Uno degli effetti dello straordinario successo de La regina degli scacchi, la miniserie prodotta da Netflix e tratta dall’omonimo romanzo di Walter Tevis, è stato quello di riaccendere la passione del grande pubblico per il nobile gioco di strategia.
Il 27 novembre l’NBC News scrive che è diventato «improvvisamente uno dei giochi in cima alle liste dei desideri di queste festività natalizie», aggiungendo che «i rivenditori stanno lottando per averlo in magazzino» (link).
Negli Stati Uniti tutta questa attenzione sta riportando in auge anche molti libri le cui storie ruotano intorno agli scacchi. Agli orfani della serie proponiamo di seguito alcuni titoli presenti nel catalogo Einaudi.
Il più recente è Il gioco degli dèi di Paolo Maurensig, uscito nel 2019 nei Supercoralli. È la storia di Malik Mir Sultan Khan, lo scacchista che ha battuto Capablanca, l’uomo misterioso di cui parla tutta New York, un enigma per chiunque lo incontri. Per Cristina Taglietti l’autore «restituisce verità storica allo “scacchista con il turbante”, un personaggio che sembra uscito dalle pagine di Kipling. La breve carriera del giovane servo rispecchia la tentata rivolta dell’India all’imperialismo britannico. Nel gioco degli scacchi lo scrittore cela anche il gioco del mondo» («Sette – Corriere della Sera»).
Maurensig ci regala il ritratto sorprendente di un personaggio che ribalta continuamente l’immagine del campione, e i nostri pregiudizi occidentali. «Si potrebbe azzardare che ha il passo del classico […] Il gioco degli dèi scorre sospeso tra romanzo di formazione e avventura, con un incedere tra Dickens e il Sandokan di Salgari» (Crocifisso Dentello, «il Fatto Quotidiano»).
Nel 2015 è stato pubblicato nei Tascabili Novella degli scacchi, «il miglior racconto di Stefan Zweig» (Daniele Del Giudice). Un classico scritto pochi mesi prima che l’autore si suicidasse nella città brasiliana di Petrópolis. È un’inquietante favola, «un piccolo contributo – come sostiene con dolorosa ironia il protagonista – a questa nostra epoca così grande e soave».
In queste pagine la guerra tra cultura e ignoranza, intelligenza e meschinità si consuma tra le pedine di una scacchiera. Un racconto che, alle porte della Seconda guerra mondiale, mostra un mondo che sta scivolando sempre più in basso.
Per Zweig gli scacchi sono l’unico gioco «fra tutti quelli ideati dall’uomo che sovranamente si sottrae alla tirannia del caso e consegna la palma della vittoria esclusivamente all’intelletto o, meglio, a una certa forma di talento intellettuale. Definendo gli scacchi un gioco, non ci si rende però già colpevoli di un’offensiva limitazione?» (p. 14)
Sempre nel 2015 Stile Libero ha pubblicato L’uomo degli scacchi di Peter May. È l'episodio conclusivo, dopo L'isola dei cacciatori di uccelli e L'uomo di Lewis, del trittico poliziesco che in Inghilterra ha venduto oltre un milione di copie.
Qui il lettore incontrerà «una scacchiera gigante, ogni casella delle dimensioni di sessanta centimetri quadrati. I pezzi di Whistler riempivano la scacchiera, fieri guerrieri vichinghi compiaciuti, nel loro campo di battaglia bianco e nero, con i movimenti sincronizzati alla partita che si stava giocando nella chiesa, ogni mossa trasmessa ai volontari che muovevano i pezzi con dei walkie-talkie» (p. 307). E i pezzi saranno molto importanti per lo sviluppo della trama.
«L’uomo degli scacchi offre un’esperienza quasi viscerale: camminiamo anche noi, con Fin, sulle scogliere spazzate dal vento e accanto ai laghi prosciugati. Per i lettori sarà dura accomiatarsi da questo personaggio, ma bisogna rendere merito a Peter May di aver tenuto fede al progetto di una perfetta trilogia».
