A un anno di distanza da Con passi giapponesi, il suo primo libro di prose arrivato in finale al Premio Campiello, Patrizia Cavalli torna nella «bianca». Vita meravigliosa rappresenta una summa della poesia di Patrizia Cavalli, attraverso le ossessioni ricorrenti, i temi e i molteplici registri stilistici che la caratterizzano. Sotto alcuni estratti della calorosa rassegna stampa che ha accolto l’ultima raccolta della poetessa italiana:
«Che grande regalo, queste poesie di Patrizia Cavalli con cui accompagnare il nuovo anno che inizia e a cui non sappiamo che cosa dire. Ritrovare intatto lo sguardo preciso di una poeta che trasforma il privato in universale e viceversa. Uscire per strada, con fatica, e tornarsene poi delusi e modesti al calore di casa è già di per sé un atto poetico se raccontato con questi versi classici e sinuosi che nascono sempre da un'impressione e mai da un ragionamento, ma che ragionano eccome, mentre diventano la parola perfetta, unica, insostituibile, che serve a dire la noia, o l'invecchiamento, o lo scherzo dell'amore».
Annalena Benini, «Il Foglio»
«Vorremmo dire a Patrizia Cavalli che tutte le sue opere composte fino ad oggi, per noi che le vediamo dal di fuori, formano un disegno meraviglioso, una figura riconoscibile che questo libro persegue con visibile armonia di tratti. Ma poi leggiamo un'altra delle sue nuove poesie, sul potere del bacio "Ah l'avessi saputo | che bastava un bacio per aprirmi le vie dell'universo: | stelle e pianeti che si incrociano | parlando, costellazioni intere | che si intessono. | E io in mezzo a loro che le guardo | tessile ordito ardente | che reggo, e non domando", e allora comprendiamo che ciò che rende una "vita meravigliosa" non è solo e non è tanto quello che si capisce – il processo spiegato, il male interpretato, la forma distinguibile – ma quello che non si capisce e al cospetto di cui si sta, compatti e ardenti, senza domandare. Il mistero, o più precisamente quello che Shakespeare, ben noto a Cavalli, avrebbe chiamato "the mystery within", il mistero dentro le cose, che non solo le abita, ma abitandole le tiene insieme. Le fa esistere. Per questo motivo, non possiamo che affidarci ad un'ultima fra le poesie di Vita meravigliosa: "Ma prima di morire | forse potrò capire | la mia incerta e oscura condizione. || Forse per non morire | continuo a non capire | sicura in questa chiara confusione." Baciati dai versi di Patrizia Cavalli, anche noi ci sentiamo così: incerti eppure interi, come tenuti insieme dal mistero della sua poesia. Il punto non è vedere il disegno, ma sentire grazie a lei – di farne parte».
Sara De Simone, «il manifesto»
«"Ah, sognami senza ordine e dimentica | i tanti nomi, fammi stella unica: | non voglio un nome ma stellarti gli occhi, | esserti firmamento e vista chiusa", si dice in questo canzoniere, che fa male, a tratti, per fortuna, come chi, per eccesso d'amore malriposto, frantumi un bicchiere tra le mani, ed è sangue, muto».
Davide Brullo, «il Giornale»
«In questa racconta che s’intitola con una certa dose di ironia Vita meravigliosa c'è più solitudine che mai, più oblio, più senso di morte. Anzi, la morte consiste proprio nello scoprirsi definitivamente soli e nel non poter più ricordare nulla d'intero. Il mio felice niente - che è titolo di una sezione ed expiicit di una poesia (in rima con «la mia nemica mente») racchiude forse la formula di un esorcismo: scrivere come cucire, contro la cancellazione, con uno stupore insieme senile e bambino. «E me ne devo andare via così? | Non che mi aspetti il disegno compiuto | ciò che si vede alla fine del ricamo | quando si rompe con i denti il filo/ dopo averlo su se stesso ricucito | perché non possa più sfilarsi se tirato. / Ma quel che ho v isto si tirato. | Ma quel che ho visto si è tutto cancellato. | E quasi non avevo cominciato».
Gianluigi Simonetti, «Il Sole 24 Ore»
«Come ad Elizabeth Strout, con cui condivide la scrittura perfetta e il coraggio di portare a galla i pensieri e le miserie che ciascuno relega in fondo a sé e di affidarli ai suoi protagonisti, il procedere della narrazione per punti di vista, per quadri che paiono racconti, anche ad Elena Varvello non interessano le storie di famiglie felici, ma la sofferenza senza sconti di persone normali. Ci costringe a guardare sotto quel cappuccio, a tenerci in bilico sul confine sottile che corre tra ribellione, trasgressione e punto di non ritorno».
Elena Masuelli, «Tuttolibri – La Stampa»
Una famiglia che si crede fortunata. Un padre insegnante, che ogni giorno ha a che fare con i giovani; una madre infermiera, abituata a prendersi cura degli altri. Hanno due figlie e desiderano un maschio, che finalmente arriva. Tutto va per il meglio.
