Giulio Einaudi editore

I racconti delle donne

Venti storie. Venti autrici.  Da Virginia Woolf a Chimamanda Ngozi Adichie, da Clarice Lispector a Patrizia Cavalli… intelligenza, sincerità e ironia descrivono un mondo vivissimo e sempre in movimento. Ne I racconti delle donne, curato da Annalena Benini, «parlano voci diverse e potenti, spiazzanti e libere, soprattutto libere, di quella libertà che viene dalla gioia e premia il coraggio portando la luce dopo il disastro; tutte le protagoniste hanno vissuto un dislivello di potere, hanno percepito l’attimo in cui l’immagine che avevano di sé si incrinava, si spezzava modificandole per sempre, e hanno saputo raccontarne le conseguenze con onestà, dolore e a volte ironia» (Nadia Terranova, «Il Foglio»).

L’amicizia, l’invidia, l’amore, lo smarrimento, il sesso, la paura, l’ambizione, i figli, gli uomini, le risate, il coraggio: «Alcuni racconti sono di inarrivabile magnificenza, come Quello che si ricorda di Alice Munro o Oggetto d’amore di Edna O’Brien, altri intelligentissimi e di tecnica sopraffina, come La presentazione di Virginia Woolf, una specie di spin of di Mrs Dalloway, o Amiche di Grace Paley» (Elena Stancanelli, «D – la Repubblica»).

«Ogni racconto mi turbava e mi ricomponeva. Li ho centellinati e amati [...] n libro meraviglioso che si vorrebbe continuare a leggere e a scrivere. Grazie» (Rita Armeni)

«Questi racconti li vedi esplodere. Li vedi prendere forma sotto i tuoi occhi, parola dopo parola, infuocarti la testa mentre stai leggendo, insinuarsi nei tuoi ricordi e nella tua esperienza e in quello che sai di te e del mondo, infilarsi di diritto nella vita che fai, che hai, oltre quello che hai letto, dopo quello che hai letto, e continuare a tuonare in lapilli dentro di te. Questi racconti sono tra i più belli che ho letto» (Antonella Lattanzi, «La Stampa»).

La raccolta composta dalla curatrice ha un respiro contemporaneo, raccontare le donne d’altronde significa raccontare una forza che all’improvviso squarcia tutto, oppure si nasconde, o cammina piano e prepara la strada a chi verrà dopo: «si divertono, scrivono, fanno figli, amano e odiano, ma sono vittime di un segreto, qualcosa che vorrebbero ignorare ma incombe: la necessità di sentirsi legittimate. Preziosa questa antologia, anche per le accurate postille di Benini a ogni racconto» (Elena Stancanelli, «D – la Repubblica»).

«Annalena Benini è riuscita a raccontare tutte le donne che siamo state, e che saremo, dando parola alle voci della letteratura» (Andrea Marcolongo)

«Il lettore uomo, alla fine di questo libro, non riesce a capire meglio, a capire non in senso razionale ma come intelligenza emotiva, forma di conoscenza empatica, quale sia la specificità femminile della letteratura scritta da donne. Ma forse può capire che il filo rosso, ciò che avvicina scrittrici sideralmente lontane come Dorothy Parker e Yourcenar, è il come, non tanto il che cosa. Un come che si esprime in un modo di raccontare con una felice spudoratezza che forse, gli scrittori uomini, più attenti, più prudenti, più sicuri di sé, più stanchi, senza il bisogno di sentirsi “legittimati”, non riescono più a mettere tra le pagine» (Pierluigi Battista, «Corriere della Sera»).

Louise Penny

Armand Gamache, il commissario capo della Sureté del Quebec nato dalla penna di Louise Penny e definito dal Times «uno dei detective più memorabili in circolazione», si presenta subito ai lettori: è seduto sul banco dei testimoni e sembra a disagio davanti alle domande del procuratore stranamente ostile e sarcastico. Al centro del processo un omicidio, alla sbarra il presunto assassino. Lo sfondo, dietro alle domande del procuratore e i ricordi del poliziotto, è Three Pines, villaggio immaginario nella foresta canadese, un posto che sembra un porto sicuro, ma che è invece la maglia di una rete di narcotraffico che il commissario vorrebbe sgominare. «Il protagonista assoluto non è l’assassino, e non è neppure Armand Gamache, che pure riveste il ruolo di capo della polizia canadese: il vero protagonista è l’atmosfera che ti cattura sin dalla prima pagina e non ti lascia andare sino al climax finale» (Massimo Vincenzi, «La Stampa»).

Il racconto coinvolge il lettore, lentamente, con abilità; si è subito attratti da una figura inquietante, rievocata da Gamache: «Appena il poliziotto mite e bravissimo dice ho capito che stava succedendo qualcosa di strano quando ho visto la figura con la tonaca nera nel parco del villaggio, ecco che ormai ci sei, dentro la ragnatela, stordito e affascinato, come succede ai lettori di un bel giallo che funziona» (Carlo Lucarelli, «la Lettura – Corriere della Sera»).

Louise Penny ha, nell’arte dell’indagare nella mente degli uomini, la capacità di creare nodi per poi scioglierli con un’abilità da maestra. Massimo Vincenzi, «La Stampa»

Ed è proprio da questo personaggio, che sembra un sinistro mietitore di vite, che inizia la vicenda che Louise Penny racconta con stile, da vera giallista: «È il primo libro che ho letto di Louise Penny […] E non conoscevo l’ispettore capo Armand Gamache con la sua squadra di poliziotti, tra cui Louiselle Lacoste, che dirige la Omicidi e che parla con i morti, promettendogli di prendere l’assassino. Non so come si sentano le mosche invischiate al centro del bozzolo in attesa del ragno. Male, penso. Io invece mi ci sento bene e aspetto così il prossimo libro di Louise Penny e Armand Gamache, e so che ce ne saranno tanti. Perché questo libro è come una ragnatela. Bello» (Carlo Lucarelli, «la Lettura – Corriere della Sera»).

Il romanzo è costruito su due piani temporali diversi: «A novembre la pace del paesino è turbata da una presenza inquietante – una figura incappucciata e con un manto nero che si piazza in mezzo a uno spazio pubblico – e da un delitto che sembra legato a quell’entità misteriosa. A luglio, invece, si svolge un processo che vede Gamache sul banco dei testimoni, incalzato da un magistrato che gli appare ostile» (Giuliano Aluffi, «il venerdì – la Repubblica»).

Poi c’è il finale, «serrato, ricco di colpi di scena e di scontri che non ti aspetti nella quiete, tra i grossi alberi e gli animali che pascolano serene vicino agli uomini […] Tutto è da scoprire, perché Louise Penny ha, nell’arte dell’indagare nella mente degli uomini, la capacità di creare nodi per poi scioglierli con un’abilità da maestra. Ed ecco il trucco è tutto qui: non è un noir, non la Signora in giallo. Tutto sarà bene, fidatevi lettori» (Massimo Vincenzi, «La Stampa»).

Marcello Musto

Karl Marx è tornato attuale, in questi tempi difficili. Attuale come lo sono sempre i classici del pensiero. Con questa Biografia intellettuale e politica Musto ci riconsegna, senza la pretesa di essere esaustivo vista la ricchezza e la complessità del suo pensiero, un grande intellettuale che non appartiene solo al suo tempo e che, in questo saggio, «è diverso, sembra quasi un contemporaneo.
Musto presenta un Marx notevolmente diverso rispetto all’abituale, un Marx si potrebbe dire che appartiene ai nostri giorni e perfino un po’ al futuro» (Corrado Augias, «il venerdì - la Repubblica»).