«The Independent»
Scacco a Dio è una raccolta di racconti firmata da Roberto Vecchioni nel 2011. I personaggi di queste storie sono decisamente speciali: hanno sfidato Dio inventandosi un destino diverso da quello che sembrava già scritto. Grandi uomini che tutti conosciamo, si direbbe. Eppure questa parte della loro storia nessuno ce l'aveva raccontata. Così scopriamo, nel racconto che ha dato il titolo al libro, che il campione del mondo di scacchi Capablanca non ha perso il suo titolo come credevamo…
«I campioni di scacchi o si odiano tra loro o non si considerano affatto. Per Alekhine e Capablanca non era così. Non si poteva forse parlare di amicizia, ma di certo si rispettavano e si trovavano simpatici, probabilmente proprio perché così diversi, cosi all’opposto. Capablanca giocava a scacchi come fosse nato a far quello e basta: ce l’aveva dentro come un linguaggio, come un modo di sentire, e di conseguenza non si affannava più di tanto a studiare partite altrui, soluzioni inusitate, perché era certo che al momento della verità il suo istinto lo avrebbe salvato davanti a qualsiasi mossa imprevista. Né si arrovellava in attacchi all’arma bianca o in difese aggrovigliate; amava poco la forza, molto più l’eleganza, la raffinatezza. Era convinto che i problemi più complessi avessero tutti una soluzione elementare e davanti agli altri era solito dire: “Voi analizzate, io so”. Uno spaccone, pigro, indolente, amante del bel mondo, delle comodità e del piacere in ogni forma, conquistatore nato, impenitente donnaiolo. Roberto Vecchioni emoziona con la sua affabulazione rapinosa e lieve, con le sue storie un po’ sghembe capaci di cogliere e svelare, d’incanto, gli abissi dell’animo umano» (Scacco a Dio, pp. 102-3).
Il commissariato di Pizzofalcone non è più una presenza precaria nel quartiere: una serie di brillanti operazioni e un lavoro di squadra ormai collaudato lo hanno reso un riferimento stabile. «La metamorfosi da accozzaglia di "poliziotti rottamati" da altri commissariati - questo erano all'origine i Bastardi - ognuno con qualcosa da farsi perdonare nel suo percorso professionale, a team dove ognuno può contare sull'altro; la trasformazione da compagine di "teste matte" abituate a pensare solo per sé a una famiglia dove ci si sostiene e all'occorrenza ci si sopporta è una delle chiavi del successo di questi romanzi polizieschi, ispirati alla serie dell'“87º Distretto” di Ed McBain e approdati con successo anche in tv» (Severino Colombo, «Corriere della Sera», link).
Sta arrivando la primavera, con i suoi colori, i suoi profumi e le sue luci; ed è proprio in una splendida mattina di primavera, con la città illuminata da una luce perfetta, che viene ritrovato il cadavere di un uomo. È Savio Niola, proprietario di un chiosco dei fiori; per la vista non è un bello spettacolo, chi l'ha ucciso si è accanito non solo sul suo corpo, ma anche su tutto ciò che aveva intorno.
La squadra del vicequestore Palma si mette subito al lavoro, con la vicecommissaria Martini che sostituisce Pisanelli, reduce da una grave malattia. «All’interno dell’indagine, come al solito, i Bastardi di Pizzofalcone avranno modo di specchiare se stessi e la propria vita» (Maurizio de Giovanni).
Le ipotesi emergono pian piano. Niola, settantaquattro anni, aveva avuto un momento di celebrità per essersi esposto contro il racket. Era nel mirino dei clan? O a ucciderlo è stato il giovane che ospitava in casa e con cui lo hanno sentito litigare?
Ancora una volta de Giovanni attrae il lettore con una vicenda in cui si intrecciano violenza, mistero e ironia.
Un caso difficile, delicato, e «la bravura dell’autore sta nella capacità di far passare anche altro […] In Fiori i temi che si muovono sottotraccia sono quelli della vita di quartiere, dei negozi che chiudono, dei luoghi che sono, tornano, diventano presìdi di legalità e socialità; dei giovani che non si arrendono a una crisi del presente che uccide i sogni di futuro» (Severino Colombo, «Corriere della Sera»).
«Quando arriva l'impatto, quello frontale, non c'è frase per quanto bella che ti possa aiutare» disse qualche anno fa, in una delle sue rare interviste, Mario Lavagetto. La malattia, quella capace di spezzare la vita in mille pezzi, l’ha infine stroncato: domenica 29 novembre è morto uno dei più grandi critici del secondo Novecento italiano, amico e collaboratore della Casa editrice Einaudi.
Nato a Parma nel 1939, allievo di Giacomo Debenedetti, professore prima di Letteratura italiana e poi di Teoria della letteratura all’Università di Bologna, dove ha insegnato dal 1984 al 2001, Lavagetto è stato anche testimone e straordinario campione di quella stagione in cui lo studio della letteratura era il punto in cui convergevano e trovavano sintesi discorsi e discipline differenti, dalla psicanalisi alle scienze umane, dalla sociologia alla filosofia, specola privilegiata da cui osservare la società e gli individui: una stagione irripetibile e forse conclusa, come nel 2005 si interrogava lo stesso Lavagetto in Eutanasia della critica, severa ma non rassegnata verifica dello stato della disciplina.
