Giulio Einaudi editore

Premio Strega, 2021, Di Pietrantonio

Fra i dodici libri candidati alla LXXV edizione del Premio Strega c’è Borgo Sud di Donatella Di Pietrantonio, uscito a novembre del 2020 nei Supercoralli.

Il Comitato direttivo del Premio – composto da Pietro Abate, Valeria Della Valle, Giuseppe D’Avino, Ernesto Ferrero, Alberto Foschini, Paolo Giordano, Helena Janeczek, Melania G. Mazzucco, Gabriele Pedullà, Stefano Petrocchi, Marino Sinibaldi e Giovanni Solimine – ha scelto tra i sessantadue titoli di narrativa proposti quest’anno dagli Amici della domenica.

La cinquina finalista verrà annunciata giovedì 10 giugno, mentre l’elezione del vincitore si svolgerà giovedì 8 luglio.

Premio Strega, 2021, Di Pietrantonio

Qui alcuni estratti dell’eccezionale rassegna stampa di Borgo Sud.

Michela Murgia

Se si è donna, in Italia si muore anche di linguaggio. È una morte civile, ma non per questo fa meno male. Stai zitta di Michela Murgia, autrice da sempre attenta al tema della donna, è uno strumento che evidenzia il legame mortificante che esiste tra le ingiustizie che viviamo e le parole che sentiamo. Un libro militante, «il disvelamento feroce del sessismo nel nostro linguaggio in 112 pagine dense, ironiche, implacabili e attraverso dieci espressioni che raccontano, anzi denudano i meccanismi di potere (maschile) che in quelle parole si manifestano» (Maria Novella De Luca, «la Repubblica»).

Anche Michela Murgia si è sentita gridare «stai zitta» da un noto psichiatra contraddetto in radio durante un’intervista, eppure, per stessa ammissione dell’autrice, «ho perso il conto delle volte in cui qualcuno mi ha detto che le battaglie sul linguaggio sono marginali e che, con tutto quello per cui occorre ancora lottare, è fuorviante e persino dannoso andare a fare pignolerie proprio sulle parole. Il sottinteso è che le parole non contino niente e forse è per questo che in troppi le usano senza prendersene mai la responsabilità. Sottovalutare i nomi delle cose è l'errore peggiore di questo nostro tempo, che vive molte tragedie, ma soprattutto quella semantica, che è una tragedia etica» (Michela Murgia, «Vanity Fair»).

Per ogni diretto negato alle donne a causa del maschilismo esiste un impianto verbale che lo sostiene e lo giustifica. «Celebre scrittrice, e tra le figure intellettuali di riferimento nel mondo della cultura italiana, Michela Murgia affronta con eleganza, brio e intelligenza quel legame sottile e mortificante che da sempre esiste, per le donne, tra le ingiustizie che vivono e le parole che le descrivono o con le quali ci si rivolge loro. In un universo in cui sono quasi sempre i maschi che hanno la possibilità di esprimersi in televisione, alla radio o sui giornali – come se solo i filosofi, gli scrittori, i giornalisti e i politici fossero in grado di avere risposte di fronte alle complessità del mondo – le filosofe, le scrittrici, le giornaliste e le politiche che si azzardano a prendere la parola vengono sistematicamente trattate come saccenti, maestrine, isteriche, talvolta persino galline. E se c'è chi, forse più educato di altri, riesce a trattenersi, è raro, anzi rarissimo, che una professoressa ordinaria non sia definita "dottoressa" o che un'avvocata non sia ridotta a "signorina" o "signora"» (Michela Marzano, «La Stampa»).

Murgia, Che tempo che fa

Michela Murgia ospite a «Che tempo che fa»

«Silenzio, Stai zitta! Lo sentiamo fin da bambine. Perché ancora oggi, nella nostra società maschilista, la cosa più intollerabile è che le donne prendano parola per affermare le proprie idee. Lo spiega bene Michela Murgia nel suo ultimo libro. Non facciamoci mai zittire!» (Laura Boldrini, link)

Francesca Mannocchi

Francesca Mannocchi, giornalista abituata a essere nei luoghi di guerra, deve all'improvviso affrontare il tradimento del suo corpo: una mattina, svegliandosi a Palermo dove si era recata per un'inchiesta, si accorge che non reagisce più agli stimoli. È il primo segnale della sclerosi multipla, una malattia definita disabilitante, recidiva e remittente. Non si sa quando arriveranno le ricadute e quanto dureranno le tregue. Tutto è potenziale.