L'autore è interessato a studiare gli anni maturi del filosofo, quelli che vanno dal 1857 al 1883, quando i suoi interessi e la sua attenzione alle vicende internazionali si allargano e nascono nuove curiosità verso le scoperte scientifiche: «Musto parte dalla critica dell’economia politica affiancandovi subito la ricostruzione dell’attività politica di Marx nel quindicennio considerato, esplora poi le ricerche antropologiche dell’ultimo triennio e conclude ripercorrendo la teoria politica che attraversa tutta la sua vita. L’afflato ‘militante’ della biografia di Musto si risolve nella rivitalizzazione del laboratorio analitico marxiano, fondamentale per giungere a una narrazione storica sensata del mondo contemporaneo, distinta e distante dalle diatribe correnti sulla ‘globalizzazione’ e sul ‘disordine mondiale’» (Giuseppe Vacca, «Il Sole 24 Ore»).

Nella ricerca di Musto è interessante il rilievo dato al ‘plusvalore’, cioè all’appropriazione da parte del padronato del tempo rubato gratuitamente agli operai, trascurando i loro bisogni di acculturazione e in genere di libertà nei rapporti sociali. Rossana Rossanda, «il manifesto»

È attento alla sua biografia perché è convinto che gli eventi della sua esistenza non siano slegati dall'elaborazione del suo pensiero; dedica grande e scrupolosa attenzione alla militanza politica, alla sua corrispondenza e ai manoscritti degli ultimi anni della sua vita. Il risultato di questa ricerca «è un’opera in ogni senso magistrale per l’acribia della documentazione filologica, il rigore della trattazione, la cristallina chiarezza espositiva, l’originalità dell’approccio interpretativo. Già autore di altri fondamentali contributi alla comprensione del pensiero marxiano, Musto ci consegna ora un testo che sconvolge il sonnolento scenario dell’esangue letteratura marxologica, per consegnarci la viva attualità del pensiero di un grande autore classico» (Umberto Curi, «Corriere della Sera»).

Marcello Musto ospite a Quante storie, Rai 3 (video)

Uno studioso rigoroso come Musto sa bene che i molteplici interessi di Marx lasciano sempre aperti nuovi spazi interpretativi ma il suo lavoro arricchisce e soddisfa molte curiosità intellettuali; Secondo Rossana Rossanda nella ricerca dell’autore «è interessante il rilievo dato al ‘plusvalore’, cioè all’appropriazione da parte del padronato del tempo rubato gratuitamente agli operai, trascurando i loro bisogni di acculturazione e in genere di libertà nei rapporti sociali» («il manifesto»).

Kristen Roupenian

Nel dicembre del 2017 il New Yorker ha pubblicato, sia nella versione cartacea che sul proprio sito, un racconto intitolato Cat Person, di Kristen Roupenian, al suo esordio letterario. In pochi giorni il pezzo ha iniziato ad essere al centro di un forte dibattito e ha dato vita a moltissime conversazioni, fino a diventare il caso letterario dell’anno, il racconto più condiviso della storia.

L’omonima raccolta, dodici storie provocatorie su sesso, amicizia, piacere e rimpianto, è figlia di quel racconto. Margot ha 20 anni, lavora nel bar di un cinema dove incontra Robert, più grande di lei; si scambiano i numeri, si scrivono dei messaggi, escono a bere qualcosa ma poco dopo «lei cominciò a sentirsi tremendamente a disagio». L’incontro non è naturale, Margot non è sicura ma, nonostante tutto, ci fa sesso.

Raccontando di un sesso mediocre fatto sull’orlo del consenso ma non del desiderio, Kristen Roupenian ha esposto la questione meglio di mille articoli di cronaca sul tema: si può scegliere di esprimere un consenso circostanziale al sesso anche quando non esiste desiderio sessuale. Michela Murgia, «Robinson - la Repubblica»

«Cat Person non è una storia di stupro o molestie sessuali, ma, piuttosto, sul sottile confine tra gli esseri umani. Nell’estremo realismo con cui racconta un episodio banale, riesce a indagare le trappole, le manipolazioni e le delusioni del dating moderno. “Questa è fondamentalmente una storia che parla del consenso”, dice, “un concetto che ha molte nuance”» (Laura Pezzino, «Vanity Fair»).

La discussione intorno a questa storia si è subito accesa. Aiutata dal clima politico dopo l’elezione di Trump e dall’ascesa del movimento #metoo, ha scatenato forti reazioni: «Quando il racconto è apparso in rete, le prime a condividerlo sono state delle ragazze; dicevano che descriveva un’esperienza che avevano vissuto anche loro: l’idea che esista un punto oltre il quale è “troppo tardi” per sottrarsi a un rapporto sessuale. Si parlava anche, più in generale, del fenomeno del sesso fatto controvoglia quando si è spinte non dall’uso della forza ma da un cocktail micidiale di emozioni e aspettative sociali – imbarazzo, orgoglio, insicurezza a paura» (Kristen Roupenian, «Robinson - la Repubblica»). Poi però sono arrivati anche minacce, insulti e i toni si sono inaspriti. «Come ci si sente quando un proprio racconto diventa virale? Rispondere si sta rivelando imprevedibilmente difficile» (Kristen Roupenian, «Robinson - la Repubblica»).

Ma la forza di Cat Person è che «parlando di una specifica relazione tra due soggetti e raccontando di un sesso mediocre fatto sull’orlo del consenso ma non del desiderio, Kristen Roupenian ha esposto la questione meglio di mille articoli di cronaca sul tema: si può scegliere di esprimere un consenso circostanziale al sesso anche quando non esiste desiderio sessuale» (Michela Murgia, «Robinson - la Repubblica»).

Negli altri racconti della raccolta il preferito della Roupenian è Mordere: «Mentre la scrivevo avevo i brividi, è stato viscerale. Parla della frustrazione di non avere quello che si vorrebbe e, poi, di riuscire a ottenerlo […] Penso che sia tipico di noi donne interrogarci se quello che desideriamo sia giusto o sbagliato. Oddio, anche certi uomini lo fanno» (Kristen Roupenian intervistata da Laura Pezzino, «Vanity Fair»).

 

Gianrico Carofiglio

Il maresciallo dei carabinieri Pietro Fenoglio sta andando verso il congedo. Lontano dalla caserma per un'operazione all'anca e costretto alla fisioterapia, che vive come segno ineluttabile di senilità, non vede l'ora di riprendere il lavoro; anche se sa con sgomento che la pensione si avvicina.

Seguito da Bruna, una fisioterapista attraente ma indecifrabile, condivide il percorso rieducativo con Giulio, un giovane studente di Giurisprudenza che si sta affacciando alla vita con poche certezze, tranne quella di non voler fare l'avvocato come suo padre.

C’è insomma un’umanità dolente e imperfetta, che sbaglia, delinque, a volte uccide. Carofiglio la sdraia sul lettino con la tecnica inesorabile dell’analista, ma lo fa con tutta la pietas di cui ci sarebbe tanto bisogno in questo tempo cattivo. Massimo Giannini, «la Repubblica»

I due parlano, Fenoglio racconta le sue storie da investigatore, tre casi risolti dai quali emerge il suo metodo investigativo: «Gianrico Carofiglio è tornato sul luogo del delitto (letterario) che lo appassiona di più. Investigare sul crimine, per indagare la vita. Sviscerare il meccanismo col quale un bravo sbirro riesce a spremere da un fattaccio di cronaca qualche stilla di verità, per azzardare un metodo che ci consenta di conoscerci e riconoscerci per quello che siamo: il legno storto dell’umanità, per usare l’immagine di Isaiah Berlin» (Massimo Giannini, «la Repubblica»)

Investigare è un arte complessa, l'ego deve rimanere in disparte, bisogna saper costruire una storia, sapersi guardare intorno, saper riconoscere la menzogna, perché tutti mentono: «C’è la menzogna per la sopravvivenza individuale e collettiva: la verità sempre e comunque è un’idea astratta, un obbligo che può confliggere con l’imperativo morale» (Gianrico Carofiglio intervistato da Maria Grazia Ligato, «Io Donna Corriere della Sera»)

Il vecchio carabiniere che ha visto «centosettantuno morti ammazzati» e il giovane che non sa dare un senso alla sua vita condividono, attraverso le storie, un percorso che aiuterà a decifrare l'esistenza e che li cambierà entrambi. «C’è insomma un’umanità dolente e imperfetta, che sbaglia, delinque, a volte uccide. Carofiglio la sdraia sul lettino con la tecnica inesorabile dell’analista, ma lo fa con tutta la pietas di cui ci sarebbe tanto bisogno in questo tempo cattivo» (Massimo Giannini, «la Repubblica»).