Lavagetto è stato sommo lettore di quei «mille pezzi» in cui si frammenta la vita e che la letteratura registra: lapsus, errori, bugie, indizi, le ombre del testo che lui ha saputo portare alla luce e interrogare, in un costante e inquieto dialogo con i «suoi» Saba (a cominciare da La gallina di Saba, primo testo einaudiano del 1974), Svevo, Calvino, Montaigne, Balzac, Proust, Freud stesso (da Palinsesti freudiani alla rilettura dei «casi» come vere e proprie opere letterarie nella curatela dei Racconti analitici, 2011), e molti altri autori. Con la sua opera Lavagetto è riuscito, se non a ricomporre un’impossibile unità, a far brillare in quei frammenti l’umano e con essi, a sua volta, fare letteratura.
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Un'analisi complessiva del capolavoro in prosa del nostro Trecentopp. 272€ 28,00
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Quel Marcel!
Chi osservala vita quotidiana di Marcel Proust e riconosce in essa alcunidei germi che nella Recherche verranno metabolizzati e sottoposti aun radicale disorientamento, ha spesso l'impressione di assistere alformarsi progressivo, sui margini, di una glossa smisurata, antropofagae invasiva.pp. 396€ 25,00 -
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La macchina dell’errore
Il libro mette in scena una ricerca fittizia compiuta da un lettore fittizio su un testo - La Grande Breteche- che sembra sottrarsi, almeno in parte, ai dispositivi di controllo predisposti da Balzac e che, sulla superficie, mostra le tracce di esitazioni, incertezze e ripensamenti....pp. 185€ 12,39 -
La gallina di Saba
"Saba nasceva psicanalitico prima della psicanalisi, era un soggetto di critique psychanalitique allo stesso titolo che, in certe Réflexions di Thibaudet, Turgeniev è preso come soggetto necessario della critica psicologica bourgettiana". Queste parole, scritte da Gianfranco Contini, contenevano un invito molto esplicito; questo libro su...pp. VI - 257€ 18,00
In una mattina di dicembre il capitano del Chiwi, l’imponente yacht dell'imprenditore Ademaro Proietti, ha lanciato l'allarme: «Uomo in mare». È proprio il proprietario ad essere scomparso, non si è presentato a colazione, il letto della sua cabina è intatto. Quando il mare di Ostia restituisce il cadavere di Ademaro, la prima ipotesi è che l’uomo sia annegato in seguito a una disgrazia. Eppure c’è qualcosa che non torna, un piccolo indizio che potrebbe richiedere per l’episodio una spiegazione diversa.
Ad indagare viene mandato il magistrato melomane Manrico Spinori, primo personaggio seriale nato dalla penna di Giancarlo De Cataldo. Insieme a lui «riecco il team delle collaboratrici del pm, Deborah Cianchetti, Gavina Orru e Sandra Vitale. Per fortuna: era bastato un romanzo per farci venire voglia di ritrovarle» (Alberto Mattioli, «tuttolibri – La Stampa», link).
Sullo yacht, che tornava da Ponza, c'erano sette persone: il capitano, un marinaio, lo scomparso i suoi tre figli, il genero. Il corpo del palazzinaro non è ancora corroso dal mare né deturpato dai gabbiani. Ha però una sospetta lesione alla testa. Da qui parte un «giallo d'atmosfera, nella migliore tradizione del genere» che, secondo Maurizio Crosetti, si trasforma in un «giallo psicologico, dove il garbuglio di possibili moventi rivela tutta la sporcizia cacciata sotto il tappeto per decenni, comprese le turpi origini della fortuna del palazzinaro ucciso, il cui padre se la faceva con i nazisti» (Maurizio Crosetti, «la Repubblica»).
