrice che nel passato è stata una diva del cinema ma che ora è malata di Alzheimer. La donna da giovanissima aveva girato un film, Souvenir, proprio nella costa sorrentina. Forse la chiave del delitto è proprio nel passato, un tempo lontano che, però, «non può essere cancellato».

I poliziotti devono incrociare il presente con quel tempo lontano e sono costretti ad uscire dalla propria città, dal proprio quartiere; emerge una storia d'amore, struggente come un film, che era iniziata in una notte di luna cinquant'anni prima, quando una bellissima giovane donna si era recata a incontrare un uomo che apparteneva a un mondo troppo distante dal suo: aveva molto da perdere ma era certa che ne valesse la pena.

La vicenda si svolge a ottobre, mese usato da De Giovanni come splendida metafora che accompagna il lettore per tutto il racconto: «quasi personificandolo, gli dedica un potente e poetico inserto e lo fa ritornare come un filo rosso in tutto il libro» (Alessia Rastelli, Corriere della Sera, link). Ottobre è il mese da cui è «difficile pretendere sincerità», quando «c’è il mare a sussurrare tutte le avventure della spiaggia e del tempo appena passato che non vuole passare».

Lo scorso anno i Bastardi di Pizzofalcone hanno fatto la loro apparizione anche in tv, nell'omonima serie prodotta e trasmessa da Rai 1: il successo della prima stagione è stato grande e il 27 ottobre sono iniziate le riprese per la seconda, in onda nel 2018. A interpretare l’ispettore Lojacono sarà sempre Alessandro Gassmann.

 

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Luigi Palma, detto Gigi:
commissario.
Souvenir di una brillante carriera.

Giorgio Pisanelli, detto il Presidente:
sostituto commissario.
Souvenir di qualcosa che sembrava qualcos'altro.

Giuseppe Lojacono, detto il Cinese:
ispettore.
Souvenir di un sospetto e di una scoperta.

Francesco Romano, detto Hulk:
assistente capo.
Souvenir di un matrimonio felice.

Ottavia Calabrese, detta Mammina:
vicesovrintendente.
Souvenir di un fine giornata.

Alessandra Di Nardo, detta Alex:
agente assistente.
Souvenir di un colpo al cuore.

Marco Aragona, vorrebbe essere detto Serpico:
agente scelto.
Souvenir di una sciarpa di scena.

Riccardo Falcinelli

Un libro bellissimo, particolare. Falcinelli è riuscito a scrivere un libro in fondo tecnico sui colori con un divertimento quale raramente capita di incontrare. Un miracolo Corrado Augias

 

Riccardo Falcinelli è uno dei più apprezzati visual designer sulla scena della grafica italiana, che ha contribuito a innovare progettando libri e collane per diversi editori; suo è anche il progetto grafico di Einaudi Stile Libero, per il quale ha appena pubblicato Cromorama, il suo ultimo lavoro.

Il libro parla del colore, del suo uso, della sua percezione nel tempo. Come lo stesso autore suggerisce, «non è un saggio storico, ma un racconto in cui alcuni fatti storici circoscritti sono usati come un liquido di contrasto per far emergere le tipicità del mondo contemporaneo. È insomma la storia del nostro sguardo moderno, e di come si è formato».

Falcinelli mette insieme opere d’arte, frutti, oggetti di uso comune e li unisce con interessanti disamine storiche e altrettanti aneddoti, che fanno di Cromorama  un racconto «bellissimo, particolare. Falcinelli è riuscito a scrivere un libro in fondo tecnico sui colori con un divertimento quale raramente capita di incontrare. Un miracolo» (Corrado Augias, Quante storie, link).

Il lettore scoprirà che nell'antica Roma i mantelli dei più alti magistrati, e dello stesso imperatore, erano di color porpora perché era un pigmento costosissimo che si ricavava da alcuni molluschi dell’oceano dopo lo stretto di Gibilterra, davanti alle coste del Marocco; scoprirà come mai madame Bovary era circondata dal blu, perché la Madonna storicamente indossa proprio quell'abito azzurro o perché le matite sono verniciate con l’ormai canonico smalto giallo.