È attraversando l'età oscura dell'adolescenza, però, che il figlio, questo ragazzo all’apparenza senza nome, buono e gentile eppure sfuggente, nascosto dal cappuccio di una felpa, inizia a commettere infrazioni via via sempre più gravi. Nel suo rifugio, una capanna tra gli alberi, sembra condurre una vita segreta. È un giovane eremita, il ragazzo dei boschi. Soltanto timido, soltanto solitario. Oppure no? Fino a una notte d’estate del 1989, la notte in cui accade l’impensabile e che travolgerà ogni cosa.
«L’abilità di Varvello sta nel non indulgere in moralismi o spiegazioni gnomiche ma nel presentare l’esistenza del suo protagonista, i suoi gesti e le sue parole, dove la rabbia si mescola ad una tenerezza e a disperazione che non ha pari» (Demetrio Paolin, «la Lettura – Corriere della Sera»).
Il trauma della scoperta, azioni indecifrabili stigmatizzate dalla comunità, le infinite possibili risposte alla domanda: “Chi sei?”, la vergogna e il senso di colpa lacerano la madre, il padre e le sorelle. Sapranno ritrovarsi, e trovare la pace? E lui, il ragazzo, quale mistero incarna? «Elena Varvello sa leggere (e raccontare) le vite degli altri. È capace di muoversi fra le zone grigie e i non detti, di dare forma alle inquietudini, ai dolori che si annidano nelle famiglie. Ne coglie l'istante in cui qualcosa, in modo inaspettato e irreparabile, si spezza, senza che nessuno possa fare niente» (Elena Masuelli, «Tuttolibri – La Stampa»).
Elena Varvello ha avuto il coraggio di entrare nel dolore più grande, quello che non ha scampo Annalena Benini, «Il Foglio»
«Accettare la sofferenza altrui significa prima di tutto soffrirne, e in questo romanzo la narratrice soffre, ma con una scrittura limpida e alta che solleva tutti i protagonisti, anche dentro la piccolezza delle azioni, la miseria dei caduti. Non era "solo un ragazzo", questa è la risposta. Nessuno lo è» (Annalena Benini, «Il Foglio»).
Il tema è incandescente e misterioso: il vuoto di un figlio che non ha mai trovato il proprio posto nel mondo.
Conosciuto in America e nel mondo soprattutto per i suoi scritti autobiografici sul razzismo di sistema, e recentemente anche per alcuni episodi del fumetto Marvel Black Panther, Ta-Nehisi Coates è considerato uno degli intellettuali pubblici più importanti degli Stati Uniti.
Con Il danzatore dell’acqua, e attraverso lo straordinario protagonista Hiram Walker, l’autore ha dato vita a «un grande romanzo popolare sulla storia degli schiavi neri che è anche un romanzo di formazione, a metà fra Radici di Alex Haley e l'affabulazione accostante e memoriale di Fra me e il mondo con cui Coates aveva vinto nel 2015 il National Book Award for non Fiction» (Alessandra Sarchi, «la Lettura – Corriere della Sera»).
Hiram è nato schiavo in una piantagione della Virginia. Il ragazzo ha una memoria portentosa, che insieme alla sua intelligenza, gli permette di lavorare a fianco dei bianchi. Suo padre è il proprietario della piantagione e, come spesso accadeva all’epoca, ha messo incinta una schiava e l’ha poi venduta quando era solo un bambino. Ed è proprio della madre che Hiram non ricorda niente.
Un giorno, a diciannove anni, il protagonista precipita nel fiume. Gli manca il respiro, come se fosse spinto a fondo dalle sue stesse catene; scopre invece di possedere un misterioso potere che lo salva dalla morte. Un potere, una visione che si trasformerà in una missione, per sé e per tutto il suo popolo.
«Nel romanzo, Coates coniuga la narrazione storica con il genere fantasy […] Prima di essere una storia d’amore e un romanzo di avventura, il libro di Coates è una potente metafora del valore della memoria e del racconto. La memoria apre “una porta azzurra tra un mondo e l’altro” e “può piegare la terra come un panno”. Il mondo a cui Coates si riferisce è il nostro. Attraverso il racconto entriamo in contatto con il mondo della schiavitù e, conservandolo nella memoria, riusciamo a salvare non solo chi lo ha abitato ma anche noi stessi» (Arianna Farinelli, «Domani»).
Questo è il talento di Coates, che risale alla radice di un male tutt'oggi irrisolto e ispira movimenti di protesta come Black Lives Matter, di cui ha scritto le basi teoriche Gabriele Santoro, «Il Messaggero»
Il danzatore dell’acqua è una storia di rabbia e passione, «Hiram Walker è personaggio denso e oracolare, capace con la propria stessa voce narrante non solo di tratteggiare un intero spaccato di mondo: anche di restituire le molte domande insolute che si appostano in un frangente storico durissimo (la schiavitù negli Stati Uniti) e tra le maglie dell'intreccio di molti destini umani» (Lisa Ginzburg, «Avvenire»).
«Sono tanti gli elementi che Coates ha voluto unire nella narrazione: l'animismo e il soprannaturale, retaggio della cultura africana soppressa dai bianchi, il ruolo giocato dall'illuminismo egalitario ma soprattutto, a lui tacciato di essere un "afropessimista" per la sua visione senza sconti della storia, questo romanzo ha dato l'occasione per porre l'accento sul potere positivo del racconto: un ponte, una via di fuga, forse una salvezza» (Alessandra Sarchi, «la Lettura – Corriere della Sera»).