De Cataldo «non si limita a regalare al lettore un giallo impeccabile per meccanica, scrittura e descrizione d'ambienti, un mondo romano altoborghese ma sostanzialmente cafone. Sommessamente, com'è nello stile suo e del suo pm, lancia frecce sottili ma per questo ancora più acuminate contro l'horror che ci circonda, la violenza verbale e la miseria intellettuale dei social, il giustizialismo isterico, i processi celebrati dai media invece che nei tribunali, la volgarità di modi e mode. Rivendicare il valore e magari pure la bellezza delle infinite tonalità di grigio in un mondo che vede solo il bianco e il nero non è poco. L'understatement, l'ironia, la signorilità diventano allora una forma di resistenza al Grande Chiasso che ci assedia, un argine precario ma prezioso alle colate di guano che tracimano ovunque, un piccolo spazio personale di sopravvivenza nella gara a chi urla più forte, e generalmente delle sciocchezze. Come quando Spinori si chiude nel suo studio, indossa un vecchio kimono e si abbandona alla bellezza di un'opera lirica» (Alberto Mattioli, «tuttolibri – La Stampa»).
L’indagine deve essere condotta con prudenza. Ademaro era un potente imprenditore, incensurato e con amicizie politiche e anche l'avvocato di famiglia è una donna influente, presente nei media. Stavolta nemmeno l’opera lirica, che da sempre lo ispira nella soluzione dei casi, sembra venire in soccorso a Spinori: «Per lui la morte è sempre, soprattutto nel caso dei delitti, uno spreco ingiustificabile. Gli omicidi spesso sono commessi in modo stupido per delle ragioni trascurabili, anche se possono apparire profonde e urgenti a chi commette il delitto, ma costituiscono un'autentica offesa al creato" [...] Le sue qualità migliori sono la tenacia, la pazienza e l'ironia. Con l'esperienza s'è convinto che c'è più autenticità, sincerità e verità nelle passioni rappresentate sul palcoscenico che in quelle urlate nella vita reale, che nascondo solo la banalità del male» (Giancarlo de Cataldo, intervistato da Francesco Mannoni «Il Mattino»).
Con Un cuore sleale, già in via di traduzione in Francia per Métailié, De Cataldo ha creato una storia intensa e coinvolgente ambientata in una Roma fredda e umida in cui Spinori si ritrova solo: una condizione troppo malinconica anche per un appassionato del melodramma come lui. Ma ideale per concentrarsi su un mistero che pare un autentico «giallo della camera chiusa».
Nel nuovo romanzo di Nesbø protagonisti sono due fratelli, Roy e Carl. Roy vive da solo, da anni, in un paese della Norvegia, nella casa di famiglia; gestisce una stazione di servizio, è un uomo taciturno ma capace nel suo mestiere. Carl, il fratello adorato, sempre protetto, presente in tutti i suoi ricordi, se ne è andato quindici anni prima. Ora è inaspettatamente tornato con il grandioso progetto di costruire un hotel e trasformare il paese in una località turistica.
Il suo arrivo però risveglia ricordi, rancori, sospetti e invidia; riemerge un segreto di famiglia che giaceva nascosto nell'animo di entrambi. Roy si trova di nuovo a doverlo difendere dall’ostilità e dai sospetti degli altri, deciso a non far riaffiorare i fantasmi del passato.
Non c’è l’amato Harry Hole dunque, ma il maestro del crime scandinavo ha dato vita a un thriller sulle menzogne, i segreti, i tradimenti nascosti dietro la rassicurante facciata della vita familiare. Per Stephen King è animato da «una tensione fortissima ed è davvero originale. Un libro speciale da tutti i punti di vista».
In un’appassionata recensione su «Robinson – la Repubblica», Claudia Morgoglione descrive Il fratello come «una storia libera da tentazioni politiche e sociali, che per la sua potenza narrativa appassionerà sicuramente i nesbiani duri e puri […] Qui le cose sono diverse. Perfino nel dipanarsi della violenza: lenta, lentissima, in apparenza assente per lunghi tratti del racconto. Ed è per questo che II fratello conquisterà anche chi nesbiano non lo è mai stato: meno stilemi di genere, più viaggio al termine di una notte piena di incubi».
Come ha raccontato lo stesso Nesbø a «The Independent» (link) attraverso questo romanzo, l’autore ha fatto i conti col proprio passato, con la forza dei legami tra fratelli, con l’insidia dei segreti trasmessi da una generazione all’altra. Scrivere storie è il suo modo per affrontare dubbi e fantasmi, trasformando il passato in qualcosa di nuovo.
«Non è stato facile ricominciare dopo L'Arminuta. Non ritrovavo il silenzio dentro di me, non il vuoto doloroso da cui nasce la scrittura. A ogni tentativo mi ritiravo frustrata, insoddisfatta. Poi la mia tiroide si è ammalata di un piccolo tumore e l'ho dovuta togliere». Con queste parole Donatella Di Pietrantonio apre la sua toccante presentazione di Borgo Sud a «tuttolibri – La Stampa». Ma nel momento più difficile, nella sua stanza dell’ospedale, «Adriana ha invaso la scena con la sua energia […] Illuminava di nuovo le pagine, le attraversava come un vento. Mi portava nel suo matrimonio, e in quello della sorella».