«Tutti i libri che parlano del colore sono libri di storia dell’arte. E mi sono detto: “io voglio scrivere un libro che spieghi come funziona il colore mettendo insieme le grandi opere d’arte e le cose banali che abbiamo intorno tutti i giorni”» (Riccardo Falcinelli ospite di Corrado Augias, Quante storie, link).

Partendo proprio dal colore, Falcinelli offre anche un’acuta e attenta analisi della società attuale, nella quale la produzione di oggetti e di contenuti punta ad una standardizzazione, un’uniformità che sta mutando anche la percezione delle cose nel consumatore: «In realtà noi abbiamo introiettato lo statuto di questi oggetti di somigliarsi fra loro e siamo inclini a preferire sempre quello più uguale agli altri. Pretendendo la serie e non l’eccezione, vogliamo comprare non il singolo oggetto ma la sua idea».

Anche la percezione del colore è variata, e varierà, nel tempo. Un esempio: nel medioevo il blu veniva considerato un colore caldo, il giallo un colore freddo perché associato ad un metallo. Falcinelli ci ricorda «che niente è sempre stato così. Gusti, regole, divieti… tutto cambia. Quello che oggi è inaccettabile, è stato fighissimo in un altro momento e tornerà ad esserlo» (Elena Stancanelli, «la Repubblica»).

Intrecciando storie su storie, e con l'aiuto di 400 illustrazioni, Falcinelli ha scritto un libro «di una bellezza sfolgorante. Un oggetto che scatena il desiderio, impaginato in maniera perfetta, con immagini che incantano» (Elena Stancanelli, «la Repubblica»)

Il libro di Riccardo Falcinelli Cromorama è di una bellezza sfolgorante. Un oggetto che scatena il desiderio, impaginato in maniera perfetta, con immagini che incantano Elena Stancanelli, «la Repubblica»

Matthew Weiner

Il gemello stilistico e tematico di Mad Men, soprattutto per la capacità di Weiner di analizzare come status sociale, ricchezza, genere e classe definiscono tutti noi The New York Times

 

Matthew Weiner è noto per essere il creatore della fortunatissima serie Mad Men e uno dei produttori esecutivi dei Soprano. Heather, più di tutto è il suo esordio letterario, un thriller spiazzante che sembra un lungo piano sequenza. Per il New York Times il libro «è il gemello stilistico e tematico di Mad Men, soprattutto per la capacità chirurgica di Weiner di analizzare come status sociale, ricchezza, genere e classe definiscono tutti noi».

In Italia, Diego De Silva ha scritto che, «come nelle indimenticabili stagioni della serie, in Heather suona costante la musica di una rassegnazione, di una tristezza di fondo che muove i personaggi di Weiner a vivere nella consapevolezza che il mondo non cambia, che ogni storia è una storia di sconfitte ma sono quelle – quelle, e non altre – che uno scrittore racconta» («Tuttolibri – La Stampa»).

I coniugi Breakstone avrebbero voluto di più: più successo, più denaro, più gratificazioni nel lavoro. Mark «non era l'uomo più ricco di New York, ma poteva comunque fare la maggior parte delle cose che facevano i ricchi, tranne comparire sulle riviste». Karen si è sposata in età matura, abbandonando il suo lavoro senza rimpianti per diventare moglie e madre. Nessuno dei due si è mai sentito completamente soddisfatto, davvero apprezzato per il proprio valore… ma il benessere sembra colmare tutte le mancanze.

La nascita di Heather  illumina la loro vita, è bella, solare, empatica, ammirata, «non era una bambina come le altre, era venuta al mondo per far star meglio le persone». È il solo « traguardo che hanno raggiunto in una vita per il resto mediocre, e tollerabilmente infelice» (Diego de Silva, «Tuttolibri – La Stampa»). Cresce con una madre amorevole che la avvolge con le sue attenzioni e con un padre che lotta per avere spazi affettivi con lei.

