Giulio Einaudi editore

Pordenone torna ad essere la "capitale del libro", dal 18 al 22 settembre si rinnova l’appuntamento con Pordenonelegge, Festa del Libro con gli Autori, giunta alla XXV edizione. Oltre 600 autrici e autori e più di 300 eventi in cinque giorni, 43 sedi di incontro fra Pordenone, i centri della sua provincia e l’intera regione, con tappe a Trieste, Udine, Lignano. Nei suoi 25 anni pordenonelegge, “festa del libro”, diventa anche “festa della libertà”, per “sfogliare” i temi del presente e leggere i cambiamenti del mondo, testimoniando il valore primario della lettura e della scrittura, della conoscenza come chiave per interpretare consapevolmente il presente.
Le novità, le anteprime, i grandi ospiti internazionali che le case editrici hanno deciso di "regalare" al pubblico di Pordenone. Qui il programma completo.

Il calendario degli appuntamenti con gli autori Einaudi:

Giovedì 19 settembre

Ore 19:00, Spazio Gabelli, Scuole Gabelli
Grammamanti. Immaginare futuri con le parole
Con Vera Gheno. Presenta Luca Taddio

Ore 21:00, Piazza Italia MANIAGO (PN)
Il futuro nelle parole
Con Vera Gheno. Presenta Luca Taddio
In caso di maltempo Teatro Verdi (Maniago)

 

Venerdì 20 settembre

Ore 17:00, Auditorium Largo San Giorgio
I volti dell’Avversario. L'enigma della lotta con l'Angelo
Con Roberto Esposito. Presenta Marcello Barison

Ore 18:00, Auditorium PAFF! Parco Galvani
Il viaggio più lungo. La cecità dell’Occidente e l’imperialismo russo nel racconto di una scrittrice ucraina
Incontro con Oksana Zabuzko. Presenta Laura Pagliara

Ore 19:00, Auditorium della Regione
Erotica dei sentimenti
Con Maura Gancitano. Presenta Luca Taddio

Ore 21:00, Spazio San Giorgio, Largo San Giorgio
La neve in fondo al mare
Con Matteo Bussola. Presenta Enrico Galiano

 

Sabato 21 settembre

Ore 11:00, Biblioteca Civica, Sala Incontri (Teresina Degan)
Ecologia e ideologia
Con Filippo Menga e Francesca Santolini. Presenta Stefano Bortolus

Ore 15:00, PalaPAFF!, Parco Galvani
L’età fragile
Con Donatella Di Pietrantonio. Presenta Fabiana Dallavalle

Ore 18:00,  Parco di Villa Varda BRUGNERA (PN)
La neve in fondo al mare
Con Matteo Bussola. Presenta Federica Augusta Rossi

Ore 21:00, Teatro Marcello Mascherini AZZANO DECIMO (PN)
Non esiste un’età senza paura
Con Donatella Di Pietrantonio. Presenta Antonella Silvestrini

Ore 21:00, Teatro Verdi
La Legge del desiderio. Radici bibliche della psicoanalisi
Con Massimo Recalcati

Ore 21:30, PalaPAFF!, Parco Galvani
Quando finisce un amore
Con Diego De Silva e Luigi Nacci. Presenta Valentina Berengo

 

Domenica 22 settembre

Ore 11:30, Spazio Piazza della Motta
Le crisi del presente, le crisi del nostro cuore
Con Caterina Bonvicini e Alessandra Sarchi. Presenta Alessandra Tedesco

Ore 15:00, Piazza San Marco
L’orizzonte della notte
Con Gianrico Carofiglio. Presenta Alberto Garlini

Ore 17:00, Spazio San Giorgio, Largo San Giorgio
Il vecchio al mare
Con Domenico Starnone. Presenta Bruno Ruffolo

Ore 21:00, Teatro Pileo PRATA DI PORDENONE (PN)
Il tempo e la giustizia
Con Gianrico Carofiglio. Presenta Alessandra Tedesco

***

Per informazioni:

Il sito di Pordenonelegge e il calendario completo degli appuntamenti.
Pordenonelegge su X (hashtag #pnlegge2024) e su facebook.