Adriana irrompe sempre nella vita di sua sorella con la forza di una rivelazione. Sono state bambine riottose e complici, figlie di nessuna madre. Ora sono donne cariche di slanci e di sbagli, di delusioni e possibilità, con un'eredità di parole non dette e attenzioni intermittenti.
Donatella Di Pietrantonio ci regala un romanzo teso e intimo, intenso a ogni pagina, capace di tenere insieme emozione e profondità di sguardo. Nato dalle «voci delle due sorelle che non si erano mai spente dentro di me, nei lunghi mesi di tentativi ed errori. All'improvviso avevo convocato accanto a loro un personaggio maschile inaspettato. Non potevo prevedere in quel momento quanto mi sarebbe diventato caro, Piero. Sono rimasta in ascolto. Mi sentivo come Geppetto davanti al suo Pinocchio sgrossato dal legno. Era quell’attimo benedetto in cui il personaggio è appena venuto al mondo e non sa quale strada prendere».
Di seguito alcuni estratti dell’eccezionale rassegna stampa di Borgo Sud:
«Chi ha già letto L'Arminuta, di Donatella Di Pietrantonio, sarà felice di ritrovare "sòreta", Adriana, la sorella minore, "come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia": la resistenza al dolore, la salvezza della complicità. Chi invece inizia il viaggio da questo nuovo e totalmente autonomo romanzo, resterà avvinghiato a due donne piene di altre delusioni e altre speranze, che portano addosso il peso, l'odio e l'amore per il borgo d'Abruzzo che le ha cresciute disadorne e le ha spinte ad andarsene. Una per studiare, per guadagnarsi un'altra possibilità, l'altra per andare, per sentire la vita, per scappare, per amare […] Adriana viene maledetta dalla madre, una vera maledizione arcaica, con il seno avvizzito tirato fuori dall'abito e puntato contro, una maledizione che la madre dirà poi di non saper levare, alzando le spalle come per sminuire la violenza totale e primitiva di quel gesto. "Se sòreta non cambia coccia fa una brutta fine". Una madre incapace di curare i vivi e due sorelle incapaci di perdonarla, ma anche di fare a meno di lei che ripulisce i peperoni dalla pelle e dai semi, e che guarda arrivare le sue figlie con il coltello a mezz'aria e non dice nulla. In questa triade femminile potentissima entra la scrittura intima e rude di Donatella Di Pietrantonio, capace di scavare fino a dove è più difficile giungere senza ferirsi».
Annalena Benini, «Il Foglio»
«… Ma la professoressa si trattiene e sceglie il silenzio. S'infila la sua giacca mentre resta colpita dalla tenerezza della giovinezza che non merita di essere esposta a quella verità crudele. E se la sorte invece risparmiasse i loro sogni? Il carattere limpidamente tragico della scrittura e della struttura narrativa di Donatella Di Pietrantonio trova in questa scena la sua cifra più propria: sapere che la vita porta con sé una atrocità irredimibile non significa cedere a questa atrocità. È la lezione della più grande letteratura italiana del Novecento: da Elsa Morante a Primo Levi. Borgo Sud riflette questa temporalità pienamente tragica».
Massimo Recalcati, «la Repubblica»
«Uno stile asciutto, che ben scava nelle anime […] Una sorellanza e un'orfananza capaci di superare le contrarietà. Perché, confessa l'Arminuta, "da lei ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate". Una salvezza faticata, in questa intensa "storia di disgrazie e miracoli, morti e sopravvivenze: la storia disadorna della nostra famiglia", attorno alla quale si muovono però anche altri personaggi che l'autrice tratteggia con tenerezza e finezza: da Piero a Isolina, mamma di Rafael; all'amico Vittorio; ai pescatori di Borgo Sud. E a quel paesaggio a sua volta personaggio».