«È in un certo senso un reportage di guerra, di una guerra che ha per territorio il corpo e la storia dell'autrice, messi in discussione, auscultati, riletti. Due sono i principali movimenti narrativi che ne conseguono: da un lato il percorso riluttante, ma necessario, per addomesticare l'universo della medicalizzazione, a partire dal linguaggio stesso con cui si esprime, mai fedele al sentire di chi è ammalato; dall'altro la ricerca del senso che sottopone a uno scandaglio spietato il passato e il presente dell'autrice» (Alessandra Sarchi, «la Lettura – Corriere della Sera»).

In questo libro l’autrice racconta se stessa ma anche la fragilità dell'essere umano abbandonato dal suo corpo, dalle sue abitudini, dalle sue certezze. Descrive come è il suo essere madre, figlia, compagna attraverso lo schermo della malattia senza perdere il suo amore verso la vita: «È un libro che resta e batte nella testa, questo, come un tamburo. […] Scansare l'ipocrisia. Scegliere le parole acuminate, non avere paura di dire cosa sia la paura — di essere madre, di essere figlia, di non essere amata, di morire. Di non essere vista nel tempo che è dato senza mai perdere, però, l'amore e il rispetto per la bellezza. Per la poesia, per il mare, per un bambino che ti guarda anche quando non vuoi. Per un mazzo di tulipani bianchi quando è perfetto, sul punto di sfiorire» (Concita De Gregorio, «la Repubblica»).

Libro bellissimo, potente, in cui la scoperta della fragilità è un viaggio verso la vera forza. Jovanotti

Bianco è il colore del danno è nato da un articolo che Mannocchi scrisse per L'Espresso; per la prima volta parlò pubblicamente del suo male, pensando che riflettere in prima persona sul valore dell'accesso alla cura, i costi, gli ospedali potesse magari essere utile a chi viveva la stessa situazione: «Tutte cose con cui anche io all'improvviso mi sono trovata a fare i conti. E non sei mai preparato. Ma poi i pensieri si sono moltiplicati, ho capito che questa malattia aveva completamente scomposto la mia vita per come me la ricordavo. Cambiava tutto. Sia nella percezione che hai del tempo, che non ti appartiene più, non è più una cosa su cui puoi contare. Sia nel modo in cui tu ti pensi nel mondo e in cui ti relazioni con gli altri. La cosa più difficile da accettare – riflette – è che si tratta di una patologia imprevedibile: mi sono trovata di fronte a nuovi sentimenti, come la paura di non poter correre mai più con mio figlio di quattro anni, di non sapere cosa ne sarà del mio corpo tra una settimana, di non poter fare più il lavoro che amo» (Francesca Mannocchi intervistata da Emanuela Griglié, «La Stampa»).

Mannocchi guarda il mondo attraverso la lente della malattia per rivelare, con una voce letteraria nuda, luminosa, incandescente, tutto ciò che è inconfessabile. E lo fa senza cadere «mai nella retorica trionfale del combattimento, anzi restituisce la storia complessa di una fragilità in trasformazione, presa per mano riesce addirittura a curvare lo sguardo deformante, a scostare l'angoscia di proiettarsi impossibilitata all'improvviso ad assistere alla crescita del proprio bambino, con il terrore di non poter più leggere, vedere, fare l'amore, parlare, camminare, nuotare.» (Alessandra Pigliaru, «il manifesto»).