Un destino straziante e beffardo ha fatto sì che Ernesto Franco se ne sia andato per la stessa malattia che si era portata via, sette anni fa, la moglie Irene, anche lei cara a molti autori einaudiani e a tutti i colleghi della casa editrice.

Quello di Ernesto è stato un ciclo editoriale lungo e felice. Entrato in Einaudi nel 1991 come editor della saggistica, per poi andare a dirigere le collane letterarie, dal 1998 ha assunto il ruolo di direttore editoriale e, negli ultimi anni, anche quello di direttore generale. È stato il direttore editoriale di più lungo corso di tutta la storia dell’Einaudi.

Gli anni della sua direzione sono stati anni di grande crescita, e proprio per questo particolarmente delicati. Il suo sapiente equilibrio di timoniere ha permesso alla casa editrice di diventare il secondo marchio editoriale italiano, espandendo l’Einaudi in territori in cui non si era mai avventurata, ma senza mai dimenticare la sua storia e la sua tradizione. Con lui l’Einaudi ha rafforzato la proposta nella letteratura straniera di qualità, con dieci premi Nobel in vent’anni, e ha rinnovato profondamente il panorama della narrativa italiana, con sei premi Strega vinti negli ultimi quindici anni; mantenendo contemporaneamente una percentuale di saggistica di studio e approfondimento molto alta, cosa ormai del tutto inusuale tra le maggiori case editrici. Ernesto ha sposato con entusiasmo le nuove avventure editoriali di Stile Libero, e ha varato personalmente nuove collane, da «Einaudi contemporanea» alle «Vele», fino ai recenti nuovi «Struzzi»; ha voluto e sostenuto «Grandi Opere» innovative, fra cui i cinque volumi de Il romanzo, l’Atlante della letteratura italiana e la nuova edizione della Bibbia.

Ma in realtà, prima ancora che nei sempre accorti indirizzi editoriali, i suoi meriti maggiori stanno in un altro ambito: e cioè nell’aver saputo creare un clima di grande armonia nella redazione.  Con la sua autorità naturale, con la sua amicizia, con la capacità di ascolto e di valutare i talenti piccoli o grandi di tutti, con l’allegria e l’ironia nei momenti giusti. E quel che vale per i rapporti interni vale anche con gli autori e i collaboratori, con cui ha sempre mantenuto un vivacissimo sodalizio intellettuale e umano formatosi e durato nel tempo.

Il tratto immediato era la sua capacità di stare al gioco e di rilanciare, sia che si trattasse di facezie sia che si trattasse di parlare di Benjamin o di una poesia di Mandel’stam. Sempre con un commento non ovvio, sempre con un tocco personale di interpretazione. Naturalmente aveva il suo bagaglio di competenze forti: la letteratura spagnola e ispano-americana, aveva il “suo” Cortázar e il “suo” Octavio Paz, e Borges e Arlt e Onetti e Ernesto Sabato ecc. E il Chisciotte, che sognava di avere il tempo di ritradurre, ma non l’ha avuto.

Forse proprio dalla narrativa sudamericana, oltre che da Calvino e dall'amico Del Giudice, derivava la sua vena di scrittore. Tre libri come Isolario, Vite senza fine e Storie fantastiche di isole vere rappresentano la sua idea di letteratura, a metà tra fantasia e malinconia, capace di sfiorare gli enigmi della vita ma anche di toccare il cuore del lettore. Pensiero e sentimento. Un binomio che ben rappresenta la sua figura intellettuale, quella professionale e quella dell’amico.

In una splendida intervista rilasciata alla Paris Review (per la serie The Art of Fiction, la n. 82), O’Brien afferma che quello che conta, in una storia, non è la trama, il plot, ma la verità dell’immaginazione, e la perfezione e la cura con cui viene resa. O’Brien usa un’espressione più colorita per mettere da parte la trama (f**k the plot), un perfetto esempio di quella dialettica di forza espressiva ed eleganza che caratterizza la sua opera (e anche della sua precisione nella scelta delle parole). Non è tanto la volontà di disprezzare la trama, quanto il voler sottolineare l’importanza di arrivare a cogliere la «verità», la necessità, per ogni scrittore degno di questo nome, di provare a renderla nella maniera più esatta possibile su quella superficie piatta, eppure abissale, che è la pagina. E O’Brien l’ha perseguito, questo compito inesausto, per tutta la vita, e come pochi altri.