Nulla fa prevedere l'incontro di Heather e Bobby. Bobby vive nel buio di una esistenza violenta, ha conosciuto droga e prigione, ha trascorso la sua infanzia tra tossici e ubriaconi, ha una madre ma tanti possibili padri, «aveva mangiato mozziconi di sigaretta e bevuto birra prima dei dieci anni».

Quando il ragazzo vede Heather decide che avrebbe posseduto «ogni sua parte e sarebbero stati una cosa sola e lui sarebbe diventato l'inizio e la fine di tutto». Due mondi lontanissimi, in mezzo il destino che ribalta progetti e aspettative e i genitori della ragazza, disposti a tutto pur di proteggerla:

«Il romanzo di Weiner parla delle estreme conseguenze a cui conduce la volontà d’impedire la contaminazione dell’oggetto d’amore, ovvero del terrore che la persona che più ami vada libera nel mondo e si mescoli con vite di segno differente, si sporchi (se è quel che vuole), in un certo senso tradisca» (Diego de Silva, «Tuttolibri – La Stampa»).

Ad ogni singola pagina di questo pur breve romanzo, vibravo letteralmente di tensione in attesa dell'ineluttabile finale. Prima di arrivare al cuore del libro, ogni personaggio deve passare sotto l'affilatissima lama della scrittura di Weiner in un crescendo degno di un quadro di Bosch Nick Cave

Weiner offre al lettore un quadro spietato della società, costruisce una storia vibrante di tensione, «un noir dai tocchi secchi e brutali» (Michele Neri, «GQ Italia») che lo tiene avvinto fino alla fine. «Con uno stile riepilogativo, che non rischia mai l’approssimazione ma (al contrario) definisce accuratamente il profilo dei personaggi e la sequenza degli avvenimenti nevralgici di cui sono fatte le loro vite, Matthew Weiner racconta l’insuperabilità del divario sociale e l’invalicabilità di mondi inconciliabili, dove il dramma prevede sempre il capro espiatorio e la verità si occulta» (Diego de Silva, «Tuttolibri – La Stampa»).

«Heather, più di tutto è una lettura che non si riesce a mettere giù; ma è anche una diagnosi sottile della malattia che avvelena il cuore dell’America contemporanea, una nazione tronfia dell’autocompiacimento della borghesia liberal e ribollente della rabbia e della paranoia di chi vive ai margini. Questa è la terra di Trump, in tutta la sua follia e drammaticità» (John Banville, «The Guardian», link).

Corrado Augias

Un'opera civile e insieme intima, che scava alla ricerca di un'identità le cui radici affondano nei mille diversi volti di un paese grande, bellissimo e tormentato Nick Cave

 

 

Con il suo ultimo lavoro, Questa nostra Italia, Corrado Augias «è andato alla ricerca della vera natura di noi Italiani» (Lilli Gruber, Otto e mezzo, link). Con la solita e riconoscibile voce pacata, l’autore costruisce il romanzo della nostra nazione e, attraverso un viaggio nei luoghi, nel tempo e nella memoria, racconta le tante storie che hanno fatto la grandezza e la miseria del nostro Paese. Scavare nel passato è l'unico modo per capire la crisi di oggi: non è sufficiente scrutarla, seguire la cronaca, osservare ciò che quotidianamente succede.

L'identità di un popolo si costruisce nel tempo e bisogna ripercorrerlo per comprendere. In Italia «questa identità non è facile trovarla forse per la semplice ragione che non c’è. Troppa storia, troppi chilometri da su a giù, troppi secoli, il peso di un lunghissimo passato fatto di guerre, risse tra vicini, odi sedimentati, un differente sviluppo economico, tutte cose che non facilitano la condivisione». Però, se c’è una cosa che ci tiene insieme come italiani, è la ricerca e il raggiungimento, spesso, della bellezza. Come sostiene lo stesso autore, «noi siamo il Paese dell’armonia, abbiamo inventato gli equilibri architettonici, dei giardini, del paesaggio. Quando si parla di questo, si parla di un nostro carattere fondativo, quello che non abbiamo ottenuto in potenza, l’abbiamo ottenuto in bellezza».