Don DeLillo

Manhattan, 2022. All’improvviso, non annunciato, misterioso: il silenzio. Tutta la tecnologia digitale ammutolisce. Internet tace. I tweet, i post, i bot spariscono. Gli schermi, tutti gli schermi, che come fantasmi ci circondano ogni momento della nostra esistenza, diventano neri. Le luci si spengono, un black-out avvolge nelle tenebre la città (o il mondo intero? Del resto come fare a saperlo?)

Cosa sta succedendo? È l’inizio di una guerra, o la prima ondata di un attacco terroristico? Un incidente?… Di certo c’è questo: era dai tempi di Rumore bianco che Don DeLillo non ci ricordava con tanta accecante precisione che viviamo, disperati e felici, in un mondo delilliano.

Come tutti i lavori dello scrittore americano anche Il silenzio ha suscitato un forte dibattito. Di seguito vi proponiamo alcuni estratti della calorosa accoglienza da parte della stampa italiana:

«"La vita può essere così interessante che dimentichiamo di aver paura”, scrive DeLillo, ed è da questo concetto che si sviluppano i temi del libro, raccontati ancora una volta magistralmente attraverso personaggi vulnerabili e spaesati, due dei quali reduci da un disastro aereo. Giunto ad ottantaquattro anni, DeLillo ribadisce la sua ammirevole e assoluta originalità di sguardo, e alterna la riflessione sui temi contemporanei a quelli eterni: la geopolitica, la tecnologia digitale, la grafologia e soprattutto il senso della fine».
Antonio Monda, «la Repubblica»

«[…] È un luogo angoscioso e cupo, ma al momento è l'unico che abbiamo, e ci dobbiamo stare. E continuo a pensare che Don DeLillo, l'ultimo americano, fosse l'unico scrittore al mondo che avesse la potenza, l'onestà, e il coraggio di darsi in sacrificio per dircelo. In Cosmopolis sta scritto: “Sarebbe morto ma non sarebbe finito. Il mondo sarebbe finito”. Ne Il silenzio non siamo morti, e non siamo finiti, ma il mondo sì: la quarta guerra sarà una genesi, e si combatterà con le parole».
Claudia Durastanti, «tuttolibri – La Stampa»

«DeLillo non chiarisce le ragioni del blackout. Ci coglie di sorpresa quando la tv si spegne a inizio partita, alle 18.30. Non ha consolazioni da offrirci. La realtà è quello che è, dobbiamo farcene una ragione. Come nel capolavoro Underworld (1997), tutto parte da un evento sportivo (in quel caso l'incontro di baseball tra i New York Giants e i Brooklyn Dodgers del 1951). In uno dei momenti più surreali della storia, Max fa la telecronaca della partita davanti allo schermo nero. Deve restare aggrappato ai ricordi. Prima di uscire di scena, il fan di Einstein Martin Dekker si congeda così: "Il mondo è tutto, l'individuo niente. Lo vogliamo capire?"».
Marco Bruna, «la Lettura – Corriere della Sera»

«Americana, suo debutto del 1971, e Il silenzio sono gli estremi di un affresco sulla storia contemporanea –che si estende per migliaia di pagine distribuite in una ventina di volumi– sempre impietoso e coerente. […] DeLillo batte i suoi romanzi su una vecchia macchina per scrivere, e non possiede nemmeno uno smartphone. Eppure nessuno meglio di lui sa, prima ancora che raccontare, percepire le crepe del nostro tempo. A 84 anni, con il Novecento sulle spalle, ha la vista più lunga di tutti verso il domani che si profila all'orizzonte».
Crocifisso Dentello, «il Fatto Quotidiano»

«L'oscurità che caratterizza Il silenzio si inserisce come una tessera riconoscibile nel mosaico di DeLillo. Il lettore potrà intravedere l'esito di Underworld nel passaggio dall'età industriale a quella digitale con l'implosione della realtà gonfiata da desideri superflui. Ci sono la dimensione dell'apocalisse, della tossicità dell'iperconsumismo e del progresso tecnologico che incombono in Rumore bianco, con cui DeLillo ha vinto nel 1985 il National Book Award».
Grabriele Santoro, «Il Messaggero»