Quali sono i segreti di Fedeltà, il nuovo romanzo di Marco Missiroli? Qual è stata la genesi del romanzo? Quanto c’è di autobiografico nelle storie di Carlo e Margherita?

Il 12 febbraio, a bordo di un vecchio tram nella sera milanese, l’autore ha ripercorso i luoghi principali del suo ultimo lavoro, rispondendo alle domande di alcuni amici della casa editrice e svelando dettagli intimi che lo hanno aiutato nella stesura del romanzo. La serata si è conclusa al bar Refeel, il locale dove Missiroli ha scritto Fedeltà: «Per tre anni, tutti i giorni, sei ore e mezza tranne il weekend. Avevo paura di scriverlo da solo. Ho ascoltato moltissimo The National e Conversations with myself di Bill Evans».

La serata ha avuto subito un tono confidenziale: «Sappiate che sul tram rispondo anche a domande alle quali non risponderei fuori. Appena il tram si ferma indosso la mia membrana». Sfondo di questo incontro ovviamente Milano, città che in Fedeltà è protagonista, quasi un personaggio del libro: «Si nasconde e si svela quando vuole lei. È un’amante capricciosa».

Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi

Anna Nadotti: Caro Matteo, ho cominciato a rileggere il tuo Holden - mi sa che facevo quarta ginnasio quando l'ho letto per la prima volta, e non mi segnò se non per qualcosa che non compresi e che forse, chissà, mi ha indotta ad accettare l’incarico di rivedere la nuova traduzione. Ora Holden riprende vita nella tua traduzione, che mi piace moltissimo. Holden, giovane nelle parole e nei tratti. Nel modo impacciato di cacciarsi in situazioni difficili. Con la sua fragile sicumera adolescente e gli spaventi esistenziali difficili a dirsi. E l’intelligente arguzia di Phoebe, più moderna che mai. Ne hai fatto, senza forzatura alcuna dell’originale, una ragazzina del nostro tempo. Sullo scarno paesaggio verbale allestito da Salinger nel 1946, hai lavorato con precisione meticolosa, con un orecchio attentissimo, con intuizioni linguistiche che del resto mi aspettavo dal traduttore di Yellow Birds.

Matteo Colombo: Oh, grazie mille Anna! Io sono qui che limo, scolpisco, soffio, starnutisco per la polvere. Direi che per giovedì il nostro piccolo amico sloggerà FINALMENTE da casa mia. E portandosi le valigie, stavolta.

AN: E io vado in bici a prendere le stampate in casa editrice. Poi con lo stesso mezzo le riporto costellate di appunti e proposte di vari colori, a penna e a matita. Un'artigianalità che, ai miei occhi, dà corpo alle cose e alle parole. E pedalando penso, rimugino, ascolto.

MC: Quanto ho apprezzato ciò che scrivi sull'artigianalità. Ti ringrazio di cuore. È bello parlare con te del nostro mestiere. Leggevo da qualche parte che forse, a breve, le mutazioni cognitive che l'essere umano sta attraversando nell'era digitale si manifesteranno in modo importante. Ma nel frattempo siamo ancora fatti in un altro modo, e rendiamo al meglio solo se possiamo lasciare che la mente unisca i puntini, effettui le sue associazioni, riempia gli spazi vuoti. Perciò evviva la bicicletta, evviva Berlino che, con i suoi grandi spazi e tutte le sue persone, riesce a calmarti lo spirito anche sotto un cielo bianco, e spazzata da un vento non più freddo.

Anna Nadotti e Matteo Colombo durante la revisione

MC: Non ho ancora trovato pace sulla questione «cazzo» (risate in sala). Ne ho aggiunti alcuni qua e là, per esempio per tradurre i rari my ass, che risultavano altrimenti troppo deboli, e ogni tanto facendoli pronunciare a qualcuno di particolarmente furioso. Ma ho lavorato molto a uniformare termini caratterizzanti come stuffphonycanmoron, e una vocina in me continua a pensare che avrebbe senso tentare una sostituzione metodica in tutto il libro. Ho l'impressione che il nostro rigore sulle implicazioni psicologiche della ristrettezza lessicale e della tendenza alla ripetizione di Holden Caulfield sia una delle chiavi di volta di questa traduzione. Magari preparo davvero una seconda versione «virata cazzo».

AN: Sul cazzo non ho dubbi (standing ovation), lo usava già Leopardi. Ma sarei favorevole anche all'anacronismo «cazzeggiare».
Ah, sono riuscita a trovare Il club dei trentanove di Hitchcock, il film preferito di Phoebe. È del '35. Doppiato e distribuito subito dopo, viene ridoppiato nel '59. A quest’ultima edizione faccio riferimento. La prima era rigorosamente aderente ai dettami fascisti. Ho dato un’occhiata anche allo script originale:

«Do you like a haddock?»
«Le va un eglefino?»

L'eglefino (pesce di cui ignoravo l'esistenza) mi piace, trovo che è perfetto per il tuo Holden, anche se Salinger non lo saprà mai, e i suoi eredi ce ne chiederanno ragione.

MC: Quindi che eglefino sia, giusto?

AN: Eglefino sia!

MC: «Lo sa a memoria, quell'accidenti di film, perché ce l'avrò portata qualcosa come dieci volte. Quando per esempio il vecchio Donat arriva alla fattoria, mentre sta scappando dalla polizia e via dicendo, ecco, Phoebe nel bel mezzo del film dice ad alta voce - proprio nel momento in cui lo dice lo scozzese sullo schermo - "Le va un eglefino?" Sa tutte le battute a memoria».

La copertina dell'LP che Holden compra per Phoebe

AN: Me la vedo Phoebe che precede gli attori nel dire le battute, in quella sala buia di un cinema newyorkese. Credo che le sarebbe piaciuto un sacco dire «eglefino» anziché haddock.
Io in questo preciso istante mi stavo interrogando su crazy face.
La soluzione arrabbiatissima - separata da faccia - non mi convince.

MC: Eh, ma infatti crazy, in questo libro, è uno dei termini più problematici, trovo.

AN: Be', diciamo che sono parecchi i termini problematici, perlopiù risolti. Qui mi pare proprio che la faccia sia quella particolarissima di Phoebe, con le sue orecchie piccole, i capelli rossi, carina e pensosa, più adulta della sua età. È arrabbiata, ma anche preoccupata. E quando finalmente toglie il cuscino e si lascia guardare, ecco la sua faccia bizzarra, particolare, in un certo senso unica agli occhi del fratello. Motti traduce «stralunata», ma trovo che fa un po' Pippi Calzelunghe.

MC: «Quando ho fatto il giro del letto e mi sono rimesso a sedere, ha girato la sua faccia buffa dall'altra parte. Mi stava tagliando fuori completamente». Che dici?