Fin dall’esordio, quel Ragazze di campagna che ha avuto il raro privilegio di essere bruciato sul sagrato della chiesa della sua contea d’origine, in Irlanda, i suoi testi fervono di vita, e di immaginazione. Sono quasi troppo pieni, nonostante la pulizia formale, la perfezione della scrittura. La vita – concitata, sporca, tramata di desideri e fantasie e sesso – sembra tracimarne. Tutti i suoi romanzi sono, per questo, opere allo stesso tempo complesse e raffinate e perfettamente accessibili, coinvolgenti – difficile che un lettore possa non riconoscersi, almeno in parte, in uno dei suoi personaggi, e non restarne ammaliato, non soffrire con e per loro. Sono soprattutto donne, certo, per una questione di affinità e perché, per citare nuovamente l’intervista di cui sopra, «Women are better at emotions and the havoc those emotions wreak», «le donne se la cavano meglio con i sentimenti e i disastri che provocano». Ma proprio per questo voglio ricordare, tra i suoi tanti capolavori al femminile, una piccola gemma, un racconto tratto da Oggetto d’amore (Stile libero 2016). Si intitola I re della pala e mette in scena l’improbabile, e per questo splendida, amicizia tra un’intellettuale irlandese émigrée e uno sterratore di quelli che dall’Isola di smeraldo si erano riversati a Londra per ricostruirla, per farne, di nuovo, una delle capitali del mondo. È un racconto in cui accade poco o nulla, fatto di bevute, nostalgia per un paese che può essere forse amato solo da lontano, emozioni tanto sentite quanto mal, o mai, espresse. E pieno di verità, sì, di immaginazione e verità.

L’età fragile di Donatella Di Pietrantonio è il libro vincitore della LXVIII edizione del Premio Strega.

La serata è stata trasmessa il 4 luglio in diretta televisiva da Rai 3 e ha visto trionfare il romanzo della scrittrice abruzzese, già vincitore dello Strega Giovani, con 189 voti.

Queste la parole di Donatella Di Pietrantonio dopo la vittoria:

«Ringrazio la Fondazione Bellonci e gli Amici della Domenica, i miei compagni e compagne di viaggio, di cui ho già nostalgia; il mio editore come squadra, perché la scrittura è un atto molto solitario ma il libro come prodotto finale è la risultante di un lavoro di squadra fatto con grande professionalità e grande amore. Prometto che userò la mia voce scritta e orale in difesa di diritti per cui la mia generazione di donne ha molto lottato e che oggi mi ritrovo a verificare non più scontati».

All'origine de L’età fragile c'è un episodio di cronaca che risale agli anni Novanta nel cuore dell'Abruzzo appenninico, quando l'orrore si era insinuato in un luogo fino ad allora immacolato.

Amanda prende per un soffio uno degli ultimi treni e torna a casa, in quel paese vicino a Pescara da cui era scappata di corsa. A sua madre basta uno sguardo per capire che qualcosa in lei si è spento... vorrebbe tenerla al riparo da tutto, anche a costo di soffocarla, ma c’è un segreto che non può nasconderle. Sotto il Dente del Lupo, su un terreno che appartiene alla loro famiglia e adesso fa gola agli speculatori edilizi, si vedono ancora i resti di un campeggio dove tanti anni prima è successo un fatto terribile.

Corrado Augias

Arrivato alla soglia dei novant’anni, dopo aver affascinato i suoi lettori con i segreti della Storia, della musica e della religione, Corrado Augias racconta l’avventura di una vita, la sua. E con grande talento di narratore, evoca l’infanzia in Libia, il ritorno a Roma, l’incubo dell'occupazione tedesca, il collegio cattolico, i primi passi nel giornalismo, e poi «Telefono giallo» e «la Repubblica».

È un racconto che ha il calore e l’empatia della conversazione tra amici: la vita s’impara, ci dice Augias - soprattutto se non si perdono mai la curiosità intellettuale e la passione civile.