«E per una volta anche il recensore vorrebbe imitare lo scrittore: leggete Il silenzio, mettete insieme le schegge che lo compongono, trovatene il senso, non trovatelo, trovate una via di mezzo o chissà cos'altro. Ecco il romanzo: andare soli in una foresta per trovarsi smarrendosi, eccitati e delusi, colpiti e annoiati, incerti e risvegliati. E qualcuno dirà: ma non è mica questo, che accade oggi nella stragrande maggioranza dei "romanzi"! Be', allora quella stragrande maggioranza di cose scritte non sono romanzi, e che tocchi a un ottantaquattrenne ricordarcelo: ah, questo è deliziosamente ironico…»
Giuseppe Montesano, «Il Mattino»

«I cinque protagonisti hanno già sperimentato il lockdown e capiscono subito che in confronto era stata una passeggiata. La percezione di quel che accade altrove, oltre la finestra, è sempre più vaga. Il tutto descritto nella solita vertigine che solo DeLillo sa creare frullando lo scibile intero: l'arte digitale, la comunicazione, l'economia, la medicina, la filosofia, il football americano. Un "vuoto barcollante" raccontato con la consueta poesia, tra schermi neri e luci di candela».
Mario Salvini, «La Gazzetta dello Sport»

Davide Longo

Il 2 febbraio è uscito per Einaudi Stile Libero il nuovo caso di Vincenzo Arcadipane e Corso Bramard, Una rabbia semplice. Contestualmente la collana ha ripubblicato anche i due precedenti romanzi della serie, Il caso Bramard e Le bestie giovani.

L’arrivo nelle librerie di questi tre romanzi è stato accompagnato dalle calorose parole di Alessandro Baricco: «Chiedo, e trovo gente che non ha mai letto la saga di Bramard e Arcadipane. Oh, ma vogliamo scherzare? Quei due sono la risposta del Nord al commissario Montalbano! Sono l’invenzione del poliziesco piemontardo! Fango e pioggia, schiene diritte, tristezza, amori disperati, humor impassibile, violenza sepolta, sogni poetici, anarchia. E i corpi? Altro che la siciliana fisicità splendente. Qui i corpi sono una debolezza, un incidente, uno scandalo, una scusa. Scritture di cui si è persa la chiave. Solo nelle nebbie del Nord, dove “il sole è un lampo giallo al parabrise”, c’è gente del genere, e Longo la racconta da dio, con quel suo scrivere che ho studiato a lungo, come potrei studiare un cocktail, e adesso credo di aver capito: due parti di Fenoglio, due di Simenon, una di Paolo Conte e cinque di Davide Longo. Aggiungere una spezia che non so (qualcosa come una goccia di disperazione, direi, ma non so) e servire. Ne butti giú uno e poi non smetti piú. Giuro».

Il caso Longo: parla Alessandro Baricco

È una primavera malinconica per il commissario Arcadipane. Ha cinquantacinque anni, un matrimonio fallito alle spalle e un futuro che non promette granché. Due anni di solitudine senza la moglie e con i figli che ormai hanno la loro vita.

Un caso, però, risveglia la sua attenzione e l'istinto che credeva aver perduto: una donna colombiana, Dolores Mendes, viene aggredita fuori da una stazione della metropolitana di Torino. Sembra un caso facile, il colpevole viene subito rintracciato dalle telecamere della stazione, vestito con un kimono, i bermuda a fiori e una maschera. È un ragazzo di periferia con capelli rasati ai lati che spaccia vicino al suo vecchio istituto, spesso coinvolto in risse. La soluzione sembra a portata di mano ma il commissario non è soddisfatto e vuole indagare più a fondo con l'aiuto del suo vecchio capo, Corso Bramard, in lotta contro un male oscuro, e dell'agente Isa Martini.