Giacomo Gravela, un professore di italiano in pensione, viene trovato morto nel sottotetto dove la sera si ritirava a dormire. Pare che a ucciderlo sia stato il monossido di carbonio di una vecchia stufa, ma il magistrato De Carolis non crede a una disgrazia.
Gelsomina Settembre, detta Mina, indomabile, sottopagata, splendida – suo malgrado provocante – assistente sociale nei Quartieri Spagnoli, viene coinvolta nel caso dalla madre di Rosario Contini, appena uscito dal carcere e sospettato dell'omicidio dell'anziano, che era stato suo insegnante. Mina, al solito intuitiva ed empatica, accetta di occuparsene e trascina con sé il bellissimo dottor Gammardella, ginecologo del consultorio in cui lavora, sottraendolo per un po’ all’adorazione delle sue pazienti.
«De Giovanni è eccezionale nel descrivere Mina, i suoi ideali, le sue disavventure sentimentali e lavorative. Riesce a entrare nella psicologia femminile con un'eleganza e un'ironia senza pari» (Chiara Moscardelli, «tuttolibri – La Stampa»).
Cacciarsi nei guai, poi, quando tutto sembra perduto, risolvere la situazione con un colpo di genio e una buona dose di follia è il grande talento della protagonista, intorno alla quale de Giovanni costruisce «un romanzo delicato, ironico, a tratti esilarante con un caleidoscopio di personaggi profondi e al tempo stesso divertentissimi. De Giovanni è un maestro del giallo, ma lo è altrettanto della bizzarra e spesso incomprensibile, almeno per gli uomini, psicologia femminile» (Chiara Moscardelli, «tuttolibri – La Stampa»).
Secondo Maurizio Crosetti, in Troppo freddo per Settembre «più della storia, per de Giovanni contano i personaggi e le loro ragioni. Bisogna mettere a posto le cose in senso etico, rovesciare quel luogo comune chiamato Napoli e dargli riconoscibilità universale: in Italia, sembra che i narratori di genere lo sappiano fare più e meglio degli "scrittori scrittori", sono loro ormai a raccontarci davvero i luoghi, i territori, i dialetti, le sfumature di una lingua in cui la forma è sostanza» («Robinson – la Repubblica»).
Mina «è fuori posto: nel mondo altoborghese in cui è nata, per la sua sensibilità sociale forte, ai Quartieri Spagnoli perché è una signora di quelli alti. Vive nella cameretta dove era bambina, lei è profonda e squattrinata e le amiche sono tutte ricche e superficiali... È fuori posto anche affettivamente perché innamorata persa del collega ginecologo che tratta malissimo, ma anche con il suo passato perché l'ex marito la protegge come se fosse una ragazzina capricciosa. E poi ha un corpo e un volto che non quadrano con ciò che vuole essere. La chiave narrativa è che Mina viene raccontata nelle sue assolute stonature» (Maurizio de Giovanni intervistato da Ida Palisi, «Il Mattino»).
Nella prime pagine del suo saggio, Chiara Valerio dichiara: «La matematica è stata il mio apprendistato alla rivoluzione, dove per rivoluzione intendo l’impossibilita di aderire a qualsiasi sistema logico, normativo, culturale e sentimentale in cui esista la verità assoluta, il capo, l’autorità imposta e indiscutibile». Per l’autrice, laureata e addottorata in matematica oltre che scrittrice, democrazia e matematica, da un punto di vista politico, si somigliano: come tutti i processi creativi non sopportano di non cambiare mai:
«Chiara Valerio argomenta brillantemente in questo piccolo libro la convinzione che non solo La matematica è politica, ciò che già è sorprendente di per sé, ma, di più, che la matematica è politica democratica. Che l'autrice sia matematica risulta innanzitutto dalla sua vocazione scientifica. Come studiosa e docente di numeri e come risolutrice d'incognite, la passione per la sua materia traspare da ogni pagina; come cittadina responsabile verso la società, l'amore per la democrazia traspare lo stesso» (Gustavo Zagrebelsky, «la Repubblica»).
L’obiettivo dell’autrice «è sottolineare il valore civile della formazione matematica, la sua funzione di ginnastica posturale del cervello capace di sviluppare un'attitudine all'antidogmatismo, alla capacità critica e in definitiva all'esercizio della rivoluzione intesa come salutare processo di ridiscussione delle forme del vivere civile» (Lorenzo Tomasin, «Il Sole 24 Ore»).
Chiara Valerio tesse in un pamphlet polemico un parallelo tra matematica e democrazia, due aree che non subiscono la dittatura dell’urgenza. Il contento del libro non è però «una doppia dichiarazione, come se fosse dirsi vegetariana e democratica, oppure matematica e podista. L'intento è di mostrare l'esistenza di un condizionamento reciproco o, meglio, una implicazione reciproca: essere democratica perché matematica, oppure essere matematica e dunque democratica» (Gustavo Zagrebelsky, «la Repubblica»).