Ermanno Paccagnini, «la Lettura – Corriere della Sera»
«Raccontato in prima persona da una donna timida, austera ma ostinata che ha il suo doppio nella sorella, Adriana, esuberante e sfrenata, Borgo Sud è un piccolo Vangelo. Nel quale tutti i personaggi sono insieme antichi e giovani, creature di terra affacciate sul mare arduo dei pescatori, artigliati da famiglie in cui non ci si riesce ad amare in modo semplice. Di Pietrantonio, nata nella provincia di Teramo, è una delle più importanti romanziere italiane di questi anni, che ha costruito la sua strada di scrittore con tenacia e senza errori. Dall'orrore del terremoto fino a qui, dove tutto, continuamente, si spezza. La sua scrittura rocciosa, che si avvita con perfezione alle storie, implacabili, non può che rimandare al suo conterraneo, Ignazio Silone».
Elena Stancanelli, «D – la Repubblica»
«Ritroviamo molte cose simili anche in Borgo Sud, il nuovo romanzo pubblicato in questi giorni da Einaudi con cui la Di Pietrantonio torna nelle librerie riportandoci anni dopo in quei posti, anche se diversi, e la cosa bella tra le tante in cui vi imbatterete in questo autentico gioiello di scrittura, è che questo libro può essere letto indipendentemente dall’altro, come un libro a sé. Al panorama verdeggiante di colline e montagne si aggiunge il mare, che però qui, rispetto al primo libro, “è solo una sfumatura del nero che bagna la sabbia e si ritrae”. Non importa vederlo sempre o descriverlo meglio perché – come dice la protagonista – si sa da sempre “che sta lì”».
Giuseppe Fantasia, «Huffington Post», link
«Avevo voglia da tanto tempo di raccontare la schola come divertimento perché in effetti nasce così: in greco scholè significa avere tempo libero, divertirsi, avere piacere di quello che fai». Così Roberto Vecchioni, intervistato da Luca Valtorta, presenta il suo nuovo libro a «Robinson – La Repubblica».
Lezioni di volo e di atterraggio è un viaggio fra i miti classici, che contengono già la verità del mondo, fra le parole del sacro e del profano, della poesia e della filosofia; il cantautore aiuta ad aprire altre porte senza fermarsi alla prima, a «non ripetere il risaputo», a sondare il possibile, a lanciarsi con l'immaginazione.
Le sue parole, sempre poetiche e pregnanti, ci spingono in alto, sopra il quotidiano, senza paura di perderci. «Un libro dal quale devi farti proprio portare. Un libro il cui piano di volo si lascia a sua volta assorbire da risucchi memoriali, salvo riprendere il filo rosso strutturale costituito da quelle specie di lezioni all'aria aperta, quasi a poter meglio respirare il senso della libertà di pensiero, nella volontà di stravolgere le idee preconfezionate, scomporre le apparenze, sondare le possibilità parallele e "guardar fuori, oltre, immaginando dove ha casa la speranza"» (Ermanno Paccagnini, «la Lettura – Corriere della Sera»).
La scuola di Vecchioni prima di tutto è un luogo in cui s’insegna senza impartire lezioni. I ragazzi hanno coraggio, desideri, paure, e una sete dentro che non si spegne mai. Sono irrequieti, protervi, insicuri: in una parola veri. C’è il momento del volo e quello dell’atterraggio, ma «non è proprio una divisione: è un andare con la fantasia più avanti che si può, perché è bello partire e cercare soluzioni diverse di tutti i tipi nel passato e nel presente. Posso inventare che Socrate non è morto in mezzo agli amici ma da solo, però poi devo dirlo ai ragazzi: la verità è questa. La parte "dell'atterraggio" è la parte più umana, più debole, nostra: quella di un quotidiano monotono. Nel "volo" tutti i giorni sono bellissimi e sublimi» (Roberto Vecchioni intervistato da Francesco Mannoni, «Il Mattino»).
Ecco allora Socrate, Platone, Prometeo, De Andrè, Alda Merini… tutte voci che il professore offre attraverso un dialogo incessante con i suoi alunni, portandoci a osservare con la coda dell’occhio un’altra, potentissima, forma di verità.
Sei anni dopo La ferocia, vincitore del Premio Strega e del Premio Mondello, torna Nicola Lagioia con La città dei vivi. Il libro è una profonda ricostruzione dell’omicidio di Luca Varani, avvenuto a marzo 2016, da parte di Manuel Foffo e Marco Prato, due ragazzi di buona famiglia. Un gesto inspiegabile, inimmaginabile anche per loro pochi giorni prima. La notizia calamita immediatamente l’attenzione, sconvolgendo nel profondo l’opinione pubblica.
Le parole dell’autore ci portano dentro uno dei casi più efferati degli ultimi anni. Un viaggio per le strade buie della città eterna, un'indagine sulla natura umana, sulla responsabilità e la colpa, sull'istinto di sopraffazione e il libero arbitrio. Su chi siamo, o chi potevamo diventare.
