Giulio Einaudi editore

Matteo Bussola

Bussola sa scrivere. Usa le parole con accortezza, con cura, come se fossero importanti. Tanto importanti quanto le esperienze che raccontano Michele Serra

 

Dopo il successo di Notti in bianco, baci a colazione, «una bomba atomica […] all'improvviso tutti mi conoscevano come scrittore e quasi più nessuno sapeva che disegnavo», Matteo Bussola, scrittore e fumettista, torna nelle librerie con un libro sull'amore di coppia. Vissuto, immaginato, sperato, fallito.

La vita fino a te è un libro intimo in cui Bussola sceglie di illuminare con le parole ciò che per lui ha senso, l'amore ma anche il dolore e la bellezza, la tenerezza e il rimpianto di ciò che si è perso. Racconta con efficacia emotiva tutti i sentimenti che spesso rimangono nascosti negli angoli ma che continuano ad attirarlo come un'esca: «Affronto un tema che mi sta a cuore: le relazioni con l'altro. Per me l'amore è una forma di sguardo sull'altro. Uno sguardo che ho imparato a caro prezzo perché ho un passato di tragedie sentimentali alle spalle, alcune dovute a me, altre no. A un certo punto ho capito che tutto il dolore che provavo, al punto di pensare di essere io il vero problema, non derivava mai dall'amore ma dalla necessità di avere una persona accanto, proprio nel modo in cui la volevo io. Il dolore nasce sempre da questo, dalla necessità di avere dall'amore qualcosa in cambio» (Matteo Bussola intervistato da Alessia Arcolaci, «Vanity Fair», link).

L'autore non ha paura di mettere a nudo le sue emozioni, di guardarsi allo specchio. Osserva e disegna biografie possibili, incontri e separazioni, strade percorse insieme o abbandonate perché il passo era diverso e alla fine non ci si riconosce più. «Questo è un libro sul quale, per la prima volta, ho fatto anche un lavoro di invenzione. Anche per tutelare alcune persone, perché tutti i racconti del libro partono da esperienze autentiche, ma mi sono accorto che non mi interessava mantenere la fedeltà al dato biografico. Mi interessava mantenere la verità delle cose che volevo raccontare» (Matteo Bussola a Rep.tv, link).

Scorrendo le pagine, dunque, si incontrano non solo l'autore ma tanti personaggi con le loro brevi e illuminanti storie: ogni incontro è una sfida a camminare per un momento insieme, a usare il ponte per raggiungere l'altro: «Tutte le cose migliori della mia vita sono arrivate mentre non le stavo cercando. Compresa la mia compagna attuale, Paola» (Matteo Bussola a Rep.tv, link), a cui La vita fino a te è dedicato.

Paolo Giordano

 

«Accade subito, senza lasciare scampo: in quella prima scena in cui molto, in fondo, è già prefigurato. Tre ragazzi che si immergono nudi, di notte, in una piscina; lo sguardo di una ragazza che dall’alto li scopre, li studia in silenzio, ne accompagna la fuga. È qui, in quella trasgressione insieme innocua e premonitrice, che inizia l’innamoramento per il nuovo romanzo di Paolo Giordano, Divorare il cielo».
Davide Casati, «Corriere della Sera»

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A dieci anni di distanza da La solitudine dei numeri primi, Paolo Giordano torna a raccontare la giovinezza, poi l'azzardo di diventare adulti. Divorare il cielo è la storia di Teresa e del suo incontro con «quelli della masseria», Nicola, Tommaso e Bern, soprattutto Bern.

«Accade subito, senza lasciare scampo: in quella prima scena in cui molto, in fondo, è già prefigurato. Tre ragazzi che si immergono nudi, di notte, in una piscina; lo sguardo di una ragazza che dall'alto li scopre, li studia in silenzio, ne accompagna la fuga. È qui, in quella trasgressione insieme innocua e premonitrice, che inizia l'innamoramento per il nuovo romanzo di Paolo Giordano, Divorare il cielo» (Davide Casati, «Corriere della Sera», link).