Una rabbia semplice ha ricevuto subito un’ottima accoglienza da parte della critica. Ecco alcuni estratti:

«Davide Longo è un appartato, una bestia rara. Scrive noir, o forse no. Scrive mondi. Ha inventato un commissario in congedo che si chiama Corso Bramard ed è un uomo verticale, algido, una scultura di Giacometti col passo anche interiore di un Clint Eastwood, insieme a un altro commissario che è il suo allievo anche se ha già 55 anni e di nome fa Vincenzo Arcadipane, un trattore, una macchina basculante costruita per funzionare. Quanto è mentale Bramard, tanto è corporeo Arcadipane che in saccoccia tiene un mucchio di sucai da estrarre compulsivamente e ingoiare insieme ai pelucchi che stanno sul fondo delle tasche. Due così non li dimentichi».
Maurizio Crosetti, «la Repubblica»

«Perché parte tutto da quello che sembra un brutto ma semplice fattaccio di cronaca, con una donna in coma per essere stata presa a calci in metropolitana, e poi si allarga a qualcosa che diventa più grande, e per quanto sembri una follia posso assicurarvi che accade davvero, e proprio per questo deve farci paura […] L'avevo perso, l'ho ritrovato e non lo mollo più. Davide Longo è uno dei grandi».
Carlo Lucarelli, «Corriere della Sera»

«Simbolica via di mezzo tra "una nuvola d'ira" e "una questione privata", comunque distante dalla lugubre ferocia dell'ennesimo massacratore seriale preda delle sue deliranti fobie. Una rabbia quasi immobile, quella dipinta con profonda partecipazione emotiva da Davide Longo, che torna a muovere le fila dei suoi recenti protagonisti con la rustica volontà di scavare nell'anima più che nel sangue […] Non sappiamo se siamo stati più coinvolti dalla trama umanamente in crescendo o dai personaggi che vivono le loro faticose storie sbattendosi per portare a casa un stella al merito per sopravvivere».
Sergio Pent, «tuttolibri – La Stampa»

Paolo Milone

Quante volte parliamo dei medici come di eroi, martiri, vittime… In verità, fuor di retorica, uomini e donne esposti al male. Appassionati e fragili, fallibili, mortali. Paolo Milone ha lavorato per quarant’anni in Psichiatria d’urgenza, e ci racconta esattamente questo. Nudo e pungente, senza farsi sconti. Con una musica tutta sua ci catapulta dentro il Reparto 77, dove il mistero della malattia mentale convive con la quotidianità umanissima di chi, a fine turno, deve togliersi il camice e ricordarsi di comprare il latte.

Quello di Milone è un esordio straordinario, come è straordinaria l’accoglienza che sta ricevendo da parte della critica e del mondo letterario. Di seguito alcuni estratti:

«L’arte di legare le persone di Paolo Milone mi ha stecchito. Che accidenti di libro. Ti porta dentro un mondo, quello della malattia psichica, del dolore insensato, che sembra opaco e impermeabile: invece Milone te lo spiega con pagine che sembrano canzoni belle, racconti di Carver, poesia. È un libro che fa venir voglia di mollare tutto, cambiare vita, fare qualcosa di utile per gli altri. Se lo avessi letto a diciotto anni, invece di leggere e rileggere Nietzsche, forse avrei fatto la psichiatra.
Dicono che gli psichiatri siano tutti matti. Non so se Paolo Milone sia matto ma sicuramente è uno scrittore molto bravo. L’arte di legare le persone racconta cosa vuol dire sentire il dolore degli altri e cercare di farci qualcosa. Spiega che anche quando non puoi farci niente devi esserci. Che le parole servono poco, i fatti molto. È un grandissimo libro. Complimenti gente di Einaudi».
Daria Bignardi, link

«In questo libro che sembra un diario, con una forma libera e poetica che a volte sembra una preghiera umanissima all’amore verso di sé, a volte il ricordo di una notte passata a impedire a una ragazza di buttarsi dalla finestra, Paolo Milone muove tutta l’umanità e l’intimità di un medico che vive tenendo tra le mani il dolore degli altri…»
Annalena Benini, «Il Foglio»