L’Italia, o meglio le “Italie” visitate in questo viaggio, suscitano una nostalgia dolorosa e malinconica Paolo Mauri, «la Repubblica»

L'autore, che ha fatto «del leggere e dello scrivere il suo mestiere», per raccontare l'Italia non si affida solamente ai ricordi personali, ma prevalentemente a scrittori e poeti perché crede che «in loro ci sia una specie di sesto senso» che permette di  «captare al primo apparire segnali che alle persone comuni sfuggono o vengono colti più tardi». Ecco allora le voci di De Amicis e D'Annunzio, di Leopardi e di Gobetti; le suggestioni letterarie si intrecciano alle storie delle città, Napoli, la Torino di Levi, Pavese e dell'Einaudi, Venezia e il suo ghetto…

«L’Italia, o meglio le “Italie” visitate in questo viaggio, suscitano nostalgia. Non tanto l’ovvia ammirazione di un passato di cui restano infinite testimonianze, quanto piuttosto la nostalgia di un Paese che sappia nel futuro preservare ciò che ha di meraviglioso continuando a creare meraviglie. Le premesse non ci sono e dunque, ecco secondo me il senso del libro, è una nostalgia dolorosa e malinconica» (Paolo Mauri, «la Repubblica»).

Il tragitto è avvincente, colma lacune e suscita interessi, è una efficace risposta a chi è sfiduciato e vive il declino e la sciatteria culturale dei nostri tempi; capire come sono andate le cose è l'unico modo per riprendere il cammino.

«Augias ha fatto diversi mestieri nella sua vita, quasi tutti legati dalla scrittura ma ha anche il gusto forte della recitazione che lo ha visto spesso sul palcoscenico o in tv. Ecco, anche questo è un libro recitato, e si sente il gusto della affabulazione fatta in pubblico, con le pause ad effetto e gli “a parte” in cui ci si rivolge direttamente alla platea» (Paolo Mauri, «la Repubblica»).

Marco Presta

Marco Presta da oltre vent’anni è il condutture, insieme a Antonello Dose, de Il ruggito del coniglio. Quando cessa di essere la voce dello storico programma, scrive romanzi, «senza mai rinunciare alla sua vena ironica e paradossale» (Riccardo De Palo, «Il Messaggero»).

Il suo ultimo libro, Accendimi, ha come protagonista Caterina, una pasticcera. È fidanzata con Gianfranco, non un marito ma una sorta di riproduzione abbastanza credile, «un tarocco»; suo fratello Vittorio è più grande di cinque anni e non si fa vedere quasi mai, ma quando riappare nascono i problemi. Le sue amiche, così come la sua vita, sono medie.

È una donna che tratta i «i suoi quarant’anni come il ripostiglio di casa: pensava che prima o poi si sarebbe decisa e avrebbe messo tutto in ordine, buttato un po’ di paccottiglia inutile e sistemato per bene gli scaffali». È circondata da uomini che le appiattiscono l’esistenza, non riesce gestire i pasticci della sua vita come fa, molto bene, con quelli del lavoro, anche se l’estetica delle torte risente notevolmente dei suoi stati d’animo; in più, si abbandona al «pericoloso desiderio di abbandonarsi alla speranza. Un lustro di delusioni non era riuscito a eliminarlo».

Poi arriva Antonio. Lui è capace di darle risposte che la sua vita e il suo compagno non le danno. È capace di riaccendere l’entusiasmo, trova parole che le sono spesso d’aiuto.
Ma c’è un problema tecnico non indifferente: «I due non vivono in quartiere o in città differenti, ma in due mondi diversi» (Marco Presta intervistato da Riccardo De Palo, «Il Messaggero»). Antonio infatti è una voce che esce dalla radio e le parla per la prima volta da un vecchio apparecchio del padre trovato nel laboratorio della pasticceria: si appassiona, si arrabbia, «è vivo come è viva la radio».