I tre ragazzi, tre fratelli non di sangue, vivono in una masseria pugliese, centro gravitazionale del romanzo, aspettando di crescere; li guida Cesare, tra preghiere, lavoro della terra e riflessioni sulla vita. Sono giovani con esperienze famigliari difficili, alla ricerca di un padre, una guida autorevole, e quest'uomo sembra esserlo.

Teresa, giovanissima, va in vacanza con il padre pugliese proprio a Speziale, vicino a quella masseria che la attrae come un magnete; in quell'assolata campagna vive l'esperienza di un amore totale, di un'amicizia il cui ricordo l'accompagnerà per la vita. Si innamora di Bern, il più inquieto, un ragazzo che vuole disperatamente credere in qualcosa, affamato di esperienze, che vuole divorare la vita, il cielo; il suo corpo non sembra mai nutrito a sufficienza di esperienze, assetato di tutto ciò che la vita sembra volergli negare. «È una fame pericolosa: vuoi divorare il non divorabile. Dopo che ci hai provato sei ancora più affamato di prima. Bern, il protagonista di questa storia, è il grande divoratore. Gli altri intorno - Teresa, Tommaso, Nicola - si nutrono dei suoi slanci. Li scambiano per vitalità, e invece sono qualcosa di molto più complesso» (Paolo Giordano intervistato da Silvia Nucini, «Vanity Fair»).

Il rapporto, difficile e doloroso, fra i ragazzi si sviluppa nell'arco di vent'anni, è un cammino di formazione intessuto di sogni, delusioni, passione che rivivrà nei ricordi di Teresa, anche quando molti dei suoi amici non ci saranno più.

«Ho trovato l'operazione letteraria di Giordano molto coraggiosa. Da equilibrista, quasi: ha affrontato il tema del rifondare un mondo dentro una dinamica comunitaria e il tema ecologista senza mettere in ridicolo chi lo pratica oggi in modo quasi mistico: penso ai melariani, ai seguaci di Osho, ai davidiani. Giordano smonta l'illusione di essere veramente diversi. Da un lato dà l'impressione che l'unica strada per la libertà sia fuggire dalla responsabilità, dall'altro affida a questo gruppo di persone il compito di fondare una nuova forma di responsabilità: un nuovo rapporto con la natura, coi sessi, di fratellanza» (Roberto Saviano, «L'Espresso»).

Negli anni in cui Teresa perde, ritrova, ripercorre il suo rapporto con Bern e i suoi fratelli si sente il disperato bisogno di credere in qualcosa, cercando di non morirne o esserne sopraffatti. Un'utopia? «Non lo so, ma ne ho sempre avuto molta nostalgia. La nostalgia di una fede, di una forza superiore che muove le azioni e le orienta. Una specie di nostalgia di quello che manca, che ci manca. Il senso di perdita di qualcosa che non abbiamo avuto» (Paolo Giordano intervistato da Concita De Gregorio, «la Repubblica»).

Fortunato Cerlino

In molti conoscono Fortunato Cerlino come Don Pietro Savastano, il boss della fortunatissima serie Gomorra. Con Se vuoi vivere felice, il suo romanzo d'esordio, è invece nato uno scrittore.

L'autore racconta la storia di un ragazzino, il cui nome è proprio Fortunato, cresciuto in mezzo alle strade di Pianura, quartiere della periferia di Napoli, nei primi anni '80. Gli inseguimenti sul Califfone, le sparatorie in pieno giorno, le condizioni economiche in cui naviga la sua famiglia, non riescono a spegnere la vitalità del protagonista che, grazie alla sua immaginazione e ai suoi sogni, non si arrende e va avanti. È «la storia bella e intensa di un bambino salvato dalla fantasia e dalla voglia testarda di sfuggire a un destino segnato, un racconto di formazione che ha gli accenti della verità e lo stile del narratore di razza» (Titta Fiore, «Il Mattino»).