Ci sono libri che avrei voluto esistessero quando ero al liceo. Questo è uno di quelli. Marco Malvaldi
Studiando matematica si capiscono molte cose sulla verità. Per esempio che le verità sono partecipate e pertanto i principî di autorità non esistono; che le verità sono tutte assolute ma tutte transitorie perché dipendono dall’insieme di definizione e dalle condizioni al contorno. «Lungi dall'abituare ad un'obbedienza prona e passiva all'imposizione autoritaria, la matematica ha il naturale effetto di avvezzare alla verifica, di non far rinunciare all'incertezza (pur misurandola) pur rifuggendo le ambiguità. In questo senso, secondo Chiara Valerio, la matematica è politica, e volentieri le si dà ragione leggendo la difesa dei valori dì libertà, democrazia, rispetto del prossimo e delle regole del vivere civile che accompagnano la sua storia» (Lorenzo Tomasin, «Il Sole 24 Ore»).
«Come sanno i suoi lettori, Valerio è una scrittrice pirotecnica e di matematica ne sa qualcosa, visto che prima di appassionarsi alla scrittura si è dedicata ai numeri. Questo saggio, che sembra un teorema letterario, dimostra che, se un campo è considerato algido e lontano, alla fine è sempre e solo un problema di narrazione» (Serena Dandini, «Io Donna»).
Al via nella suggestiva cornice della città di Mantova, la XXIV edizione del Festivaletteratura: un’edizione reinventata, senz'altro inusuale, ma nello stesso tempo fortemente riconoscibile. La scelta fatta per il 2020 è di organizzare un Festival a quattro piste, attraverso la proposta di eventi dal vivo e in streaming all'interno della città, l'apertura di una radio del Festival, la pubblicazione di un almanacco, la creazione di contenuti speciali per il web: quattro "spazi" di incontro e partecipazione, autonomi e interconnessi, capaci di garantire ad autori, lettori e amici del Festival di essere comunque presenti, secondo la propria sensibilità e nonostante i limiti agli spostamenti. Qui il programma completo.
Il calendario degli appuntamenti IN PRESENZA con gli autori Einaudi:
Giovedì 10 settembre
Ore 17.00, Palazzo Ducale - € 7,00
Il nostro passato tra le righe
Bruno Arpaia e Carlo Lucarelli con Marcello Flores
Ore 21.30, Palazzo Te - Cortile meridionale - € 12,00
Il quotidiano innamoramento
Rito sonoro di e con Mariangela Gualtieri. Con la guida di Cesare Ronconi
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Venerdì 11 settembre
Ore 10.30, Palazzo Ducale - € 7,00
Buenos Aires si tinge di giallo
Martín Caparrós con Bruno Arpaia
Ore 11.00, Palazzo San Sebastiano - € 7,00
Piccolo paese io ti conosco
Tommaso Melilli e Roberto Camurri con Simonetta Bitasi
Ore 18.30, Via Diga Masetti - Valletta Valsecchi - Accesso libero
Il gioco del giallo - piazza balcone
Carlo Lucarelli e Marco Malvaldi con Luca Crovi
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Sabato 12 settembre
Ore 11.00, Tenda Sordello - Ingresso gratuito con prenotazione e STREAMING
Matematica e rivoluzione. Accenti
Con Chiara Valerio
Ore 18.30, Via Einaudi - Accesso libero
Non mi sento troppo bene - piazza balcone
Lorenzo Marone con Bruno Gambarotta
Ore 18.30, Museo Diocesano - Chiostro - € 7,00
Tra arte e letteratura
Hisham Matar e Melania G. Mazzucco con Elisabetta Bucciarelli
Hisham Matar interverrà in collegamento streaming e parlerà in inglese, con interpretazione consecutiva in italiano.
Ore 19.00, Palazzo Ducale - Piazza Santa Barbara - Ingresso gratuito con prenotazione
Profezie
Con Luca Mercalli
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Domenica 13 settembre
Ore 12.00, Museo Diocesano - Chiostro - € 7,00
Generazione di passaggio
Giulia Corsalini ed Elvira Seminara (in collegamento) con Massimo Cirri
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STREAMING WEB
Gli incontri in streaming saranno visibili sul sito 2020.festivaletteratura.it, e in città alla Tenda Sordello (ingresso libero con prenotazione), in bar e caffè del centro, presso l'Ospedale "Carlo Poma" e in altri luoghi della città (l'elenco completo e aggiornato è disponibile sul sito 2020.festivaletteratura.it).
Domenica 13 settembre
Ore 18.30, Incontro in streaming e proiezione in Tenda Sordello
Il mondo è nella mia testa, il mio corpo è nel mondo
Interviste impossibili
Paul Auster con Peter Florence
L'intervista si terrà in lingua inglese con sottotitoli in italiano.
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CALENDARIO EVENTI RADIO
Per seguire la diretta di Radio Festivaletteratura basta "sintonizzarsi" al sito 2020.festivaletteratura.it, oppure accomodarsi nell'area relax di Piazza Alberti, nelle biblioteche della rete bibliotecaria mantovana e in altri luoghi della città dove saranno creati alcuni punti d'ascolto radio nei giorni del Festival (l'elenco completo è disponibile su 2020.festivaletteratura.it).
Mercoledì 9 settembre
Ore 12.00
Sintomatiche parole (Puntata 1 - Immunità)
Ospiti Roberto Esposito e Paolo Vineis. Con un intervento di Giuseppe Antonelli.