La radio, entità nel romanzo, impegno quotidiano per l’autore, ha una funzione taumaturgica in Accendimi. Per Presta è l’unico oggetto vivente che abbiamo in casa. È un’amica, una compagna, un sostegno. «Nel libro rappresenta la parte sana, la porta che si apre nella vita di Caterina all’improvviso. Come Alice nel paese delle meraviglie: si sente una voce che dice “dai vieni”, la bambina trova una porticina e da qual momento in poi è tutta un’altra storia» (Marco Presta intervistato da Riccardo De Palo, «Il Messaggero»).

Margherita Oggero

La voce garbata e sorniona di Margherita Oggero, quel procedere piano e profondo della scrittura come l’acqua che ingravida le terre del riso, si coglie dal primo capoverso di questo che è il suo libro migliore. Maurizio Crosetti, «la Repubblica»

 

Nel suo nuovo libro, Non fa niente, Margherita Oggero «affronta il tema incandescente della maternità surrogata, senza cedimenti enfatici e ridondanze retoriche» (Brunella Schisa, «il venerdì – la Repubblica»). Un argomento attuale e, allo stesso tempo, antico come il Vecchio Testamento.

Esther, sposata con il ricco imprenditore Riccardo Olivero, e Rosanna, la cameriera, rompono, con le loro scelte, gli equilibri e lanciano se stesse in una lotta contro le convenzioni. Fanno un patto «contro le leggi dello Stato, della Chiesa e della natura. Ma la natura ha davvero leggi così rigide da non ammettere eccezioni?» Esther, scoperto di essere sterile, «propone al marito di fare ciò che Sara fece per Abramo: chiedere alla serva di concepirlo per lei» (Brunella Schisa, «il venerdì – la Repubblica»).

Ma Rosanna non è Agar. Le due donne vengono da ambienti e storie diverse; Esther, ebrea berlinese, ha vissuto l'adolescenza in una città «audace nelle trasgressioni, irridente e sarcastica… anche se segnata da un sotterraneo presagio di morte»; costretta  poi a fuggire a Zurigo dalle leggi razziali, ha odiato svisceratamente tutto ciò che era tedesco. Vive a Torino, ora, con la sua aria cosmopolita che la rende inaccettabile alla suocera. Rosanna ha trascorso l'infanzia «fra l'inferno domestico e la quotidiana disperante ricerca di cibo», oppressa da un padre trasformato dall'alcol e dalla tragica ritirata di Russia; trova nella famiglia Olivero un riparo dalle violenze domestiche.

Hanno in comune l'umanità e la capacità di guardare avanti e non arrendersi anche se «tra le due il rapporto è complesso: c’è il compiacimento di Esther nel ruolo di maestra che trasforma l’allieva intelligente ma incolta in una donna consapevole delle sue doti e capace di affermarsi nel lavoro; c’è in entrambe la riconoscenza per aver avuto la vita trasformata grazie all’altra; c’è la comune propensione alla schiettezza» (Margherita Oggero intervistata da Brunella Schisa, «il venerdì – la Repubblica»).

Vivono l'esperienza della maternità surrogata con «complicità generosa», con il coraggio del «Nicevò» (Non fa niente), come diceva la trisnonna di Esther, che per le due ha il significato di «una scrollata di spalle, un tentativo di sminuire la portata dei danni subiti. Ma in alcuni casi la gravità è purtroppo irrimediabile» (Margherita Oggero intervistata da Brunella Schisa, «il venerdì –la Repubblica»).

«La voce garbata e sorniona di Margherita Oggero, quel procedere piano e profondo della scrittura come l’acqua che ingravida le terre del riso, si coglie dal primo capoverso di questo che è il suo libro migliore». L’autrice, in piena padronanza dei salti temporali, «riesce a far entrare la storia nelle storie, portando in primo piano i quadri colorati che sono la quinta del suo teatro, pannelli che il burattinaio cambia per accompagnare il passo dei personaggi. Così, non solo sfilano Bartali sull’Izoard e il Muro caduto, i tumulti di un ’68 torinese osservato dal balcone e il jazz dei ruggenti Sessanta, ma entrano nel plot» (Maurizio Crosetti, «la Repubblica»).