AN: Good! A proposito di Phoebe, eliminerei i diminutivi per i vestiti(ni). Io in generale evito, perché subito mi rimanda a immagini di maschietti e femminucce, due termini sui quali sempre si abbatte furiosa la mia matita. Per fortuna la madre di Holden e Phoebe compra alla figlia vestiti pratici, senza ricami, nastri e altri frizzi. Così Phoebe può pattinare tranquilla e pure «imparare a fare scoregge...» Perciò direi vestiti orrendi - e non vestire malissimo - quando Holden allude agli abiti degli altri bambini ricchi.

MC: Completamente d'accordo sui diminutivi. E anzi grazie, perché è una riflessione che non avevo mai davvero fatto, e di cui - insieme con il modo in cui mi hai insegnato a domare la mia eccessiva tendenza a ribaltare le frasi per renderle più naturali/colloquiali/italofone - farò prezioso uso in futuro.

AN: Be', caro signore, questo mi fa molto contenta. Ma mi racconti come se la passa con gli ultimi capitoli.

MC: Quest'ultima parte mi sta mettendo in difficoltà. Credo che mi si sia scatenata qualche insicurezza, forse per aver letto le correzioni in corso d'opera, e le mie soluzioni spesso non mi convincono. Come se non bastasse, verso la fine la traduzione di Motti migliora molto. A tratti è perfetta, e trovare un equilibrio, distanziarsi in modo non pretestuoso - riuscendo comunque a migliorarla - si sta rivelando difficile. Dopo quasi un anno di beata incoscienza, comincio ad avvertire la pressione.

AN:Capisco benissimo l'ansia: lo dico dopo Mrs Dalloway - e con il Faro all'orizzonte - dunque a ragion veduta... a esperienza fatta e in fieri. Non ti curar di lor ma guarda e passa, diceva un signore di mia conoscenza. E non è un cattivo insegnamento. Perché di solito mi consente di concentrarmi sull'essenziale, sulla cosa in sé, che nel tuo caso è Holden, la sua lingua connotatissima. E solo in seconda istanza la traduzione di Motti. Capisco la tua ansia performativa (ho letto Mrs D non so quante volte, prima di decidere che dovevo lasciarla andare), ma vorrei rassicurarti sulla buona tenuta della tua performance fin qui. Le mie correzioni, i miei suggerimenti in corso d'opera intendevano essere, anzi sono stati, anzi sono un contributo alla tua traduzione.

MC: Ti ringrazio per il calore della tua mail. Era il momento giusto per leggere quelle parole, perché stavo perdendo un po' il filo. E hai ragione in quello che dici: ultimamente ho spostato troppo l'attenzione sulla traduzione di Motti, impantanandomi in una terra di mezzo un po' nevrotica che rischierebbe di fare lo sgambetto alla mia cosiddetta «voce». Ancora una volta trovo cruciale potermi confrontare con te che sei alle prese con un lavoro di ritraduzione immane (il faro, correggimi se sbaglio, è ben più tosto della signora), e condividi quindi le sfumature di questo tipo di esperienza.

AN: Abbiamo quasi finito. Grazie Matteo, hai restituito a Holden la sua tenerezza, la sua ancora incerta sessualità, le sue paure, e con ciò anche quella madness-pietas di reduce che vedevo in Septimus Warren Smith... E nel modo in cui Holden guarda, descrive, capisce sua sorella Phoebe mi è sembrato di cogliere l’affetto, o forse l’amore di chi ha conosciuto se stesso, e per se stesso dispera. Truth («La verità mi fa male, lo sai…») E lo sapeva anche Salinger, che torna negli Stati Uniti gravato dalla memoria dei campi di battaglia e dei campi di concentramento europei, e relativa sindrome per cui venne ricoverato in una casa di cura.

MC: Truth, in effetti è un sostantivo pesante. È l'antitesi di quell'onnipresente phony, l'altro polo del manicheismo adolescenziale di Holden, e andrebbe preservato, soprattutto in apertura. Nel resto del libro sarei tentato di privilegiare una versione più veloce e sonora, «se proprio devo dire» o simili, perché a mio avviso, nel Catcher, la riflessione sul significato e sulla valenza dei singoli termini va costantemente stemperata con quella sulla tendenza di Holden alla ripetizione delle formule. Spesso ha l'effetto di svuotarle del significato, rendendole più simili a sintomi di dinamiche mentali, del suo bisogno di rassicurarsi e tenere sotto controllo la realtà con le parole, perché non si disgreghi del tutto.

Matteo Colombo, Il raccoglitore nella segale (CTRL+V su Photoshop, 2014)

AN: Sono assolutamente d'accordo. E sulle due questioni in sospeso dell'incipit cosa mi dici?

MC: Ripristinerò senz'altro la ripetizione di want, mantenendo però la mia prima versione di hear about it: «se davvero volete sentirne parlare». «Starmi a sentire» mi piace molto, ma trovo che sottolinei troppo l'accezione uditiva, a mio parere in contrasto con il fatto che si tratta di un testo scritto. «Sentirne parlare» al mio orecchio risulta più vago, e quindi più fedele.

AN: «Vagamente fedele», molto suggestivo.

MC: Ciao. Per quanto fantascientifico possa sembrarvi, ho finito. Ora mi straccio i vestiti e corro nudo a urlare per strada. Mi trovate sulle pagine esteri.

AN: Mi raccomando non farti arrestare, perché martedì ti aspettiamo in casa editrice.

MC: Arrivo!
Cara Anna,
siccome immagino che tu MUOIA dalla voglia di sapere cos'è successo a Holden dopo che il tuo lavoro si è concluso, eccoti un frizzante bollettino dalla trincea.
Le ultime tre settimane prima dell’andata in stampa sono state frenetiche. Ho trascorso ore e ore su Skype con l’editor Einaudi, rapiti da una foga di perfezione inebriante ma faticosissima. Sentivamo di giocarci la faccia, e quando siamo rimasti da soli a tirare la volata, ci ha preso la tensione. È stato tutto un lavoro di ripristino delle coerenze interne, di musicalità, di «de-colombizzazione» (ovvero la caccia ai miei tic linguistici, anche infinitesimali), ma soprattutto di progressiva modulazione del registro, anche questa infinitesimale. Un momento bellissimo, comunque, benché estenuante.

«Chissà dov'erano andate le anatre. Chissà dove andavano le anatre quando il lago gelava e si copriva di ghiaccio. Chissà se arrivava qualcuno in furgone che le caricava tutte quante per portarle in uno zoo o chissà dove. O se volavano via e basta».

MC: Ora te lo posso dire: piaceva a tutti, questa traduzione, tranne a me. Mi mancava qualcosa di indefinibile, non sentivo di essere arrivato in fondo. Durante tutta la lavorazione, il mio pensiero costante è stato: «Fai, per una volta in vita tua, qualcosa al meglio delle tue possibilità». Finalmente sento di averlo fatto. Poi ho paura, sia chiaro. Ho cominciato ad avere incubi abbastanza pittoreschi sull'uscita del libro: ora che è finito, non riesco più a tenere a bada la tensione. Ma quest'esperienza incredibile non me la toglierà nessuno.

Anna Nadotti e Matteo Colombo

Paolo Colagrande

Il proscenio di questa storia divertente, ironica, paradossale, è un «sobborgo mediopolitano» circoscritto dalla privativa di sali, tabacchi e valori bollati dei fratelli Venanzio e Isaia Landemberger, soprannominati Fosforo, e dalla mescita Enterprise. La fonte che testimonia la vicenda umana di Buttarelli è Gualtieri, l'amico nullafacente.

Chi era Buttarelli? Un caso difficile sin da bambino, nella scuola convitto Dioscoride Polacco, quella dai molti divieti, dove la severa direttrice Maribèl non era in grado di far fronte ai suoi strani comportamenti. Buttarelli non mangiava, era ossessionato dalle differenze e dalle divisioni ma, soprattutto, studiava i libri a pagine alterne perché era in grado di leggere solo quelle di destra, quelle pari.