«L'arte di legare le persone è un’opera letteraria sulla malattia mentale tra le più belle, inusuali e poetiche degli ultimi anni. Pura emozione, intuizioni non banali, qualche provocazione, non ci si annoia mai. Un libro unico nel panorama italiano. Per forma, oggetto di scavo, capacità di indagine, arte del paradosso. Se ho citato Spoon River l'ho anche fatto con spirito provocatorio poiché, in questa ballata del mare salato, da quale regno escano i vivi e da quale i morti non è mai del tutto chiaro».
Nicola Lagioia, «Robinson – la Repubblica»

«Non è un romanzo, non è un saggio, è una storia che contiene noi stessi. Custodisce gli esseri umani per come vengono al mondo: c’è chi cura, chi è curato, chi rimane nel mezzo, chi lega e chi è legato. Leggerlo è come salire su una zattera e avere il coraggio di oltrepassare le colonne d’Ercole per vedere come siamo fatti, laddove ci consideriamo inesplorabili. Paolo Milone ce lo permette e lo fa con un mosaico emotivo che respira di verità dalla prima all’ultima pagina. Alla fine della lettura era commozione. Era spavento, stupore, fastidio, tenerezza. Era compassione. Alla fine della lettura, ho vissuto. È questo, per me L’arte di legare le persone è questo. Un’anatomia della vita».
Marco Missiroli

«Milone, con gli occhi di un protagonista di finzione ispirato a se stesso, racconta la routine del Reparto di psichiatria d'urgenza in un ospedale genovese e ci fa conoscere Lucrezia che ha 20 anni e si taglia con le lamette e Carmelo, che farebbe di tutto per comprarsi la dose. Il risultato è un libro delicato e sincero che sta riscuotendo consensi online con il passaparola, "parlando delle nevrosi senza scivolare nel politicamente corretto"».
Francesco Musolino, «Il Messaggero»

Con una scrittura che ha il passo della poesia, la stoffa del coraggio e l'intensità del mettersi a nudo, Milone ci porta per mano nel suo reparto, tra urla perforanti e silenzi assordanti, scalpiccii notturni, sedie spostate, la macchinetta del caffè che gorgoglia nella stanza infermieri, fruscio di lenzuola. […] Se ne esce col cuore felicemente crepato perché ogni istantanea è struggente umanità e salvifica lucidità, pugno e carezza, ferita e sutura, vita e morte insieme».
Carlotta Vissani, «il Fatto Quotidiano»

Giorgio Agamben

Dopo A che punto siamo? (Quodlibet, 2020), pamphlet sulla pandemia che ha fatto molto discutere, torna nelle librerie Giorgio Agamben con La follia di Hölderlin. Attraverso una cronaca puntigliosa e appassionata degli anni della follia e un commento di testi che sono stati spesso considerati illeggibili, questo libro cerca di descrivere e rendere per la prima volta comprensibile una vita, che Hölderlin stesso ha definito abituale e «abitante».

Se nella prima metà della sua esistenza il poeta vive nel mondo e partecipa nella misura delle sue forze alle vicende del suo tempo, nella seconda parte Hölderlin è del tutto fuori del mondo, come se, malgrado le visite saltuarie che riceve, un muro lo separasse da ogni relazione con gli eventi esterni.

«Agamben ripercorre quel periodo oscuro dell’esistenza del poeta in una “cronaca”, che non ha dunque né l'ambizione esplicativa della storia né il limite analitico della biografia. Il cronista non distingue tra le azioni del protagonista e il suo racconto; non inventa nulla, ma non ha neppure bisogno di verificare l'autenticità delle sue fonti. Nel racconto, anzi, nella cronaca, la sua voce si coniuga con quella da cui gli è capitato di udire la vicenda narrata» (Donatella Di Cesare, «tuttolibri – La Stampa»).

Hölderlin verrà internato nella clinica psichiatrica di Tubinga: la diagnosi resterà un enigma ma gli verranno somministrati farmaci potenti, forse nocivi, non gli saranno risparmiate violenze, dalla camicia di forza a una nuova maschera facciale…

«Agamben si sofferma sulla maschera. E non è l'unico riferimento alla cronaca del periodo pandemico. Al termine dell'epilogo scrive: “Da quasi un anno vivo ogni giorno con Hòlderlin, negli ultimi mesi in una situazione di isolamento in cui non avrei mai creduto di dovermi trovare. Congedandomi ora da lui, la sua follia mi sembra del tutto innocente rispetto a quella in cui un'intera società è precipitata senza accorgersene”. Le domande allora si moltiplicano. Anzitutto: che cosa vuol dire follia? Che è folle? E poi ancora: che cosa vuol dire abitare?» (Donatella Di Cesare, «tuttolibri – La Stampa»).