Conduce Lorenzo Alunni.
Ore 14.00
Doppio misto (Puntata 1 - Infinito presente)
Ospite Corrado Augias con Giacomo Leopardi. Conduce Elsa Riccadonna.
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Giovedì 10 settembre
Ore 20.05
Le parole del cibo (Puntata 1)
Ospite Tommaso Melilli. Conduce Amalia Sacchi.
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Venerdì 11 settembre
Ore 17.00
Cabaret letterario (Puntata 2 - La famiglia è il fulcro della felicità)
Ospiti Erica Barbiani e Andrea Serra. Conducono Simonetta Bitasi e Angelo Orlando Meloni.
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Sabato 12 settembre
Ore 16.00
Cabaret letterario (Puntata 3 - La comicità nascosta nella quotidianità)
Ospiti Paolo Colagrande e Desy Icardi. Conducono Simonetta Bitasi e Angelo Orlando Meloni.
Ore 19.00
Doppio misto (Puntata 3 - Oltre la soglia)
Ospiti Stefania Bertola con E. T. A. Hoffman. Conduce Elsa Riccadonna.
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Domenica 13 settembre
Ore 16.00
Cabaret letterario (Puntata 4 - L'umorismo come lezione di vita?)
Ospiti Fabio Bartolomei, Diego De Silva. Conducono Simonetta Bitasi e Angelo Orlando Meloni.
Ore 18.20
Archivi: ieri, oggi, domani (Puntata 4 - Gli archivi e le stragi)
Ospiti Michele Di Sivo, Benedetta Tobagi. Conduce Manuela Soldi.
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LISTA INTERVENTI ALMANACCO
Consultabile al link: https://www.festivaletteratura.it/it/2020/almanacco
Consigli pratici:
- Francesco Abate, Albergo delle emozioni
- Stefania Bertola, Come infilare il piumone nel copripiumone
- Lina Bolzoni, Prendersi cura del proprio giardino, o anche solo di un vaso di fiori
- Giulio Busi, Il gioco dell’albero
- Chandra Livia Candiani, Come si abbracciano le ombre
- Diego De Silva, Comportarsi da cretino
- Marcello Fois, Come capire le trame delle opere liriche
- Massimo Mantellini, La ricetta della piadina romagnola
- Tommaso Mellili, Come leggere un menu
- Chiara Valerio, Come lavare i piatti
Interviste:
- Martin Caparrós in dialogo con Lorenzo Pirovano
- Alberto Manguel in dialogo con Simonetta Bitasi
Memorabilia:
- Silvia Bencivelli, Planetoidi e suricati
- Donatella Di Cesare, Fenomenologia della mascherina
- Donatella Di Pietrantonio, In memoria di Anna
- Francesco Erbani, Le capre di Alessandra ed Emanuele
- Franco La Cecla, Il diritto di parcheggiare in seconda fila
- Francesca Mannocchi, Il tempo in cui ho imparato a cadere
- Elvira Seminara, Arrivi
- Antonella Tarpino, Sentirsi moderni nell’era del Covid
- Benedetta Tobagi, Si apre la caccia ai mandanti
- Andrea Vitali, Vele
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Per informazioni:
Il sito di Festivaletteratura e il calendario completo degli appuntamenti.
Festivaletteratura su twitter (hashtag #festivaletteratura).
Festivaletteratura su facebook.
Acqua acqua fuoco è la nuova raccolta di poesie della giovane poetessa genovese Laura Accerboni. Acqua che invade le case dove abitiamo, che si insinua sotto il letto, che diventa un incubo domestico… Il fuoco è corpi che bruciano ma anche, forse, una via di fuga. La propulsione verso una lontananza dispersa tra galassie e pianeti che viene evocata nelle ultime poesie è forse la conclusione di un percorso, il ritrovamento di ciò che fin dall’inizio si cercava.
Sono versi pieni di ferocia e di angoscia scritti con straniante impassibilità, come dimostra la poesia di apertura: «Ho fotografato | l'inferno | è sempre a fuoco | perfetto».
Di seguito alcuni estratti dell’accoglienza a Acqua acqua fuoco:
«Laura Accerboni frequenta galassie di esseri mutanti ("Al posto | della pelle | indossano | animali | vivi | dopo il caffè | si danno | la caccia | da soli"), propone distopie, sguardi sghembi su realtà minime cariche di ferocia, storie nutrite di ironia e sarcasmo, amarezza, ma che mantengono una lingua leggera pur se raccontano i migranti morti nelle acque del Mediterraneo ("Le correnti | portano via | anche gli ultimi | quelli che si sono | attardati | sul fondo | pensando che tanto | da qui non si esce") o il crollo del ponte Morandi (l'autrice è genovese), assumendo così una voce politica, calata nell'attualità».
Alessandra Pacelli, «Il Mattino»
«Laura Accerboni, poetessa nata ne l1985, sembra scrivere sotto l'ingiunzione di non dimenticare il male, l'orrore della natura e della storia. Sembra credere che solo a questo patto la poesia possa essere autentica, anzi che solo a questo patto la poesia possa ancora darsi. Se c'è il male (e forse alle spalle si scorge Theodor Adorno e il suo monito sull'impossibilità della poesia dopo Auschwitz), la poesia non può più cantare. Essa può darsi, forse, ma fissando quella voragine, dicendo e mettendo in scena ossessivamente ciò che si vorrebbe dimenticare».