«Come già avveniva nei precedenti romanzi di Colagrande, il punto di vista coincide con una sorta di piano sequenza rasoterra dove tutto è narrato come se appartenesse al mondo minerale, e dove l’obiettivo talora si innalza ad altezze panoramiche da cui è possibile misurare l’universo e il destino. Senza discostarsi mai troppo da quella voce popolare semicolta che ha in Celati e Cavazzoni due indiscussi maestri, Colagrande declina la realtà in una direzione comica e stralunata che rende La vita dispari un libro su cui fissare la nostra attenzione» (Chiara Fenoglio, «la Lettura – Corriere della Sera»).

Un romanzo imperdibile, che si candida ad essere uno dei migliori della stagione. Fabrizio Ottaviani, «il Giornale»

L’autore ci trascina in un’inusuale e divertente parabola esistenziale offrendo varie chiavi interpretative e vari livelli di lettura, con un finale che è «un susseguirsi di colpi di scena che non vanno rivelati. Rimane la capacità di Colagrande di mettere insieme un romanzo che non è un romanzo ma che soprattutto non è italiano […] La sua scrittura vola verso altri lidi che lasciano uno strano sapore nella bocca del lettore. Era tanto, tolto il noir, che uno scrittore non riusciva ad uscire così bene dagli stereotipi italiani. Risate e magia» (Massimo Vincenzi, «Tuttolibri - La Stampa»).

Il mondo, visto dagli occhi di Paolo Colagrande, è un posto in cui l’uomo è stato messo per sbaglio; «il lettore è accompagnato per mano ad assistere alla deriva del racconto stesso, in un gioco di specchi volto a denunciare la difficoltà di descrivere in modo univoco ciò che si stima chiaro ed esplicito, ed è invece per lo più falso e fuorviante» (Chiara Fenoglio, «la Lettura – Corriere della Sera»).

L’11 febbraio Javier Marías a Milano per la cerimonia di premiazione

Il 12 dicembre è stato annunciato il libro dell’anno 2018 per la Lettura – Corriere della Sera. La giuria della Classifica di Qualità, presieduta da Marzio Breda (segretario Severino Colombo), ha assegnato il premio a Berta Isla di Javier Marías, uscito a maggio nei Supercoralli: «Un libro che si addentra nelle pieghe di un amore imperfetto e nel mistero che ogni cuore nasconde, anche a chi crede di conoscerlo a fondo».

L'11 febbraio l'autore è ospite al Teatro Grassi di Milano per la cerimonia di premiazione, intitolata Javier Marías, la forza della parola e organizzata da la Lettura.

Lo scrittore spagnolo partecipa alla cerimonia di premiazione che si aprirà con i saluti del presidente della Fondazione Corriere, Piergaetano Marchetti, del direttore del «Corriere della Sera» Luciano Fontana e del direttore editoriale di Einaudi Ernesto Franco, coordinati da Antonio Troiano, responsabile delle pagine culturali del quotidiano. Di seguito la conversazione tra lo stesso Marías e il linguista Giuseppe Antonelli.

Targa in piazza Sapožkovaja, a Mosca, sulla sede del Comitato Esecutivo dell'Internazionale: «In questo palazzo, nel 1922-23, lavorò un personaggio chiave del comunismo internazionale e del movimento dei lavoratori, il fondatore del partito comunista italiano, ANTONIO GRAMSCI»

Il 2 giugno 1922, Antonio Gramsci arriva a Mosca, in treno da Berlino, con la delegazione del Partito Comunista d’Italia, capitanata da Amadeo Bordiga, per partecipare agli incontri del Comitato Esecutivo dell’Internazionale. A Torino, ha lasciato una situazione drammatica, con le squadracce fasciste in piena attività, e in Russia non lo attendono mesi di riposo. Sa che Zinov’ev e i bolscevichi, per fronteggiare l’onda nera, chiederanno ai comunisti italiani di tornare insieme ai socialisti, che nel frattempo hanno espulso Turati. Sa che Bordiga non ne vuole sapere, Nenni neppure, e a lui toccherà tentare mediazioni impossibili. Per di più, anche il clima di Mosca non è per niente piacevole: fame per le strade, caldo afoso nell’aria e l’apprensione per la salute di Lenin, che una settimana prima ha avuto un colpo apoplettico.

Il risultato è che s’ammala pure Gramsci, tanto che a luglio lo mandano a riprendersi in un bel sanatorio alla periferia della città. Qui conosce Evgenija Šucht, segretaria di Nadja Krupskaja, figlia di un vecchio amico di Lenin e ricoverata per una paresi alle gambe. Ma soprattutto conosce sua sorella Julja, nata a Ginevra, vissuta a Roma e diplomata in violino al conservatorio di Santa Cecilia.

Sul colpo di fulmine che scocca in quei giorni d’estate tra Antonio e Julja/Giulia sono state scritte decine di pagine, ma soltanto due studiose – almeno a nostra conoscenza – si sono occupate dei risvolti “bogdanoviani” della loro relazione. Sono Maria Luisa Righi (Gramsci a Mosca tra amori e politica (1922-1923), in «Studi Storici», a. 52, 2011, 4, pp. 1005-1008) e soprattutto Noemi Ghetti, nel suo libro La cartolina di Gramsci. A Mosca, tra politica e amori, 1922-1924 (Donzelli, 2016).

Molti lettori di Proletkult hanno notato una certa somiglianza “di famiglia” tra le idee di Bogdanov sulla “cultura proletaria” e quelle di Gramsci sull’egemonia. Eppure il legame tra i due non è mai stato oggetto di indagini approfondite. Nel 1981 un’altra studiosa, Zenovia Sochor, pubblicò un articolo intitolato Was Bogdanov Russia’s answer to Gramsci? (in «Studies in Soviet Thought», vol. 22, n.1, feb. 1981, pp. 59 – 81). Ecco un breve estratto dalle pagine introduttive:

«Da un punto di vista cronologico, com’è ovvio, Bogdanov precede Gramsci, ed è del tutto possibile, sebbene difficile da provare, che Gramsci avesse familiarità con le idee di Bogdanov. Le due scuole di Partito organizzate da Bogdanov nel 1909-11 si tennero a Bologna e Capri; di conseguenza, qualcosa del lavoro di Bogdanov era probabilmente noto nei circoli del Partito italiano. Uno specifico punto di contatto si ebbe nel 1920, quando una delegazione italiana prese parte a un incontro, a Mosca, subito dopo il secondo congresso del Comintern, per stabilire un ufficio internazionale del Proletkul’t. Infine, Gramsci visse a Mosca tra maggio 1922 (in realtà giugno – NdWM2) e dicembre 1923, e fu senza dubbio informato di alcune tendenze e dibattiti all’interno del Partito bolscevico».

L’autrice prosegue affermando che il tema del suo articolo non è tanto l’eventuale contatto diretto tra le idee di Bogdanov e il pensiero di Gramsci, quanto piuttosto il loro parallelo sviluppo.

Tuttavia, proprio in quell’anno, compariva un saggio del grande storico italiano Cesare Bermani, dove quell’eventuale contatto veniva ampiamente testimoniato (Breve storia del Proletkul’t italiano, in «Primo maggio», 16, 1981/82, pp. 27-40). Lo stesso autore, già nel 1979, aveva affrontato la “quistione bogdanoviana” – che evidentemente gli stava a cuore – in un articolo su temi solo in apparenza distanti (C. Bermani, “Letteratura e vita nazionale. Le osservazioni sul folclore”, in AA.VV, Gramsci, un’eredità contrastata, Ottaviano, 1979).