«C’è il tono ormai perduto della conversazione nell’ultimo libro di Corrado Augias, quella nota gratuita e un po' complice che si basa su un riconoscimento reciproco, scorre in orizzontale perché rifiuta ogni pulpito, ma sa scoprire nelle abitudini del quotidiano e nella consuetudine del paesaggio familiare le faticose sorprese di ogni vita che voglia essere vissuta come un’avventura […] Concepito come un’autobiografia, il libro ne ha lo scheletro, il passo e la scansione. Ma poi la dimensione culturale prende il sopravvento, la scrittura entra ed esce dai libri che Augias ha incontrato da ragazzo, si mescola coi versi imparati a memoria e quei brani diventano parte del vissuto, modelli, spiegazioni, risposte e scoperte».
Ezio Mauro, «la Repubblica»

«Ne La vita s’impara il giornalista e scrittore ripercorre la storia del nostro Paese attraverso la sua biografia. L’infanzia in Libia, la Liberazione in Italia, la non scelta tra ebraismo e cattolicesimo, gli Einaudiani comprati a rate, i convegni del Mondo, le redazioni dell’Espresso e di Repubblica. La Rai, quello che rappresentava quando vinse il concorso ed entrò appena laureato. Quando tra i dirigenti c’erano Ettore Bernabei, Angelo Guglielmi, e ci lavoravano da Andrea Camilleri a Carlo Emilio Gadda».
Annalisa Cuzzocrea, «La Stampa»

«Quello impersonato dall’autore è il canone della cultura progressista cosmopolita, un modello intellettuale ispirato ai valori della Costituzione che la destra populista vorrebbe rovesciare con un’egemonia di segno opposto, senza capire che l’egemonia nell'accezione gramsciana si afferma non per via gerarchica ma attraverso l’adesione spontanea della comunità. Anche di questo La vita s’impara è fedele e formidabile resoconto».
Simonetta Fiori, «il venerdì – la Repubblica»

«Un lavoro originale che ripercorre le tante tappe dello scrittore quasi novantenne (la firma subito!), e racconta come romanzieri, poeti e grandi figure del Novecento abbiano influenzato il suo viaggio esistenziale. È un libro che non accetta definizioni, difficile rinchiuderlo in un memoir o in un’autobiografia, meglio sarebbe solo “un libro di Augias”. Lo scrittore da tempo ci ha abituato a uno stile totalmente personale che ci fa sentire subito immersi in una conversazione con un vecchio amico, lo stesso piacevole tono adottato nelle tante belle trasmissioni tv che hanno costellato la sua poliedrica carriera di giornalista, inviato, autore e conduttore televisivo e grande viaggiatore, ma soprattutto eterno curioso di misteri e bellezze dell’arte e della musica».
Serena Dandini, «Io Donna»

Augias, biografia, memoir, rai, quante storie
Corrado Augias ospite a «Quante storie» su Rai3
Premio Strega Giovani, l'arminuta

È Donatella Di Pietrantonio la vincitrice del Premio Strega Giovani 2024 con L’età fragile, uscito a novembre 2023 nei Supercoralli: è stato il libro più votato da una giuria di ragazze e ragazzi tra i 16 e i 18 anni provenienti da 103 scuole secondarie superiori distribuite in Italia e all’estero.

La vincitrice è stata annunciata durante l’evento condotto da Loredana Lipperini che si è svolto al Teatro di Tor Bella Monaca.

L’età fragile «è la storia di una famiglia sospesa nel segreto del trauma, parole mai dette rinchiuse nel cuore di una montagna d’Abruzzo che è insieme psiche e paesaggio. Il romanzo di una madre che non trova respiro, stretta tra la severità del padre e il silenzio della figlia. Un libro che raccontando il dolore lo cura, perché a scriverlo è una donna che conosce il miracolo delle parole e il sangue delle ferite. Per questo è il mio candidato al Premio Strega» (Vittorio Lingiardi, link).

Al secondo posto c’è Antonella Lattanzi, autrice di Cose che non si raccontano, pubblicato a marzo del 2023 sempre nei Supercoralli, con 72 voti.