Daniele Piccini, «la Lettura – Corriere della Sera»
«Vi sono momenti di potente sarcasmo: "Si raccolgono | per i campi | insieme | ai pomodori | hanno abitudini | particolari: | muoiono | tra le piante |e rinascono | già grandi | con lo stesso | nome." (p. 65). L'immagine è circolare, allude alla ciclicità della morte, che non riesce mai a cancellare il "sovrabbondare" della vita. La realtà emerge, tra questi versi brevi. Si parla di infiniti drammi, tra cui la tragedia del Ponte Morandi. Poesia politica? Ogni atto, anche un urlo, ha un "valore politico". Il lettore resta alla fine con il presentimento della "negatività del nulla". L'interesse che il testo suscita dipende, appunto, da come si considerava prima il "nulla", se non sia un dato su cui cominciare il processo creativo. La crudeltà è "scoperta"? Nel libro il nulla è una conquista».
Domenico Iannaco, «Il Foglio»
«La forza di questi versi sta nella semplicità di un appello che non lascia scampo, a cui si può solo rispondere “presente”, come per quel fenomeno atroce dell’esplosione che lascia impresse le sagome sui muri, anche quando i corpi che proiettavano quelle sagome sono disintegrati in cenere. È questa la qualità del fuoco che si staglia nel titolo, una possibilità di bruciare la retorica, il sentimentalismo, l’invadenza dell’io sulla pira inconsumabile dello sguardo. Se lo sguardo non viene distolto, quanti sono i drammi infimi o immani, da telegiornale o da resoconto privato, nobili o mediocri, che gli scorrono davanti!»
Maria Luisa Vezzali
«...in molti casi la poesia di Laura Accerboni muove da dettagli o stimoli di cronaca, e sotto l'acqua (alluvioni) ed il fuoco (guerre) possiamo certo iscrivere molte vicende occorse nell'ultimo decennio, ma grazie all'impianto stranito delle sue connessioni ci troviamo felicemente alla prese con un'invenzione del vero, piuttosto che con un gioco mimetico. Oltre l'acqua ed il fuoco, protagonisti del libro sono i corpi, variamente smembrati, il cemento variamente crollante, l'osmosi tra consumismo e cannibalismo, il domestico coniugato con l'orrido, a volte con esiti di spiazzante humor nero: “Con un colpo | solo | mi sono tagliata | la testa | dopo anni | di allenamento | non ho sentito | niente. | L’acqua bolle | e i bambini | sono già seduti |e puliti”».
Stefano Verdino, «Il Secolo XIX»
Nel suo nuovo romanzo Alessandra Sacchi racconta la storia di Antonia, una madre biologa che ha scelto di allevare capre in campagna, e di sua figlia Anna che, ventenne, ha smesso di mangiare. Il loro rapporto è teso e Antonia si domanda se, rifiutando il cibo, Anna non stia tentando di svincolarsi dalla sua devozione materna.
Dietro questo legame ce ne sono altri, altre madri e altri padri che devono affrontare, disorientati, il disturbo delle loro figlie. Il racconto che si snoda fra le pagine avvince ed inquieta: «Ha un andamento tutto suo, che sorprende: diminuisce e aumenta, si restringe e si allarga — come i corpi che ingrassano e dimagriscono. Corpi in crescita, donne in gestazione. Ora il romanzo si apre a tante storie, ora si restringe a una, resoconto interiore, cunicolo, che conduce ad altre storie ancora, generando ulteriori racconti» (Teresa Ciabatti, «Corriere della Sera»).
Da che cosa si vuole liberare Anna rifiutando il cibo? Protesta con il corpo e la sua «magrezza maligna» sembra un’accusa verso la madre. Quella di non averla amata abbastanza, di non averla nutrita a sufficienza o di averla portata a vivere in campagna? Pur di capire Antonia frequenta un gruppo di sostegno per genitori di figli anoressici ed «è nelle parole degli altri che si ritrova e, con fatica, ridimensiona la colpa. Scomponi la colpa, come indica Alessandra Sarchi, ribaltando così il luogo comune che vuole l'origine dei disturbi alimentari nel rapporto madre-figlia» (Teresa Ciabatti, «Corriere della Sera»).
Poi, un giorno, arriva la telefonata di un ragazzo americano e con lui il passato di Antonia torna a galla. All’improvviso arriva Jessie, nato dalla donazione di un suo ovulo ad un'amica; un figlio mai visto che ora cerca una madre, quella stessa che Anna rifiuta. È autentica quella maternità surrogata o i figli «sono di chi li cresce, di chi li educa, di chi li sopporta e chi li rende autonomi, amandoli»?