Questo racconto ci lascia cicatrici, com’è giusto: e la consapevolezza di aver trovato uno scrittore vero nelle pieghe e nelle piaghe di un grande attore Maurizio de Giovanni, «La Lettura – Corriere della Sera»

Fortunato è costretto a vivere una vita «parallela»: la sua infanzia a Pianura è scandita dai morti per strada, da lunghi silenzi in famiglia, dal Canale 21, rete locale che imita i programmi della Rai; ma, al di fuori di questa difficile realtà, sogna di diventare un cantante neomelodico, un astronauta e, prendendo a calci un Supersantos, di vincere dieci scudetti e la Coppa dei Campioni con il Napoli.
Il nome del piccolo protagonista, l'ambientazione del romanzo e l'uso del dialetto napoletano sono elementi che indicano una forte relazione fra il bambino e l'autore anche se è proprio quest'ultimo a specificare che «non è un'autobiografia, però in questa storia tutti gli elementi sono autentici […] Il dialetto ha il sapore della verità, era necessario» (Intervistato da Titta Fiore, «Il Mattino»).

Se vuoi vivere felice «viaggia sicuro e limpido, sospeso tra un realismo diretto e sincero, nobilitato dall'uso di un dialetto autentico, e l'onirica sensazione soggettiva del Fortunato adulto, attore realizzato e prossimo padre felice, che osserva dolente il proprio passato. Che si riconosce come un'esplosione rivista all'incontrario, i frammenti e le schegge che tornano indietro uno e uno per ricomporre un quadro perduto ma mai dimenticato» (Maurizio de Giovanni «La Lettura - Corriere della Sera»).

Fortunato Cerlino ha scritto un romanzo unico, vivissimo, scintillante di intelligenza creativa; il bambino ricorda «l'Arturo di Aspetta primavera, Bandini di John Fante, che è come lui spettatore della durezza di un mondo in cui con la sua famiglia è costretto a una parte secondaria e residuale, e tuttavia è capace di sognare, di inventare, di trasfigurare quella realtà» (Francesco Durante, «Il Mattino»).

Emanuela Canepa

«La prima cosa che mi ha colpito in questo libro è l’intimità, è un libro sussurrato che racconta a tocchi leggeri un personaggio molto interessante. La protagonista è una vera ingenua, ricorda la Stefania Sandrelli di Io la conoscevo bene. Un tipo umano che in tanti nel mondo del cinema sogniamo di raccontare ma che è molto difficile da incontrare [...] La Rosita di questo romanzo è una creatura priva di stereotipi anche se è un personaggio classico: e uno scrittore che riesce a creare un personaggio classico senza cadere negli stereotipi è una rarità».

Umberto Contarello, «L'Espresso»

L’animale femmina segna l’esordio di Emanuela Canepa, vincitrice all’unanimità del Premio Calvino 2017. La giuria, durante la cerimonia, ha definito il romanzo «compiuto, maturo, di esemplare nitidezza nella struttura e incisivo nella lingua, che mette in campo uno spiazzante gioco di seduzione senza sesso e che, pur attento alla psicologia maschile, dà in particolare voce, con stringente analitica, alla forza carsica del femminile».

Rosita, la protagonista, abitava in un paesino vicino a Caserta, con una madre dai gesti imperiosi, meticolosa nell'occuparsi di lei ma incapace di trasmetterle l'amore che desiderava. A casa si sentiva vulnerabile ed infelice, oppressa da quello che gli altri pensavano di lei.