Cesare Bermani

Bermani afferma senza mezzi termini che «soltanto ragioni dogmatiche hanno impedito di cogliere appieno il profondo e duraturo influsso del Proletkùlt sull’elaborazione gramsciana, del resto chiaramente avvertibile da chiunque scorra le annate de “L’Ordine Nuovo”, sia settimanale sia quotidiano. Nel periodo 1920-22 l’adesione gramsciana alla tesi del Proletkùlt è infatti totale. Ci sarebbe quindi di che stupirsi che soggiornando in Unione Sovietica dal maggio 1922 al
novembre 1923 Gramsci non avesse cercato di conoscere più da vicino le idee che sorreggevano l’elaborazione del Proletkùlt, tanto più che il dibattito attorno alla cultura borghese e proletaria, alla necessità di avvalersi di specialisti borghesi, assumeva in quel periodo in Urss toni accesi e la polemica tra i fautori del Proletkùlt e lo stesso Lenin tendeva a inasprirsi».

Secondo Bermani, «la simpatia di Gramsci per gli scritti di Lunačarskij è ampiamente documentata. E se non è stato dimostrato che l’opera di Bogdanov abbia avuto su di lui una influenza diretta, tuttavia alcuni studiosi hanno riscontrato nei Quaderni dal carcere una serie di posizioni e argomentazioni coincidenti con l’elaborazione bogdanoviana».

In particolare, argomenti comuni ai due pensatori sarebbero l’organizzazione scientifica del lavoro, la teoria del partito come scienza dell’organizzazione, il superamento della divisione tra “materia” e “spirito”, frutto della divisione del lavoro capitalista, l’importanza di formare intellettuali organici alla classe, l’egemonia come farsi di una nuova cultura, la critica a un certo marxismo “positivista” di stampo ottocentesco e il concetto di “esperienza socialmente
organizzata”. Bermani cita, in proposito, la relazione tenuta da B. Jarosevskij al convegno gramsciano di Mosca (1967) e il libro del tedesco C.Riechers, Antonio Gramsci. Il marxismo in Italia, Thélème, 1975. Quindi riporta alcuni scritti gramsciani del ’17-’18, dove la questione della cultura viene affrontata con affermazioni che sembrano prese pari pari dal compagno Lunačarskij.

Nel dicembre ’17, sulle pagine piemontesi de L’Avanti! si discute la proposta di istituire a Torino un’associazione di cultura socialista. Gramsci interviene sostenendo che «esistono dei problemi filosofici, religiosi, morali, che l’azione politica ed economica presuppone, senza che gli organismi politici ed economici possano in sede propria discuterli. L’associazione sarebbe la sede propria della discussione di questi problemi».

Il 1° giugno 1918, su Il Grido del Popolo, Gramsci ricorda che nel dibattito per «l’istituzione di una Associazione proletaria di cultura […] la redazione torinese dell’Avanti! aveva posto il problema negli stessi termini di Lunačarskij». Il riferimento è a un articolo dello stesso Lunačarskij, pubblicato poche pagine più in là. E dalla sua lettura si deduce che Gramsci era al corrente, almeno in parte, della polemica tra Lenin e i proletkultisti, schierandosi apertamente con questi ultimi.

Di nuovo su L’Avanti!, nel giugno 1920, Gramsci si chiede: «È possibile già da oggi identificare gli elementi che sviluppandosi porteranno alla creazione di una civiltà (e di una cultura) proletaria? Esistono di già elementi per un’arte, per una filosofia, per una morale (per un costume) propri della classe operaia? E’ un perditempo occuparsi di questi problemi?». L’ultima domanda è ovviamente retorica.

Ma ormai Gramsci, da più di un anno, ha fondato una sua rivista, L’Ordine Nuovo (sottotitolo: rassegna settimanale di cultura socialista), ed è su quelle pagine che dobbiamo spostare l’attenzione per proseguire la ricerca.

I numeri dell’Ordine Nuovo settimanale si possono consultare on line in formato digitale. Cercando l’espressione “cultura proletaria”, si trovano, nell’ordine:

un articolo (non firmato) in cui Gramsci propone di creare dei “soviet di cultura proletaria” dove stimolare gli operai a “farsi una concezione del mondo” («Cronache dell’Ordine Nuovo», 12 luglio 1919).

– Un lungo reportage intitolato «Il “Proletkult” russo» e firmato da “un compagno russo” (12 giugno 1920).

Una testimonianza in cui Gramsci ricorda la fondazione della nuova rivista: «L’unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura proletaria» («Il programma dell’Ordine Nuovo», 14 agosto 1920).

– Un testo di Lunaciarski (sic) dal titolo «Cultura proletaria» (28 agosto 1920).

Il manifesto del Kultintern, l’Ufficio Internazionale di Cultura Proletaria (firmato, per l’Italia, da Nicola Bombacci) («Per la cultura degli operai», 16 ottobre 1920).

– Un articolo di Gramsci (non firmato), dove di nuovo si menziona il Commissario del Popolo all’Istruzione Anatolij Lunačarskij («Cronache dell’Ordine Nuovo», 11 dicembre 1920):

«Il movimento di Cultura proletaria, nel significato rivoluzionario che a questa espressione ha dato in Russia il compagno Lunačarskij […] tende alla creazione di una Civiltà nuova, di un nuovo costume, di nuove abitudini di vita e di pensiero, di nuovi sentimenti: tende a ciò promuovendo, nella classe dei lavoratori manuali e intellettuali, lo spirito di ricerca nel campo filosofico e artistico, nel campo dell’indagine storica, nel campo della creazione di nuove opere di bellezza e di verità».

Nel frattempo, in Russia, sono iniziate le manovre per soffocare l’autonomia del Proletkul’t, trasformandolo in una delle tante istituzioni educative del Narkompros, il ministero dell’Istruzione. Il 1° dicembre 1920, la Pravda ha pubblicato il decreto «Sui Proletkul’t», emesso dal comitato centrale del Partito. L’autonomia dell’organizzazione ispirata da Bogdanov, viene criticata come tentativo piccolo-borghese di creare un istituto estraneo al potere sovietico. Un covo di futuristi, decadenti e idealisti, dove filosofi contrari alle idee di Marx cercano di manipolare i lavoratori con i loro “sistemi” e la costruzione di Dio. Il Partito non è intervenuto prima perché impegnato da altre emergenze, ma ora che la guerra civile è terminata, intende prendere in mano la situazione.
A metà dicembre, si dimette il presidente nazionale del Proletkul’t, Pavel Lebedev-Poljanskij e al suo posto viene nominato Valerian Pletnev, favorevole alle direttive del Partito e all’assorbimento nel Narkompros. Inizia così il canto del cigno del Proletkul’t: con l’avvio della NEP gli vengono tagliati i fondi, gli iscritti diminuiscono, Bogdanov non è riconfermato nel gruppo dirigente e nel novembre del 1921 dà le dimissioni da ogni incarico, poco prima di partire per Londra con il suo vecchio amico Leonid Krasin.

Quante di queste notizie giungono in Italia, e in particolare alle orecchie di Antonio Gramsci, che come abbiamo visto era già abbastanza informato della diatriba tra bolscevichi sul ruolo (e la priorità) della cultura?