Il nuovo libro di Agamben può essere valutato «come un felice approccio creativo e filosofico a una vita intesa "come figura", ovvero a un'esistenza che si pone come "punto di fuga" in cui convergono una molteplicità di fatti ed episodi, e anche le inquietudini del nostro presente. "La lezione di Hölderlin è che quale che sia lo scopo per cui siamo stati creati, non siamo stati creati per il successo, che la sorte che ci è stata assegnata è fallire in ogni arte e studio e innanzitutto nella casta arte di vivere. E, tuttavia, proprio questo fallimento se riusciamo a afferrarlo è il meglio che possiamo fare"» (Luigi Reitani, «Domenica - Il Sole 24 Ore»).

La follia di Hölderlin è già in via di traduzione in portoghese (Brasile, Ayiné), in inglese (Seagull), e spagnolo (Hidalgo).

Don Winslow

Inedito in Italia, primo dopo la serie di Neal Carey, Ultima notte a Manhattan di Don Winslow è la storia di un omicidio che è solo un tassello di un disegno più vasto, un complotto ordito da chi sa di potere tutto.

Siamo alla fine degli anni Cinquanta, Manhattan è all’apice del suo fulgore, il posto ideale per chi ha grandi ambizioni o vuole soltanto cambiare vita. Joe Keneally è un giovane senatore che mira alla presidenza. Walter Withers, invece, a New York ci è tornato. Ha lavorato a lungo per la Cia e adesso è un investigatore privato in una grande agenzia di sicurezza. Le loro parabole si intersecano quando a Withers viene chiesto di fare da scorta durante un party a Madeleine Keneally, l’affascinante e ricca moglie del senatore, la «principessa d’America» che sembra destinata a diventare First Lady. Un compito di routine, all’apparenza. Ma nello stesso albergo alloggia anche la giovane e bella amante del senatore.

«Prima o poi succede qualcosa di brutto a qualcuno di loro […]. Per arrivarci Winslow si prende il suo tempo, tutto quello che gli serve e che ci vuole, intrecciando destini e caratteri, paranoie e coincidenze, nell'atmosfera ovattata e inquietante, elegante e frenetica, appunto, di un Natale a Manhattan. Sospetti e segreti che crescono fino a scoppiare in questo noir che sembra un romanzo di spionaggio York, e si muove come un hard boiled» (Carlo Lucarelli, «Tuttolibri – La Stampa»).

Winslow ha dato vita a un romanzo emozionante: «La narrazione e lo stile di Don Winslow  che qui leggiamo nella fedele traduzione di Alfredo Colitto  sono cose che prendono e non mollano. Perché è bravo, il nostro Winslow – personalmente è uno dei miei preferiti – padrone di un mestiere così solido che fa quello che deve fare il mestiere quando è solido: non si vede» (Carlo Lucarelli, «Tuttolibri – La Stampa»).

Con Ultima notte a Manhattan Winslow «non solo si addentra nel terreno, affascinante e potenzialmente pericoloso, del fanta-noir storico. Ma lo fa abbandonando la consueta, cristallina limpidezza dello stile e della scrittura. Per calarsi in un'altra scrittura e a un altro stile, meno "classici", meno controllati, più torrenziali e anarchici: quelli tipici dei maestri dell'hardboiled, Dashiell Hammett, Raymond Chandler. O il leggermente meno raffinato Mickey Spillane, l'unico citato esplicitamente, e in più di una occasione, nel romanzo. […] Il risultato è un affresco movimentato, pieno di ritmo, dipinto con partecipazione emotiva e un pizzico di nostalgia: sentimento che ci assale dì fronte a momenti della storia irripetibili, nel bene e perfino nel male, e che ci sembra di aver vissuto anche se non c'eravamo. Un'esperienza dolceamara, che evoca le note di un sassofono jazz dell'epoca: da leggere, magari, ascoltando gli album del primo John Coltrane» (Claudia Morgoglione, «Robinson – la Repubblica»).