  • Donatella Di Pietrantonio

    L’età fragile

    Non esiste un'età senza paura. Siamo fragili sempre, da genitori e da figli, quando bisogna ricostruire e quando non si sa nemmeno dove gettare le fondamenta. Ma c'è un momento preciso, quando ci buttiamo nel mondo, in cui siamo esposti e nudi, e il mondo...
    pp. 192
    € 18,00
  • Antonella Lattanzi

    Cose che non si raccontano

    Ci sono cose che non si raccontano perché le parole sono scogli nel mare. Ci sono cose che non si raccontano per vergogna, rabbia, troppo dolore, e perché se non le racconti, in fondo puoi sempre credere che non siano successe. Antonella e Andrea vogliono...
    pp. 216
    € 19,00
premio campiello 2024, finalista, cinquina

Venerdì 31 maggio è stata annunciata la cinquina finalista del Premio Campiello 2024. Fra i titoli selezionati c’è Locus desperatus di Michele Mari, uscito il 23 aprile nei Supercoralli.

«Un po' thriller metafisico, un po' horror filologico, un po' commedia grottesca, in Locus desperatus l'intreccio è sostituito da un colto rimuginio, le intuizioni sono quasi tutte etimologiche e le parole diventano un'arma, quella che trasforma l'impossibile in possibile e ha così la meglio sul mistero e sull'oblio. Perché la propensione al sapere dà un potere immenso, non solo su chi non sa, ma soprattutto su ciò che (ancora) non si sa».
Nicola H. Cosentino, «La Lettura – Corriere della Sera»

«Un romanzo unico, che immobilizza con la lingua vitale, ricchissima, inconfondibile dello scrittore. E regala una suggestione dopo l'altra: come l'inconscio che è una cosa sola col posto in cui abitiamo».
Sabina Minardi, «L’Espresso»

«Dopo i racconti delle Maestose rovine di Sferopoli, il nuovo sontuoso romanzo di Michele Mari, Locus desperatus trascina il lettore in un viaggio destabilizzante, che mette in gioco l'idea stessa di io, la persistenza mutevole delle memorie, il rapporto con gli oggetti materiali in cui la vita si incapsula e dura. Chi legge è risucchiato in un mondo in cui ogni dato vacilla e si sgretola».
Matteo Palumbo, «Alias - il manifesto»

Il vincitore sarà proclamato il 21 settembre dal Teatro La Fenice di Venezia. Ecco gli altri finalisti:

Il fuoco che ti porti dentro, Antonio Franchini
Alma, Federica Manzon
Dilaga ovunque, Vanni Santoni
La casa del Mago, Emanuele Trevi

Il rifiuto della gioia

Goliarda Sapienza ha dovuto attraversare in Italia quello che, in una lettera ad Attilio Bertolucci, definisce un vero e proprio «inferno editoriale» per riuscire a pubblicare il suo indiscusso capolavoro, L’arte della gioia, scritto tra il 1969 e il 1976. Solo nel 1994, due anni prima della sua morte, venne pubblicata da Stampa Alternativa la prima parte del romanzo, e solo nel 1998, due anni dopo la sua morte, grazie alla cura del marito Angelo Pellegrino, il romanzo completo, poi ripubblicato nel 2003, sempre in pochissimi esemplari. Ed è in uno di quei pochi esemplari dell’edizione italiana che sono incappate Waltraud Schwarze e Viviane Hamy, che tra il 2005 e il 2006 lo pubblicarono in Germania e in Francia, dove il libro ottenne un successo straordinario.

Tutto partì da lì: da quel testo stampato in 1000 copie, quasi introvabile, di cui si innamorarono due donne in due Paesi diversi. Io lo lessi e me ne innamorai a mia volta, e con me tutta la casa editrice Einaudi. Non parlavamo d’altro, in quei giorni. Decisi di andare a Roma da Angelo Pellegrino, marito di Goliarda Sapienza, che mi aprì la cassapanca di Goliarda. Conteneva il manoscritto dell’Arte della gioia e migliaia di pagine scritte di suo pugno, con la Bic nera, in una grafia febbrile, cardiaca: quelle pagine assomigliavano davvero a elettrocardiogrammi, partivano da una riga piena e a poco a poco arrivavano a mezza riga, un quarto di riga, per poi ritornare alla mezza riga e alla riga intera, disegnando figure geometriche, pezzi di clessidre. Le ho lette con una gioia che non so descrivere, ed è da lì, da quelle pagine inedite, che sono poi nati negli anni i libri successivi: il romanzo Io, Jean Gabin (2010), le due raccolte dei suoi taccuini, Il vizio di parlare a me stessa. Taccuini 1976-1989 (2011) e La mia parte di gioia. Taccuini 1989-1992 (2013), e il romanzo Appuntamento a Positano (2015).