La salvezza sembra Padova dove riesce ad andare a studiare, mantenendosi con un lavoro in un supermercato, e dove, con difficoltà, porta avanti i suoi studi. Un incontro fortuito con un anziano avvocato dai modi signorili sembra offrirle un'opportunità per migliorare la sua vita e proseguire l’università; diventa la sua segretaria ma presto comprende come Ludovico Lepore sia un uomo dall'animo volgare, che approfitta della sua posizione di forza per deridere ed umiliare, che considera le «le femmine animali interessanti», con una debolezza ideologica.

«Sin dal primo giorno nel suo nuovo impiego, si trova invischiata in un sottile gioco psicologico, una sottomissione veicolata da sguardi, rimproveri velati e richiami alla disciplina […] Tutto ciò scatena una danza pericolosa e perturbante, in un racconto appuntito che è soprattutto una liberazione femminile dallo sguardo maschile. (Francesco Musolino, «il Fatto Quotidiano»).

Rosita, abituata al silenzio, obbediente, fragile, sembra destinata a soccombere alla dialettica feroce dell'avvocato; ma i fallimenti e le delusioni, l'esperienza della solitudine e lo sforzo di uscire dall'anonimato a cui la vita a volte sembra condannare, servono a conoscersi e trovare risorse inaspettate… forse la scialba segretaria può vincere nel duello finale. Per lo sceneggiatore Umberto Contarello «la cosa meravigliosamente scorretta di questo libro è la capriola con cui un uomo che esercita un potere abnorme su una donna finisce per produrre in lei una nuova libertà: libera una persona che lei non sapeva di essere. Ricorda My Fair Lady, ma c’è in più questo lato scorretto» («L'Espresso», link).

«L’animale femmina è un sofisticato romanzo d’esordio […] Usa un lessico scelto e del resto la stessa Rosita avverte il lettore che lei ha sempre detestato il dialetto. Dunque è un’autrice sapiente, che, nel montare la vicenda, sa che deve evitare il “romanzesco” d’altri tempi se vuole, appunto, raccontare quel che accade oggi con tutta la drammaticità di un presente senza filtri» (Paolo Mauri, «la Repubblica»).

Aurelio Picca

«Leggendo le pagine trucide e amorose di Picca – uno dei suoi libri più riusciti, visceralmente sofferto – si riscopre il fascino (mostruoso) di una città che sempre cambia e sempre si ripete, ma prediligendo quella di chi non vuole cambiarla, “perché non era capitale di niente” ma “solo la femmina del mondo infame”».
Goffredo Fofi, «Internazionale»

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«Di una Roma così raramente si legge, certo c’è stato Giuseppe Gioacchino Belli con la sua plebe – però altri tempi; oppure, sul piano cronistico, Massimo Lugli con i suoi attenti resoconti. Il caso Aurelio Picca è diverso perché la Roma di cui narra in questo Arsenale di Roma distrutta è sì quella delle plebe e della malavita, filtrata però dalla fantasia e dalla lingua aspra d’uno scrittore eccentrico nel panorama italiano». Così Corrado Augias inizia la sua appassionata recensione del nuovo libro di Aurelio Picca, su «il venerdì – la Repubblica».

In Arsenale di Roma distrutta è la capitale la protagonista di questo viaggio autobiografico e topografico che offre al lettore, con un linguaggio e uno stile a volte nudo e crudo, personaggi e luoghi di una città che non finisce mai di decadere e risorgere.

Magnifica e infame la Roma di Picca, com’è sempre stata. Poiché parlo di un libro aggiungo: pagine che volano sotto gli occhi Corrado Augias, «il venerdì – la Repubblica»

Come un menestrello, l'autore celebra vie e piazza in cui le voci si confondono: c'è Roma all'alba, quella del mercato di via Montebello, c'è il caffè Tazza d'Oro, il teatro Volturno… «I brevi capitoli di Picca corrono sghembi e imprevedibili  verso un assoluto che è al di là di ogni colore locale, di ogni scrupolo di verosimiglianza, di ogni rassicurante sociologia. La Roma di Picca, insomma, possiede in tutto e per tutto la consistenza dell’immaginario» (Emanuele Trevi, «Corriere della Sera»).