Per rispondere, abbiamo sempre le pagine dell’Ordine Nuovo, anche se non possiamo più consultarle in formato digitale, perché la scansione on-line riguarda solo l’edizione settimanale, mentre dal 1° gennaio 1921, la testata si trasforma in quotidiano, e dal 21 gennaio diventa il «quotidiano del Partito Comunista».
Bisogna quindi sfogliare l’edizione anastatica in quattro volumi, pubblicata nel 1972 da Editori Riuniti, per imbattersi, nelle primissime pagine, alla data del 6 gennaio, nel programma dell’Istituto della Cultura Proletaria, steso dal compagno Zino Zini:

«Non basta – si legge nel documento – che la classe lavoratrice maturi la sua coscienza politica nella dura esperienza della lotta quotidiana, diretta e controllata dall’organo adeguato a questo ufficio, che è appunto il Partito socialista. […] Il proletariato non potrà aspirare alla propria redenzione, e molto meno assicurarsi i frutti della sua vittoriosa affermazione politica ed economica, se prima non crea per se stesso un modello nuovo di educazione, che sia l’espressione spontanea, diretta, immediata dei suoi bisogni, delle sue aspirazioni, del suo ideale di civiltà e di umanità».

Il 12 gennaio compare l’annuncio “a tutte le organizzazioni proletarie” dell’assemblea “per la definitiva costituzione dell’Istituto di Coltura Proletaria (sic).” Il giorno seguente si tiene la riunione, nel salone sotterraneo della Camera del Lavoro. I convenuti approvano lo statuto ed eleggono il Comitato provvisorio. Il primo nome dell’elenco è quello di Antonio Gramsci.

Le prime iniziative sono concerti di musica classica e canto popolare. Il 27 febbraio si tiene “un contraddittorio sul compito e la funzione degli intellettuali”, al quale partecipa Giuseppe Prezzolini, “quale rappresentante degli intellettuali “senza partito”, di coloro cioè che nel caos degli avvenimenti storici credono basti avere come punto d’orientamento l’amore per la verità e la ricerca delle soluzioni tecniche dei diversi problemi che si presentano nell’attività politica degli uomini”. Gli altri relatori sono Mario Montagnana, Giovanni Casale, Luigi Cattaneo e Zino Zini, chiamati a rispondere a domande come: “Esiste una classe degli intellettuali? Esiste una cultura proletaria?”. Il 10 marzo viene pubblicata “la riproduzione del significativo disegno che porterà la tessera del nostro Istituto di Cultura Proletaria”. L’inizio di attività regolari è dato per imminente, suddivise tra educazione fisica (ginnastica) e intellettuale (arte, scienza, politica). Nel frattempo, è prevista una visita al Museo d’Arte Antica e d’Arte Applicata all’Industria, quindi al museo del Libro e al Borgo Medievale del Valentino. Queste
gite sono seguite spesso dall’istituzione di premi per chi ne scriverà una relazione. Nel caso del museo d’Arte, l’Istituto invita i partecipanti a inviare “la fissazione in disegno di un dato oggetto, la riproduzione di uno stile, di un merletto, ecc., ciò che potrà anche venire formando a sua volta una interessante raccolta proletaria di arte moderna applicata, a dimostrazione della nostra forza creativa.”

Il 15 aprile parte un corso regolare e gratuito di pronto soccorso, in 15 lezioni, con diploma finale. Scopo dell’iniziativa è avere un buon numero di compagni capaci di medicare i feriti negli scontri con i fascisti. Ma i partecipanti non hanno ancora seguito tre lezioni, quando il tornitore Torrero finisce con la testa spaccata per aver difeso Gramsci da un’aggressione (21 aprile), preludio all’incendio della Camera del Lavoro di corso Siccardi 12, oggi Galileo Ferraris (25-26 aprile 1921).
In questo clima di violenza, con le elezioni di maggio ormai alle porte, le notizie sull’ICP si fanno molto più rare. Se ne riparla il 2 giugno, con la fine della scuola di pronto soccorso e la distribuzione delle tessere, individuali e collettive.
Il 9 e 27 ottobre, il giornale pubblica in due parti un lungo articolo di “A. Bogdanof”, La poesia proletaria (ovvero A. Bogdanov, Cto takoe proletarskaja poezija? [Che cos’è la poesia proletaria?], in “Proletarskaja Kul’tura”, 1, luglio 1918). Nella sterminata bibliografia bogdanoviana, compilata da J. Biggart e altri, questa risulta essere la prima traduzione in italiano di un testo di Bogdanov. Di certo, almeno questo, dev’essere stato tra le letture di Gramsci. Ma non è l’unico, come vedremo…

A metà novembre, viene nominato il nuovo Comitato Centrale dell’Istituto. Con l’occasione, esce sull’Ordine Nuovo un bilancio delle attività e dei programmi per il futuro, che diventa la base di un lungo report sul primo anno di vita, pubblicato a gennaio del ’22 su Gorn (Fornace), l’organo ufficiale del Proletkul’t di Mosca.

È significativo che nelle premesse generali, i proletkultisti torinesi insistano ad affermare che la coscienza dei lavoratori non può formarsi solo nella lotta di classe, che il Partito non è una scuola sufficiente, e che la cultura dev’essere un ambito autonomo, da aggiungere alle altre tre forme di attività del proletariato (politica, lavoro, economia), allo scopo di plasmare quei valori spirituali che danno un senso alla vita e la rendono degna di essere vissuta. Una serie di concetti che sarebbero piaciuti a Lunačarskij e Bogdanov, ma che in Urss – come abbiamo visto – erano stati messi da parte almeno un anno prima, su insistenza di Lenin.

Non si sa chi abbia scritto la relazione per Gorn, ma a prescindere da questo, se ne ricavano informazioni importanti.

– L’ICP ha organizzato una “scuola sindacale comunista”, della durata di un trimestre. Gli iscritti sono stati 50, 20 dei quali hanno retto fino alla fine, in un seminterrato umido e freddo, con scarso materiale didattico e insegnanti poco preparati. Questi erano per lo più “operai diventati organizzatori” e insegnavano “struttura sindacale, controllo dell’industria, salario, carovita, ferie, malattie, disoccupazione, mutualismo, cooperazione, infortuni, storia del movimento operaio, preparazione politica”. Materie che appaiono in effetti molto più “sindacali” di quelle proposte dalle Scuole di Partito vperediste di Capri e Bologna o dai circoli del Proletkul’t sovietico.

– L’ICP pubblicherà, a partire da gennaio ’22, un bollettino mensile intitolato Proletcult (ma in un altro articolo dell’ON viene chiamato Proletkult o Prolet-Kult) e si dice che “il numero di gennaio è già composto”. Poi però viene annunciato un ritardo “per motivi di organizzazione tecnica”. Infine, non se ne sente più parlare e le testimonianze orali raccolte in merito da Bermani sono discordanti: c’è chi sostiene che ne uscì un solo numero e chi giura che rimase una chimera.

– L’ICP intende sviluppare un programma di educazione fisica, che ancora non è davvero partito.

– Infine, l’Istituto lancerà un concorso letterario, dove i lavoratori potranno presentare le proprie idee in qualunque forma, purché assomigli in linea di massima a una novella (Qualcosa di molto simile al concorso indetto dalla FIOM milanese nel 1963, di cui abbiamo parlato in Meccanoscritto).

Il concorso viene indetto il 17 gennaio. Da articoli successivi, si apprende che i racconti cominciarono ad affluire numerosi e che ancora erano sotto esame nel pieno dell’estate. Non vennero però mai pubblicati e dove siano finiti non lo sa nessuno.