Decidemmo di pubblicare L’arte delle gioia nei Supercoralli nel 2008, per sottolinearne finalmente la rilevanza letteraria e culturale, e fu un grande successo di critica e di pubblico.

La vicenda del lungo rifiuto italiano si può ricostruire a partire dai libri Cronistoria di alcuni rifiuti editoriali dell’Arte della Gioia (Edizioni Croce) e Lettere e biglietti (La nave di Teseo). È una vicenda interessante, che meriterebbe di essere scandagliata. Sta di fatto che uno dei più grandi e pulsanti romanzi del Novecento italiano venne definito in patria «un cumulo d’iniquità», «un romanzone», letto di volta in volta come un romanzo libertino, un romanzo socialista, un romanzo criminale, un romanzo femminista, un romanzo sessantottino, e capito solo da alcuni, tra cui Enzo Siciliano e Cesare Garboli. Proprio Cesare Garboli, in una bella intervista, aveva dichiarato profeticamente: «Il tempo lavorerà a favore dei libri di Goliarda Sapienza, e questo non è un augurio, è una certezza.» Ha avuto ragione.

L’Italia di quegli anni forse non era pronta per lei e per la sua Modesta, donna libera e anticonformista nella Sicilia della prima metà del secolo. La libertà sessuale, l’amore fisico, la politica, il femminismo, la capacità di rompere convenzioni e ruoli sociali, la sfida alla cultura patriarcale, fascista, mafiosa e oppressiva, l’amoralità: tutte le questioni centrali dell’Arte della gioia potevano essere dei muri difficili da scalare, per molti. È la teoria di Nathalie Castagné, traduttrice del libro in Francia, che ha dichiarato: «La Francia al contrario dell’Italia, ama molto la trasgressione. Per cui il successo enorme dell’Arte della gioia da noi si deve esattamente a tutto quello che lo ha fatto rifiutare da voi».  Io sono convinta che la società letteraria degli anni Settanta in Italia non fosse pronta ad accogliere l’esuberanza di Goliarda Sapienza soprattutto per ragioni stilistiche, prima ancora che morali o ideologiche o politiche. La sua scrittura doppia, barocca e razionale, vorticosa ed esatta, poetica e orale, sempre appassionata, sempre dietro la vita, anche quando non intende ghermirla programmaticamente nella «autobiografia delle contraddizioni», era qualcosa che poteva spiazzare, e anche molto, alcuni intelletti. Ha ragione Angelo Pellegrino, suo marito e curatore della sua opera, quando scrive che, anche quando la sua scrittura non è autobiografica, «è trasfigurazione, trasposizione di tanta vita che le appartiene».

E in un certo senso si può anche dire che L’arte della gioia racconta il Novecento da un punto di vista eccentrico. Perché isolano. Perché femminile. Perché fuori da ogni possibilità di categorizzazione. Il suo stesso femminismo anticipava i tempi. Una frase come «State attenti perché di questo passo quando le donne si accorgeranno di come voi uomini di sinistra sorridete con sufficienza paternalistica ai loro discorsi, la loro vendetta sarà tremenda» sembra scritta più oggi che ieri.

Goliarda Sapienza è una scrittrice difficilmente collocabile nel panorama nazionale. Tutto è inusuale in lei, inusuale è stata la sua stessa formazione, il suo apprendistato eccentrico. Suo padre, Giuseppe Sapienza, l’avvocato dei poveri, decise di chiamarla Goliarda «perché era un nome senza santi» e le fece abbandonare la scuola dopo le elementari per paura che l’istituto scolastico la guastasse: fu istruita in casa dai suoi genitori straordinari e dai tanti fratelli, ognuno con una competenza diversa. Il suo sapere «diverso» veniva da lì, oltre che dalla vita e dal lavoro nel teatro e nel cinema, e lei lo riversò nel suo linguaggio. Mescolando storie e mondi e immagini e sguardi in un flusso ininterrottamente vitale.