Il lavoro di Lagioia è stato subito accolto calorosamente dalla critica e dal mondo letterario. Di seguito alcuni estratti dell’eccezionale rassegna stampa de La città dei vivi:
«La città dei vivi insomma è finzione al suo meglio, un particolare tipo di finzione che soffia vita nei documenti del reale, portandoci sempre più angosciosamente vicini a Foffo e a Prato mentre si avviano a passare il limite tra ciò che potrebbe accadere e ciò che a un certo punto davvero accade, tra ciò che pare loro di essere, che tra alti e bassi potrebbero seguitare a essere, e l'altro, il tremendo altro, che di colpo diventano scempiando Luca Varani. Lo fa come sa farlo la letteratura, mostrandoci che il limite lungo cui camminano Foffo e Prato, immersi nella grande miseria e nel sempre più fioco splendore di Roma, cioè del mondo, è anche quello lungo il quale camminiamo ogni giorno noi».
Domenico Starnone, «la Lettura – Corriere della Sera»
«Il barese Nicola Lagioia ci regala un magnifico paesaggio di Roma in nero e marciume nel romanzo ispirato alla terribile vicenda (2016) di Manuel Foffo e Marco Prato, che dopo due giorni di cocaina e fantasie convocarono a casa, torturarono e uccisero il giovane Luca Varani […] La letteratura, a differenza del cattivo giornalismo, non conosce mostri; il "mostro" è consolatorio, significa che noi umani non saremo mai così, e invece qui tutto è umano – questo mondo in cui i genitori non conoscono i figli, in cui un fresco amore romantico (quello tra Varani e la fidanzata) può basarsi sulla menzogna, in cui le ossessioni torbide funzionano con esatta geometria, questo mondo è il nostro mondo».
Walter Siti, «Domani»
«Ci sono libri che, come le vicende di cui danno conto, si rivelano un'esperienza di lettura estrema. E La città dei vivi di Nicola Lagioia è uno di questi. Un viaggio in quell'indicibile che fu l'omicidio di Luca Varani è […] Cui fa da quinta una città in disfacimento, Roma, «città morta, abitata da vivi», da cui Lagioia si scopre in fuga (psichica, emotiva, prima ancora che materiale) e di cui quell'omicidio sembra essere una perfetta sineddoche. Non è né un esercizio calligrafico, né un tributo alla morbosità, né un diario dell'incontro sconvolgente con il Male. È un conto che Lagioia decide di saldare innanzitutto con se stesso, con "il segreto" che si porta dietro e che affonda nei suoi ormai lontani vent'anni in quel di Bari, dove è nato e cresciuto, e che quell'omicidio rianima sì come un demone, imponendogli una confessione (che non sveliamo) al lettore. Che trasforma quell'omicidio in una dolorosa seduta analitica non solo per lui, ma per ciascuno di noi. Padre, fratello o figlio che sia».
Carlo Bonini, «la Repubblica»
«Prima di iniziare a leggere, mi sono chiesta come avrebbe fatto Lagioia a raccontare una storia così atroce, ambigua, contorta senza soccombere sotto il peso della responsabilità. C'è un ragazzo, Luca, a cui è stata inferta una dose di sofferenza impossibile anche solo da immaginare. Come riuscire a non scrivere una lunghissima accusa? Era difficilissimo. E lui ci è riuscito. A raccontare la realtà più nera, a trovare le parole precise per raccontarla, a farci entrare anche nella testa degli assassini. Non per perdonarli. Questo non spetta a noi. Ma per riuscire finalmente a vederli».
Antonella Lattanzi, «tuttolibri – La Stampa»
«L'uccisione di Luca Varani fu un caso mediatico e Nicola Lagioia (Bari, 1973) ne ha fatto un libro, muovendosi sul confine labile fra reportage e romanzo, strizzando l'occhio a Truman Capote, cercando e trovando una prosa ipnotica. Il risultato è un libro ambizioso e finalmente mainstream grazie ad una prosa che parla al lettore, senza giochi di prestigio ma con capacità narrativa, rovistando nell'anima nera dei protagonisti. Così, anziché separare i buoni dai cattivi con la spada, Lagioia racconta le pulsioni autodistruttive che covano nel nostro animo, pronte a fagocitare tutto. Sì, l'autore scansa la pericolosa tentazione di salire sul pulpito; viceversa, nel suo modo di raccontare Roma città eterna e moribonda, ferita a morte ma invincibile, cerca i segni tangibili di un degrado morale che investe e corrode tutto».