Mentre sua figlia sembra volersi liberare di lei, qualcuno che non può chiamare figlio invece cerca Antonia: «Ho deciso di scrivere un romanzo su questo argomento perché mi interessa lo spostamento di confini fra quello che consideriamo naturale e quello che è artificiale. Quando questo confine in continuo movimento riguarda la vita e la morte o la longevità - penso alla scoperta degli antibiotici o ai trapianti - non facciamo fatica ad accettarlo. Quando invece va a toccare una cosa come la riproduzione e la generazione, che ha una sua sacralità, legata anche alle religioni o all'istinto di sopravvivenza della specie, allora ci sono delle resistenze. E diventa necessaria una mediazione culturale» (Alessandra Sarchi intervistata da Caterina Bonvicini, «L’Espresso»).
«Un libro bellissimo per cui si potrebbe inventare la definizione di "romanzo a dubbio", perché solleva domande su un problema attuale e scomodo come quello dei nuovi modi di dare la vita consentiti dalla tecnologia medica, senza prendere mai posizione. Il tema oggi molto discusso, ma poco rappresentato in letteratura si libera di ogni ideologia e diventa «una questione di carne prima ancora che di pensieri, con tutto quello che d'inesprimibile e di oscuro la carne si porta dietro» (Caterina Bonvicini, «L’Espresso»).
Una giovane bellissima, che lavora nel mondo dell’arte, viene uccisa nel proprio appartamento a Roma. Tre personaggi coinvolti per ragioni diverse nell’omicidio forniscono la loro interpretazione dei fatti. Chi nasconde la verità. Chi la manipola. Chi sembra non curarsene. Dietro a ognuno dei tre personaggi ci sono tre grandi scrittori:
A dare la parola al commissario Davide Brandi, poliziotto molto abile e molto ambizioso, colui che conduce le indagini, è Giancarlo De Cataldo.
A dare la parola a Marco Valerio Guerra, uomo d'affari ricchissimo, potente e odiato, è Maurizio de Giovanni.
Infine, a dare la parola ad Anna Carla Santucci, moglie di Guerra, affatto stupita del tradimento del marito, è Cristina Cassar Scalia.
Tre passi per un delitto è «una creatura a tre teste, sei occhi e sei mani, animale bizzarro e sorprendente che muta pelle e cambia voce perché si tratta di una bestia parlante. Questo mostro, nel senso che è portentoso ma fa anche paura, racconta una storia (un giallo) da tre punti di vista diversi, stringe e scioglie nodi, ama più la bugia della verità ma lo fa senza regola apparente, secondo come gli gira. Quello che sembra vero all'inizio diventa falso alla fine e viceversa. L'assassino non è il maggiordomo e prende forma solo nelle ultime pagine, secondo un canone tradizionale che però le sei mani scompaginano. Un po' Rashomon, certo, ma dentro un romanzo noir italiano non s'era ancora visto» (Maurizio Crosetti, «la Repubblica»).
Ci interessava sottolineare l'ammissibilità dei diversi punti di vista, divertirci e divertire. Maurizio de Giovanni, «la Repubblica»
Una commedia nera divisa in sei atti, due per ogni autore, nata da un’idea, come spiega De Cataldo, di Maurizio de Giovanni: «Me ne parlò e ci mettemmo sul gusto. Un omicidio classico, tre punti di vista: mancava la voce femminile, così chiamammo Cristina. Poi è stato un continuo scambio di telefonate, mail e incontri per calibrare tutto. Non poteva sfuggire alcun dettaglio, ci abbiamo messo un paio d'anni o forse più. Un singolare esperimento: siamo entrati nella stanza di Barbablù per vedere cosa ci fosse lì dentro. Tecnicamente parlando, ognuno di noi ha scritto per proprio conto sulla traccia della trama concordata. La speranza è che tre voci abbiano prodotto un autore. Di sicuro ci siamo divertiti come matti» (Giancarlo De Cataldo intervistato da Maurizio Crosetti, «la Repubblica»).
Per scoprire la verità di questa storia, tra contraddizioni e versioni sconcordanti, bisogna scavare «nel sottosuolo umano, nel profondo delle pulsioni e alla superficie dell'interesse. Ferocia, malizia e amore, persino l'amore, non mentiranno. Poi, alla soluzione si può anche arrivare per caso. Ma come dice Marco Valerio Guerra, “quello che chiamiamo caso è solo l'attenzione che prestiamo a ciò che succede”» (Maurizio Crosetti, «la Repubblica»).
Dopo Promemoria, il suo esordio in versi, Andrea Bajani torna nella «Bianca» con Dimora naturale. Un libro attraversato da molti animali. Da quelli selvaggi dei documentari che ci ipnotizzano in tv, a gabbiani e storni osservati nei cieli cittadini, dal polpo di cui si è scoperto un cervello diffuso lungo il corpo fino alle mosche dipinte sugli orinatoi. Tra questi l’uomo, specie tra le specie, vorticante insieme alle altre sul pianeta; come loro cerca il contatto con la terra e come tutti non la riconosce più dopo averla violata così tanto.
Il lavoro dell’autore è stato accolto calorosamente dalla critica e da molte firme autorevoli del mondo letterario italiano:
«Dimora naturale, di Andrea Bajani, è un libro in cui spiccano due testi consacrati alla poesia come strazio vocale o asteroide. Ma vanno lette con attenzione anche le composizioni sulla farmacia, “un negozio con dentro gli attrezzi | per riparare il dolore della specie”, sui cani che ci guardano sotto forma di documentari, sui cantieri stradali come una forma di sollievo della terra. Queste 50 liriche di 8 versi l’una formano un canzoniere talmente ispirato e piano da risultare anomalo nel senso più alto del termine».