Serie tv, sapienza, letteratura italiana, arte della gioia
Maurizio de Giovanni

A tre anni di distanza da Angeli, la loro ultima indagine, i Bastardi sono tornati.

Serve a poco l'ombrello se ti piove dentro… e a tutti i membri del commissariato di Pizzofalcone piove sopra e sotto la pelle, che decidano di andarsene in giro riparati o no. In questa atmosfera dovranno risolvere il caso dell’omicidio di Leonida Brancato, penalista imbattibile, il re del cavillo.

Quando Brancato era andato in pensione, in procura avevano fatto festa. Da anni non si sapeva più nulla di lui, ma ora qualcuno lo ha ucciso e ha infierito sul suo cadavere. Un omicidio all’apparenza privo di movente.

Sotto un diluvio che non concede tregua, circondati da nemici e nonostante dolorosi problemi personali, i formidabili poliziotti, usciti dalla penna di Maurizio de Giovanni, si districheranno fra segreti, ipocrisie, rancori. Arrivando a scoprire una verità quanto mai inaspettata.

Così l’autore presenta il ritorno dei Bastardi al Corriere della Sera: «Quel mondo è per me tra i più interessanti, perché è quello che mi consente di guardarmi attorno nel mio ambiente, qui e ora, e declinare uno spettro di ferite e lesioni attraverso una pluralità di personaggi che mi ha sempre incantato […] Man mano che andavo avanti nella scrittura ero sempre più felice di trovarmi lì […] Mi sono divertito, preoccupato, angosciato e addolorato. Ho avuto paura, mi sono arrabbiato, ho molto riso e ho perfino imprecato a mezza voce mentre scrivevo. Mi sono perfino, ci credereste?, molto sorpreso per il finale, in cui accade qualcosa che non avevo previsto».

Per Raffaella Silipo, nella sua recensione su tuttolibri – La Stampa, «i Bastardi di Pizzofalcone, secondogeniti turbolenti e amatissimi di Maurizio de Giovanni, sono un’orchestra jazz, di quelle mitiche del dopoguerra, alla Glenn Miller: virtuosi diversi tra loro, ciascuno guidato dai suoi demoni e abituato a improvvisare per conto suo, eppure alla fine, come per miracolo, il suono combinato regala momenti di felicità e persino un poco di giustizia […] de Giovanni coordina i suoi Bastardi come un direttore d'orchestra consumato, sa tirar fuori da ognuno il suono giusto, che è poi il suono complesso di una città “piena di confini interni, dalle Vele di Scampia al Circolo Nautico Posillipo: i miei poliziotti altro non sono che navigatori fra questi mondi”. La musica di Napoli, per dirla con Pino Daniele: tra la pazzia e il blues».

«Questo è il male, sapete? Ognuno fa il suo pezzo di lavoro, senza mai alzare lo sguardo... Ma la giustizia, ispettore, che fine fa? Si perde nei rivoli, negli interstizi, nei dettagli, nelle procedure…» Come fa notare Generoso Picone sul Mattino, «non ci sarà articolo del codice penale o sentenza di Tribunale a fornire un'adeguata risposta a interrogativi di tanta inquietudine. Tali da ribaltare lo schema di una pur complicata indagine per omicidio nella trama quasi dostoevskiana di un’immersione che scandaglia le profondità più oscure dell’animo umano, misurandosi con il nodo inestricabile che intreccia la verità, la giustizia, la vendetta, la pena».

Ho saputo della morte di Alice Munro e, appena tornata a casa, sono andata ai suoi libri allineati sullo scaffale. D’impulso ne ho presi due: Danza delle ombre felici e Uscirne vivi. Il primo e l’ultimo, l’alfa e l’omega di una scrittrice che ha messo la longevità al servizio di un percorso artistico di assoluta imperterrita grandezza.

Tradurre Alice Munro è quello che ho fatto quasi ininterrottamente per circa dodici anni; è stata la mia vita per circa dodici anni. Come per altri può essere fare ogni giorno il pane, visitare pazienti, costruire case, suonare il violoncello. Il mio mestiere per tanto tempo è stato questo: tradurre Alice Munro. A me sembra una cosa strabiliante.