Nel libro emergono dal passato, vivi e potenti, personaggi come Chinaglia o Benvenuti, Renatino De Pedis e la Banda della Magliana; l'autore mescola artisti e criminali, poeti e attori, prostitute e garzoni, tutti vivi nella luce della città eterna di cui l’autore ci «ha lasciato un’immagine di rara potenza emotiva, metafisica e carnale al tempo stesso, che difficilmente i lettori potranno dimenticare» (Emanuele Trevi, «Corriere della Sera»).

Il linguaggio di Picca nasce dall’incontro con «Bataille e Blanchot, Rimbaud e Verlaine; ma anche Domenico Rea e Luciano Bianciardi: gente che ha passato il tempo a demolire la propria biografia. E ho capito che quello era il mio stile, l’unica via possibile tra letteratura e vita» (Aurelio Picca intervistato da Antonio Gnoli, «Robinson – la Repubblica»).

Marco Balzano

«Questa storia che si estende dagli anni Venti ai Cinquanta narra l’indecisione tra l’andare e il restare, con il carico di perdite e di eventuali guadagni che comportano l’una e l’altra scelta. Ma soprattutto racconta il dolore dello strappo quando questo è inevitabile e non si sa con chi prendersela. Per questo Balzano, puntando su un fu-paese, ha scritto una storia di sperdimento e di provvisorietà ben radicata nell’oggi. La letteratura resta qui, come il campanile di Curon».
Paolo Di Stefano, «La Lettura – Corriere della Sera»

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Un campanile che emerge appuntito dall’acqua, tanto affascinante e surreale da sembrare un fotomontaggio. Invece è ciò che rimane di Curon, paesino del Sudtirolo al confine fra Austria e Svizzera, sommerso nel 1950 per la costruzione di una diga.

Marco Balzano, scrittore e insegnante milanese, Premio Campiello nel 2015, è partito proprio da questa immagine per il suo nuovo romanzo, Resto qui: «Non credo nei colpi di fulmine. Credo che le cose vadano metabolizzate, ma qua è successa una cosa diversa. Questo campanile che spunta dallo specchio del lago, mi è venuto incontro, mi è sembrato davvero una storia» (Marco Balzano, ospite a «Fahrenheit»).

La storia è affidata alla voce di Trina, una donna caparbia, legata alla sua terra, al suo paese. Odia piangere, è abituata a lottare e lo fa tutta la vita. Quando i fascisti arrivano in quella valle, dove si sente solo l'eco della Storia, la vogliono italianizzare, occupano scuole e municipi, vietano la lingua tedesca, cambiano i nomi alle vie. Vogliono sradicare radici di secoli.

Sarà forse per questo tema resistenziale o per lo stile asciutto, senza un aggettivo in eccesso, che il libro ricorda le migliori prove della narrativa neorealistica italiana Andrea Kerbaker, «Tuttolibri – La Stampa»

Trina vuole fare la maestra, vuole insegnare ai bambini a leggere e scrivere in tedesco, è disposta ad «andare nelle catacombe», le scuole clandestine, rischiando l'arresto, la deportazione. Nonostante tutto resta lì, con suo marito Erich e i suoi due figli perché i fascisti non devono vincere, perché non si abbandonano le montagne, i masi e le strade, anche se cambiano nome.

Resta lì nel '31 quando Hitler dà ai sudtirolesi la possibilità di entrare nel Reich e il paese si divide tra chi vuole andare via e i restanti. Resta lì anche se l'adorata figlia scompare al seguito degli zii verso la Germania, procurandole una ferita non rimarginabile: è a lei che Trina scrive e racconta la storia del suo paese che non c'è più. Resta lì quando Erich sceglie di non tornare in guerra: «Le pagine del disertore in fuga, che prende per mano la moglie e con lei sale la montagna per cercare di raggiungere il confine svizzero, sono le più forti del romanzo» (Paolo Di Stefano, «La Lettura – Corriere della Sera»).