Valerio Magrelli
«C’è un gabbiano che, forse per sbaglio, porta il mare sul terrazzo, e c’è un poeta che si interroga sul senso di questo disorientamento animale: prendere una palazzina anni Cinquanta per la propria dimora naturale. È lo scarto che conta (il gabbiano fuori luogo), la lontananza che si fa presenza allucinata o la coincidenza inattesa (e quasi miracolosa) tra l’umano e il non umano? Dove sta la minaccia? Ed è poi davvero una minaccia? La poesia è in questa “dimora naturale” che apre vertigini ed enigmi».
Paolo Di Stefano
«Un decentramento dello sguardo, un fascino dell'elevazione e della levità, che fa venire in mente, certo, il leopardiano Elogio degli uccelli, e più in generale quell'avventura propria di una tradizione poetica che intende la lingua della poesia come resistenza alla fine dell'infanzia: una resistenza che cerca di accogliere, di quel perduto fiabesco mondo vivente, echi, sguardi, fantasmi. Senza rimpianto, ma trasformando il lontano incantamento in conoscenza fantastica».
Antonio Prete, «Alias – il manifesto»
«Un'ironia amara e paradossale anima le poesie di Bajani, mai sfiorate dal rischio della solennità. Quale sarà, si chiede ancora il poeta, la voce della nostra specie? “Non è un grugnito o un miagolio | è un po' belato un po' starnazzo. È la poesia, lo strazio vocale di ogni io. Bello o brutto, è il verso che facciamo”. Il basso continuo dell'ironia si rovescia cosi in una pietas creaturale universale, sì che potremmo leggere l'intera raccolta come un sermo humilis, un invito ricorrente a riscoprire il valore supremo della gentilezza, “che è senza spiegazioni, non ha ratio”, ma come “forza pura e disarmata, | si propaga come suono nello spazio”. Un po' come la bontà illogica di Vasilij Grossman».
Franco Marcoaldi, «Robinson – la Repubblica»
«L'angolazione di Bajani permette aperture filosofiche, diventa pensiero poetante: innesca una serie di immagini che in sintesi ci parlano della nostra vita, del nostro essere in precario equilibrio in un mondo che crediamo solo di conoscere. Il mistero viene dall'interazione con la bellezza, naturale appunto, degli animali che ci affiancano: chi siamo, e quanto siamo diversi da loro? Il nostro cervello, di cui abbiamo la tendenza a vantarci, per Bajani è un abnorme fardello, una condanna. Il nostro stesso linguaggio, e in particolare quello poetico, è misurato su parametri animali: se l'inchiostro è spruzzato dalle seppie come forma di difesa, Bajani si chiede "qual è la ghiandola … che secerne questi versi" e, soprattutto, quale sia la minaccia che il poeta deve affrontare. La domanda è dunque sul senso stesso della poesia, difesa contro il dolore provocato dalla vita o forse, meglio ancora, contro la difficoltà a capirne il senso e il valore. Gran parte della letteratura del secolo breve ha ruotato intorno a questo tema e a questa domanda, molto esistenziale e poco letteraria e ora forse si avvicina a una nuova domanda: quanto c'è di "natura" in noi, quanto ne abbiamo bisogno, anzi quanto è indispensabile?»
Bianca Garavelli, «Avvenire»
«La coerenza poetica, rispetto al precedente libro, si trova appunto nella dimensione metaletteraria, anzi Bajani sembra proprio riprendere il filo di un tema esaminato in precedenza: come trovare salvezza nella parola. Lo fa all'interno di un valore comparativo, tanto da ricordarci un altro validissimo autore, Ivano Ferrari e il suo Macello».
Mary B. Tolusso, «Il Piccolo»
«Ma c'è anche quello che Michel Serres chiama “mondo muto” in questo piccolo e prezioso libro, la terra, i fiumi, i laghi, sconvolti dalle alterazioni climatiche, che parla appunto di un nuovo patto con la natura, la terra che in alcuni di questi versi “riprende a respirare” dopo che gli operai con la scavatrice spaccano la strada, una volta “ristabilito il patto originale”».
Angelo Ferracuti, «il manifesto»
«Quarantanove componimenti più uno, tutti di otto versi, che sono “lo strazio vocale di ogni io”, la voce della specie cui apparteniamo. Quando è così ispirata, questa voce riesce a rendere più tollerabile la nostra appartenenza, almeno per chi ha il privilegio di ascoltarla».
Rosella Postorino, «Tuttolibri – La Stampa»
«Poco prima del Giubileo arrivai a Roma, vedevo i gabbiani in città e mi parevano orfani del mare. Negli anni Dieci hanno invaso l'Urbe e io sono tornato a Milano. Oggi, di passaggio a Roma, ho trovato nel nuovo libro di Andrea Bajani l'esatta espressione di quel doppio disorientamento che suscita la vista di questi uccelli regali e il loro destino vile e minaccioso di spazzini predatori».
Luca Mastrantonio, «Sette – Corriere della Sera»