Francesco Musolino, «Il Messaggero»
«Il quadro che si delinea sullo sfondo di una Roma che Lagioia fa pulsare – e che è magnifica e ipnotica, malinconica e struggente, tanto da creare una specie di dipendenza, ma pure spietata e respingente, zozza e cafona, caotica e immorale – terrorizza perché rende pensabile l'impensabile, ci dice quanto il male possa essere mobile, multiforme e contagioso e ci sbatte in faccia una dolorosa verità: ogni cosa è corruttibile, anche quella che non vorremmo né immagineremmo mai».
Carlotta Vissani, «il Fatto Quotidiano»
Laura Imai Messina vive a Tokyo da quindici anni. Sono stati i segni della lingua giapponese, una lingua complessa che richiede amore e dedizione, a far nascere in lei la curiosità e l'interesse verso questa città, prima desiderata da lontano, poi raggiunta dopo la laurea in Lettere.
Si innamora subito di Tokyo, gira con l'entusiasmo incerto del neofita i quartieri, le stazioni, i musei… ma è dopo l'incontro con Ryōsuke, con cui ha poi formato una famiglia, che scopre aspetti inediti della città. La osserva con calma, ne assapora la bellezza e conosce la durezza di certe convenzioni. La ama senza abiurare l'Italia, perché amarle entrambe la fa sentire più ricca.
Il libro è accompagnato dalle illustrazioni di Igort - «ricordo esattamente in quale punto della nostra casa ero quando mi hanno detto al telefono che avrei lavorato con Igort, ero così emozionata» (Laura Imai Messina intervistata da Alba Solaro, «il venerdì – la Repubblica») - e ci porta dentro una megalopoli dove «tutto è mescolanza», nulla è definitivo, e la metamorfosi è ininterrotta e intrecciata al persistere delle tradizioni. «Le pagine che Laura Imai Messina ci regala nel suo bellissimo Tokyo tutto l’anno sono la mirabile chiave di accesso a questo luna park di città, sono il vocabolario emozionale per interpretare una capitale che è alto e basso, specchi e ombre, altissima e pop, modernità e tradizione» (Maria Luisa Colledani, «Il Sole 24 Ore», link).
Il libro, arricchito dalle preziose illustrazioni di Igort, è un atto d’amore, una Lonely Planet sentimentale, che stupisce riga dopo riga. Maria Luisa Colledani, «Il Sole 24 Ore»
Tokyo è un caleidoscopio di colori, suoni e sapori proposti al lettore attraverso un viaggio sentimentale scandito in dodici capitoli: «La scrittrice ci accompagna nei diversi quartieri della città in un percorso culturale scandito dal trascorrere dei mesi dell'anno, e nel descrivere luoghi e architetture ce ne racconta la storia, nel ricordare tradizioni, feste e usanze, ce ne spiega la nascita e il significato» (Antonietta Pastore, «tuttolibri – La Stampa»).
«Di molto altro ancora scrive Laura Imai Messina — dei nomi e della loro etimologia, della relazione tra luoghi, personaggi storici, mitologia e credenze popolari... è straordinaria la quantità di informazioni che ci fornisce su Tokyo. Alcune, molto specialistiche, faranno la gioia degli studiosi del Giappone, altre divertiranno il lettore un po' meno erudito in materia. In questo vero e proprio vademecum culturale, ad accompagnare la scrittrice nella sua esplorazione della metropoli sono i suoi figli, che osservano ogni cosa con lo sguardo nuovo, privo di preconcetti, dei bambini» (Antonietta Pastore, «tuttolibri – La Stampa»).
L'8 ottobre Louise Glück, poetessa e saggista americana, ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura 2020 per «la sua inconfondibile voce poetica, che con austera bellezza rende l'esistenza individuale esperienza universale».
Nell'antologia Nuovi poeti americani sono presenti alcune sue opere, commentate così dalla curatrice Elisa Biagini:
«Possiamo vedere la poesia della Glück come il prodotto diretto dell’incontro tra la lirica di Emily Dickinson e quella di Walt Whitman il tutto pervaso da un silenzio quasi metafisico. È un continuo interrogarsi sulla propria esistenza, sulla natura del mondo e del sé nel mondo il tutto usando un linguaggio rigoroso e diretto. La poetessa esplora ancora ed ancora la propria vicenda umana per cogliervi gli elementi universali, una comunione nella sofferenza e nella difficoltà del vivere».