Růžena Zátková (artista esposta alla Mostra futurista di Torino, 1922): Ritratto a F.T.Marinetti

Intanto, sul versante delle “gite d’istruzione”, il 2 aprile 1922, gli iscritti all’ICP visitano la Mostra Internazionale d’Arte Futurista, con una guida d’eccezione: Filippo Tommaso Marinetti, già additato da Lunačarskij come “intellettuale rivoluzionario”. Proprio per questo, Gramsci si era occupato di lui in un articolo uscito in gennaio, dove s’interrogava sul perché “molti gruppi di operai hanno visto simpaticamente (prima della guerra europea) il futurismo”. La sua risposta è che “i futuristi hanno svolto questo compito nel campo della cultura borghese: hanno distrutto, distrutto, distrutto […]; hanno avuto la concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio […] I futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari”. Poco sopra, con toni decisamente bogdanoviani, spiega che una fabbrica, in mano agli operai, verrà riorganizzata, ma continuerà a produrre le stesse cose, mentre non si può dire altrettanto per la poesia, il dramma, il romanzo, la musica. “In questo campo, nulla è prevedibile che non sia questa ipotesi generale: – esisterà una cultura (una civiltà) proletaria, totalmente diversa da quella borghese”. E per vederla sorgere, “cosa resta da fare? Nient’altro che distruggere la presente forma di civiltà”, tenendo ben presente che “in questo campo distruggere […] significa distruggere gerarchie spirituali, pregiudizi, idoli, tradizioni irrigidite, significa non aver paura dei mostri, non credere che il mondo caschi se una poesia zoppica, se un quadro assomiglia a un cartellone, se la gioventù fa tanto di naso alla senilità accademica e rimbambita”.

La visita alla mostra futurista è una delle ultime iniziative pubbliche dell’ICP prima della partenza di Gramsci per Mosca. In una lettera a Trockij del novembre ’22, scritta dalla capitale sovietica, Gramsci ricorda quella giornata, sostenendo che Marinetti espresse “la sua soddisfazione per essersi potuto convincere che in fatto d’arte futurista gli operai hanno molta più sensibilità della borghesia.”

Dopodiché, Gramsci passa la frontiera tra Lettonia e Russia, prende una stanza all’Hotel Lux, lavora negli uffici del Comintern a Villa Berg, sull’Arbat, si ammala, va in sanatorio, conosce le sorelle Šucht.

Tra il 10 e l’11 ottobre ’22, Giulia scrive e riscrive più volte una lettera al “professore”, e infine gliela invia. Le minute sono state pubblicate in appendice all’Epistolario gramsciano, nel 2009, ma è stata Noemi Ghetti, nel suo libro del 2016, a metterne in evidenza un passaggio:

«Ho cominciato a «tradurre» il romanzo di Bogdanoff. Scrivo senza rileggere… che è una tortura. Lei prenderà un’arrabbiatura a maneggiare le «mie» parole. Ma tanto i professori sono fatti per questo ed io, prima di vedere la Sua firma sotto alla traduzione, debbo rassegnarmi ad avere i capelli strappati e… Nasconderò il bastone!»

Quindi Gramsci, appena quattro mesi dopo il suo arrivo in Unione Sovietica, e nemmeno tre mesi dopo aver conosciuto Giulia, già le aveva proposto una traduzione collettiva di Stella Rossa (guarda caso, è a quattro mani anche l’ultima traduzione italiana del “romanzo di Bogdanoff”, a cura del Kollektiv Ulyanov). Come detto, Gramsci non era certo all’oscuro delle polemiche tra Lenin e Bogdanov, e a maggior ragione doveva saperne qualcosa in quel momento. Angelo Tasca, tra i fondatori dell’ON, ricorda di aver assistito insieme a Gramsci, ad “alcune sedute del Proletcult”, ai tempi del IV Congresso dell’Internazionale (novembre 1922).

Fillìa – Paesaggio scenografico/Idolo Meccanico, 1926

Nel frattempo, mentre Gramsci è a Mosca, L’Ordine Nuovo continua a dare notizie sull’ICP. Poco dopo la partenza del direttore, esce Dinamite, una raccolta di undici "poesie proletarie", scritte da tre giovani "futuristi" (battezzati collettivamente 1+1+1=1). La plaquette, di 34 pagine, viene pubblicata come "edizione dell'Istituto di Cultura Proletaria" e il ricavato delle vendite è a favore delle "vittime politiche". I tre autori sono Luigi Colombo (che dal '24 si farà chiamare Fillìa), Jean Pasquali e Antonio Galeazzi (due “legionari dannunziani”, come li definì Giovanni Casale in un ricordo affidato a Cesare Bermani). Il libretto riceve una durissima stroncatura sul quotidiano Il Comunista, organo centrale del PCd'I. Eppure, a settembre, lo stesso partito crea ufficialmente la Sezione Italiana del Proletkul’t, e nomina Gramsci - a distanza - nel Comitato Centrale Provvisorio. Ma sebbene l’ON pubblichi in due puntate I principi generali della nuova istituzione, essa non sembra essere andata molto oltre. Un mese più tardi, con la Marcia su Roma, lo spazio per dedicarsi ad attività culturali diventa sempre più angusto. Proprio tre giorni prima della sfilata fascista, Gramsci incontra Lenin in privato, faccia a faccia. Chissà se hanno anche discusso di cultura proletaria...

Nel gennaio 1923, Gramsci si prepara a lasciare l’Unione sovietica. Scrive a Giulia un lunga lettera di commiato e tra le altre cose le chiede: “E la sua traduzione? Me la spedisca, se ultimata: la farò pubblicare in Italia.”

A differenza dei curatori dell’Epistolario di Gramsci, Noemi Ghetti è convinta che qui si stia parlando del “romanzo di Bogdanoff”, così come in una lettera del 13 febbraio: “E la traduzione? Perché non me l’ha consegnata? Ho saputo che l’aveva con sé”. Tra le due missive, si inserisce la decisione di Gramsci di restare a Mosca, perché in Italia lo attende un mandato d’arresto.
Si arriva così al 23 settembre 1923, quando Antonio Gramsci e Julja Šucht si sposano (anche se ci sono parecchi dubbi sull’autenticità del loro certificato di matrimonio). A fine novembre, Gramsci lascia l’Unione Sovietica e si trasferisce a Vienna. Eletto alla Camera dei Deputati il 6 aprile 1924, a maggio rientra in Italia, protetto dall’immunità parlamentare. In questo frangente gli scrive da Mosca Umberto Terracini, che l’ha sostituito come delegato al Comintern e ha rintracciato alcune sue carte, tra le quali “il romanzo russo di cui curasti la traduzione colla traduzione”.

Sia Ghetti che Righi, deducono da questo riferimento che l’impresa a quattro mani di Antonio & Giulia doveva essere giunta a compimento.

Chissà poi se Terracini spedì il plico in Italia, o da qualche altra parte, o se lo ritrovò al suo posto lo stesso Gramsci, quando ritornò a Mosca nel 1925, o ancora se glielo portò Giulia, quando passò dall'Italia, insieme al figlio Delio Šucht-Gramsci, nato a Mosca il 10 agosto '24 (e quindi concepito a novembre , poco prima della partenza del padre).

Julja Šucht con i figli Delio e Giuliano

Fatto sta che quei fogli sono spariti, non se ne sa più nulla, e così la prima traduzione italiana di Stella Rossa – parziale o completa – è rimasta nel cassetto. Sarebbe stata una delle prime a occidente dell’ex-impero zarista, dopo quella francese del 1913/14 (pubblicata sulla rivista La Societé Nouvelle) e quella tedesca del 1923 (per le edizioni dell’Internazionale giovanile). Sparita, smarrita o distrutta quella, abbiamo dovuto attendere fino al 1988 per poter leggere Stella Rossa nella lingua di Dante (e di Gramsci).
Eppure il mistero rimane. Dov’è finita la traduzione del «romanzo di Bogdanoff» a cura di Antonio e Julja? (E dove sono finiti i racconti operai del concorso lanciato su L’Ordine Nuovo il 17 gennaio 1922? E dov’è finito il primo numero della rivista Proletcult, che doveva uscire – e forse è uscito – quello stesso mese?)
Domande che forse non avranno mai risposta, se non tra le pagine di un giallo, ma intanto il legame tra Bogdanov, il Proletkult e Gramsci ci appare ben più che una semplice ipotesi narrativa.