Ecco l’incipit del primo racconto della prima raccolta, quella dedicata al padre, Robert Laidlaw:

«Dopo cena mio padre fa: - Scendiamo a vedere se c’è ancora il lago? - Lasciamo mia madre a cucire sotto la lampada in sala da pranzo; mi fa dei vestiti per l’inizio della scuola».

Ed ecco l’epilogo del suo ultimo racconto, dedicato, senza bisogno di dediche, a sua madre:

 «Non tornai a casa per la sua malattia e nemmeno per il funerale... Di certe cose diciamo che non si possono perdonare, o che non ce le perdoneremo mai. E invece poi lo facciamo, lo facciamo di continuo».

Tra l’uno e l’altro si dispiega l’immensa costellazione di storie che, con felice caparbietà, Munro non ha mai trasformato in romanzi. «Maestra del racconto breve» recita la motivazione per l’assegnazione del Nobel del 2013. E maestra anche per non aver cambiato rotta e per aver consegnato un Premio Nobel al Canada e alla forma del racconto. Il suo unico presunto tentativo di romanzo, La vita delle ragazze e delle donne, anziché cedere all’ambizione del racconto di lunga gittata, ne frantuma la compattezza in capitoli per registrare il processo di formazione della voce narrante, Del, che, da bambina di nove anni, attraverso una serie di riti iniziatici e passaggi, approda alla necessità della scrittura e promette al lettore il dono di racconti credibili e radiosi.

Alice Munro ha continuato per sessant’anni a convocare le sue storie e a ripeterle, cioè a domandare a ciascuna di esse qualcosa che ancora le sfuggiva. «Scrivo dal punto in cui mi trovo nella vita», diceva. Il miracolo è che ogni volta il racconto trascina il lettore nel luogo in cui la lettura si fa necessaria e incantevole.

Le storie di Munro per me sono ricordi, come quelli che conserviamo delle persone che abbiamo conosciuto.

Donne, soprattutto, ragazze, bambine e donne di ogni età coi loro nomi: Heather, Maddie, Almeda, Sally, Lucille, Helen, Verna, Meriel, Fiona, Pauline, Mary Louise, Annie, Marian, Frances e tante altre ancora. Di loro, conosco i vestiti capaci di sedurre o imbarazzare, certi segreti e certe vergogne, spesso l’indirizzo, che saprei trovare, se solo esistessero i posti dove abitano.

E cose, osservate nella loro vita attiva in relazione con la nostra: case bianchissime, chiese, cuffie da bagno, tailleur, lettere micidiali.

Ma anche alberi, erbe, arbusti, piante in vaso e rovi perfino, protagonisti ignari dei racconti, insieme ai mille laghi in cui si nuota o si annega. Sono naturalmente aceri, ma anche abeti azzurri, cedri, pini neri, salici, olmi, pioppi rossi, betulle, castagni e meli, e radure sconfinate di tarassaco, lappe, piantaggini, ortiche, verghe d’oro, crescione, monarda didima e melissa. Come l’erbario poetico di Seamus Heaney che si conclude con un elenco di erbe spontanee da fiore e con la dichiarazione di un’appartenenza.

«Tra erica e calendula,
tra sfagno e ranuncolo,
tra tarassaco e ginestra,
nontiscordardimé e caprifoglio,
come tra azzurro chiaro e nuvola,
tra pagliaio e cielo al tramonto,
tra quercia e tetto d’ardesia,
passai la mia esistenza. Lì fui,
io nel luogo e il luogo in me».

Infine, le stagioni e le località, il tempo e lo spazio, tutte le immaginarie cittadine dell’Ontario come Walley, Jubilee, Hanratty, Dalgleish, che Munro ha inventato traducendole dalle reali Wingham, Guelph, Clinton, Kitchener. Perché Munro è nel luogo e il luogo in lei, oltre che nella geologia della sua lingua.

Ricordo la potenza della gioia con cui nel 2013 accolsi la notizia del Nobel: una telefonata dalla casa editrice. È stato così anche questa volta e ho sentito dentro un silenzio quieto, come di neve. Ci vorrebbe lei, per descriverlo.

Susanna Basso