Balzano ha dato vita ad «un romanzo che ha il pregio di crescere di capitolo in capitolo. Come succede con i narratori di talento. Benché ambientata in altra epoca, la storia parla dei grandi tempi di oggi. Le frontiere, il migrare, i dissidi etnici, i soprusi del potere sulla gente comune, le pulsioni autoritarie. Il tutto in un lembo troppo spesso dimenticato del nostro estremo nord, stavolta specchio non solo dell’Italia ma dell’Europa delle scelte difficili» (Gigi Riva, «L’Espresso»).

Diego De Silva

Il nuovo libro di Diego De Silva, Superficie, è un viaggio spiazzante, comico e irriverente nella banale quotidianità del nostro vivere. L'autore sorprende il lettore intessendo una baraonda di frasi fatte per divertire e provocare, mette in scena con ironia il teatrino della modernità nel quale le chiacchiere vengono spesso scambiate per riflessioni originali e acute. Svela il lato tragicamente comico del nostro parlare, nei bar, in famiglia, tra amici e colleghi.

Per Francesco Durante, che ha recensito il libro per «Il Mattino», «la sfida di un libro interamente costruito con frasi fatte prese dallo stupidario universale è stata vinta perché il risultato è esilarante, ma anche perché il libro non è solo un esercizio di stile alla maniera di Queneau, e dà l'idea di essere sempre sul punto di sfondare il limite che si è imposto e attingere una forma più precisamente narrativa».

Anche il lettore più scaltro si ritroverà in quelle frasi, che hanno il pregio di farlo sentire parte del gruppo: «Ormai l'unica voce di sinistra è quella di Papa Francesco», «adesso tutti vogliono fare Macron», «io leggo un po' di tutto», «Napoli non è solo camorra»…

Superficie è sì un lavoro di raffinato montaggio, ma in qualche modo anche il referto, piuttosto agghiacciante, di uno stare al mondo che sentiamo nostro nella sua abissale superficialità Francesco Durante, «Il Mattino»

L'autore prende i luoghi comuni, li smonta, li rovescia o li accosta a una battuta, a un aforisma. È un gioco, sì, ma è anche una sarabanda dell'intelletto in cui le voci, le nostre voci, compongono un quadro divertente della banalità dei nostri giorni, senza mediazioni né riflessioni che appesantiscono la lettura.

Giancarlo De Cataldo

L’agente del caos è un libro tutto da gustare, tangente al noir, ma che vola più alto Massimo Vincenzi, «La Stampa»

Uno scrittore romano, dopo la pubblicazione di un romanzo ispirato alla vita di Jay Dark, un agente americano il cui compito è spacciare droga nei movimenti giovanili per allontanarli dalla rivoluzione, viene contattato da un avvocato californiano di nome Flint: la vera storia di Jay è molto diversa e lui può raccontarla, lui c'era.

Jay è un personaggio doloroso, affascinante, che dopo un periodo di reclusione al Bellevue Hospital, viene reclutato e indottrinato alla legge del Caos dallo scienziato Kirk, «sia un diavolo che un sognatore: da un lato è uno scienziato puro, uno che vuole sperimentare i limiti dell'essere umano, dall'altro lato è veramente un personaggio diabolico» (Giancarlo De Cataldo, «la Repubblica»).

L'agente del caos, l'ultima fatica di Giancarlo De Cataldo, ruota proprio intorno alla figura di Dark, ispirata ad un personaggio realmente esistito, come spiega lo stesso autore nella video intervista rilasciata a Repubblica: «Era un agente segreto doppio, forse triplo, un signore che parlava undici lingue, che è stato il più grandi trafficante di Lsd nel mondo negli anni '60 e '70 e che realmente è stato in Italia, è stato arrestato, è andato in carcere. È diventato amico delle Brigate Rosse, ma anche confidente dei Carabinieri. Ad un certo punto è stato scarcerato ed è scomparso nel nulla. Si chiamava Ronald Stark».

L'esistenza di Jay Dark è caratterizzata da luci e ombre; il lettore rimane affascinato da questo personaggio la cui vita è difficile da ricostruire. Per Massimo Vincenzi, L'agente del caos «è un libro tutto da gustare, tangente al noir, ma che vola più alto e si abbevera alla migliore tradizione della letteratura americana (American Tabloid), senza perdere le radici italiane, si spinge oltre la banalità grazie a personaggi avvincenti e una trama dalla quale non si può sfuggire» («La Stampa»).

Ma qual è la verità su Jay Dark? Lo scrittore romano è ossessionato, vuole scoprire se tutto ciò che gli racconta l'avvocato Flint è finzione o realtà e dovrà decidere se continuare nelle sue verifiche o accettare la leggenda.

De Cataldo, autore dei bestseller Romanzo criminale e Suburra, ammette che L'agente del caos è un libro diverso dai precedenti: «È un racconto che è costato un lungo tempo di gestazione e aggiungo che 30 o 40 anni fa avrei scritto una cosa completamente differente: con i buoni da una parte e i cattivi dall'altra. Ora ho la convinzione che tutti sia più sfumato, più complicato» (Giancarlo De Cataldo intervistato da Massimo Vincenzi, «La Stampa»).

Cristina Comencini

Prima esistevano due coppie. Ora ci sono quattro adulti vivi, ricchi di rimpianti, momenti tristi e rughe allegre, sconcertati da tutta questa libertà. Cristina Comencini affida alle parole la burrasca del cuore in un passo a quattro intenso e profondo, la danza della seconda metà della vita.

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Da soli è il nuovo romanzo di Cristina Comencini, scrittrice, drammaturga e regista che, con la Bestia nel cuore, ha ottenuto la nomination all’Oscar. L’autrice racconta tutto quello che avviene quando un matrimonio entra in crisi: la collezione dei perché (o la febbre di cancellarli), lo slancio verso il futuro (o il culto del passato), la disillusione che spunta da tutte le parti, la certezza che niente cancellerà quella storia d’amore.

Andrea e Marta, Laura e Piero, giunti nella seconda metà della loro vita, si separano dopo trent'anni di convivenza: due matrimoni che sembravano costruzioni invincibili sono scossi da una crisi profonda, simmetrica e dolorosa. Devono fare i conti con i «milioni di pensieri pensati insieme», con i figli che devono accettare la fine dell'amore, con i ricordi delle vacanze, delle letture condivise, dei corpi che si amavano.

Comencini racconta con sensibilità la solitudine che viene dopo le separazioni, il vuoto e il silenzio delle case, una volta animate da tante voci e da una trafficata convivenza. Ora, le abitazioni sono eremi dove i protagonisti cercano nuove libertà ma combattono anche con i ricordi, i rimpianti, le domande sul perché della fine di un amore. «Da soli è il romanzo di chi porta due valigie, vuole dar conto, nel dolore della rottura, di due punti di vista, due reazioni, due linguaggi, due modi di reagire, due sensibilità […] Le due valigie spesso vengono confuse, l’uno distrattamente afferra quella dell’altra e viceversa» (Pierluigi Battista, «Corriere della Sera»).

I figli sono dispersi nel mondo mentre i genitori devono decidere se affrontare nuove convivenze, baluardo alla solitudine, o accettare di vivere in piena libertà, liberandosi anche dei ricordi. L’autrice vuole anche «parlare della precarietà di tutte le relazioni d’amore: mentre una volta, anche nelle tragedie e nei tradimenti, l’idea di una condivisione della vita era possibile, oggi siamo nel regno dell’individualismo assoluto» (Cristina Comencini intervistata da Laura Pezzino, «Vanity Fair»).

In ognuno di noi esistono zone nascoste che a volte diventano così grandi che rendono la conoscenza reciproca difficile e precaria e «il romanzo di Cristina Comencini ci dice che la sofferenza è di tutti, ma non lo è allo stesso modo per tutte e tutti, perché c’è una differenza irriducibile tra il modo in cui la sofferenza è rappresentata dagli uomini e un altro in cui è raffigurata dalle donne, anche se poi tutto si mescola, si sovrappone, oppure si confonde» (Pierluigi Battista, «Corriere della Sera»).

Dori Ghezzi, Giordano Meacci, Francesca Serafini

Per la prima volta Dori Ghezzi parla della sua storia d’amore e della sua vita con Fabrizio De André.

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È stato scritto, e si continuerà a scrivere molto su Fabrizio De André, cantautore fra i più amati dal pubblico italiano, oggetto di un vero e proprio culto che attraversa le generazioni. Lui, io, noi è un libro diverso da tutti quelli pubblicati finora perché a parlare è, per la prima volta, Dori Ghezzi, la donna che gli è stata accanto dal 1974 fino alla morte.

Ad aiutare Dori a raccontare la sua, la loro storia, Giordano Meacci e Francesca Serafini, autori e sceneggiatori del film-evento di Claudio Caligari Non essere cattivo, e di Principe libero, miniserie di due puntate su De André, andata in onda su Rai 1 il 13 e il 14 febbraio. «L’idea di dargli questa forma “collettiva” è nata dal non sentirmi la scrittrice che finge di aver letto e capito tutto, e soprattutto non volevo dar vita all’ennesima biografia. Ci sono alcuni passaggi importanti della mia vita e di quella di Fabrizio che volevamo, volevo, portare alla luce» (Dori Ghezzi, intervistata da Antonio Gnoli, «la Repubblica»).

La loro vita insieme è stata segnata da grandi amicizie, Fernanda Pivano, Marco Ferreri, Paolo Villaggio, Francesco De Gregori, Vasco Rossi… dalla nascita della figlia Luvi, dalla loro carriera di cantanti e dalla scelta coraggiosa di trasferirsi in Sardegna per lavorare la terra e allevare gli animali, «la terra in cui gli opposti convivevano meravigliosamente, un cui l’autentico non aveva bisogno di aggettivi. Non cercavamo la bellezza, o almeno non solo quella, cercavamo una ragione di vita» (Dori Ghezzi, intervistata da Antonio Gnoli).

La Sardegna è stata però anche il teatro del famoso e tragico rapimento dell’Anonima Sequestri, durato quattro mesi, duri e spaventosi: «Ricordo il cielo a volte stellato e bellissimo. Il paesaggio scarno. Le maschere perché non vedessimo i rapitori. All’inizio il rumore degli elicotteri che ci cercavano ma non potevano vederci. Il cibo freddo. E il fatto che una sola settimana ci permisero di cucinare con una bombola e una fornelletto. Era troppo pericoloso, spiegarono. Ricordo un giorno in cui il cielo si fece tutto scuro e all’improvviso vennero i lampi e poi i tuoni. E la pioggia battente che cadeva obliqua. Come ombre, ci davamo la mano con Fabrizio. E pensavamo che anche loro, in fondo, erano dei sequestrati» (Dori Ghezzi, intervistata da Antonio Gnoli).

Fu proprio quel legame «fermo, limpido e accecante» che li sostenne durante il sequestro, li aiutò a tornare alla normalità dopo la liberazione e ad affrontare la malattia di Fabrizio, un cancro di cui in pochi sapevano all’inizio, solo gli amici più intimi.

Lui, io, noi è una storia privata che s'intreccia con di chi, da sessant'anni, ascolta De André. Soprattutto è il racconto intimo, commovente, a tratti perfino buffo, di un grande amore.