«Ecco, dire che Ultima notte a Manhattan mette insieme il James Ellroy di American Tabloid, l'appena compianto John Le Carré de La talpa, e anche il Raymond Chandler de II grande sonno, è inopportuno soltanto perché anche Don Winslow è un grande classico alla pari degli altri» (Carlo Lucarelli, «tuttolibri – La Stampa»).

Orwell

Dal 12 gennaio Orwell è entrato a far parte del catalogo Einaudi con due dei più importanti classici moderni della letteratura: La fattoria degli animali e 1984. La traduzione è di Marco Rossari e le copertine di Noma Bar.

«[…] E facendo un’ulteriore riflessione voglio azzardarmi a predire una nuova peculiare fortuna per la Fattoria. Recenti studi sul nostro genoma hanno dimostrato quanto abbiamo in comune con gli altri primati e mammiferi, e in particolare con i maiali (dai quali possiamo farci trapiantare pelle e organi). Ai tempi di Orwell l’idea dei diritti animali, per non parlare di quella di una liberazione animale, sarebbe sembrata sciocca o piuttosto fantasiosa, ma oggi fa parte della nostra concezione dei diritti in continua evoluzione, e appoggiandosi a molte intriganti scoperte scientifiche è una di quelle idee che porta avanti il cambiamento. Anche noi siamo «animali», e il supposto dominio sulle altre creature che ci assegna il libro della Genesi appare messo sempre piú in crisi. Anche nell’enorme dibattito che ci aspetta nel futuro, questo piccolo libro si guadagnerà probabilmente una nicchia allegorica.
Tutti gli esempi che ho portato sono connotati storicamente, ma sono certo che la Fattoria possieda anche una cifra senza tempo, quasi trascendentale».
Dalla postfazione de La Fattoria degli animali a cura di Christopher Hitchens

«C’è una fotografia, scattata intorno al 1946 a Islington, che ritrae Orwell e suo figlio adottivo, Richard Horatio Blair. Il piccolo, che all’epoca doveva avere un paio d’anni, è raggiante, risplende di un’indifesa meraviglia […] Non è difficile ipotizzare che Orwell in 1984 abbia immaginato un possibile futuro per la generazione di suo figlio, un futuro che non gli augurava ma da cui non poteva evitare di metterlo in guardia. Ma l’idea di predire un futuro inevitabile lo metteva a disagio, e restava convinto della capacità delle persone comuni di cambiare qualsiasi situazione, se solo lo avessero voluto. Ed è a quel sorriso di bambino che si deve tornare; ingenuo e radioso, frutto di una fiducia incondizionata nel fatto che il mondo, alla fine, sia buono, e che l’umana decenza, come l’amore di un genitore, debba essere sempre data per scontata. Una fiducia tanto pura che possiamo quasi immaginarci Orwell, e persino noi stessi, magari anche soltanto per un istante, giurare di fare qualsiasi cosa vada fatta per evitare che possa mai essere tradita».
Dalla postfazione di 1984 a cura di Thomas Pynchon

  • George Orwell

    1984

    Uno dei piú importanti classici moderni, un tassello fondamentale per comprendere la Storia del Novecento e purtroppo anche la nostra.
    pp. 352
    € 12,50
Franco Loi

Dopo i primi riconoscimenti di Isella e Fortini, fu Mengaldo a consacrare Franco Loi, dandogli la strategica ultima posizione nella sua famosa antologia Poeti italiani del Novecento (1978) e presentandolo senza mezzi termini come «la personalità poetica più potente degli ultimi anni».
A Stròlegh (1974), che era il libro più importante sul quale Mengaldo basava il suo giudizio, seguirono rapidamente Teater (1978) e L’aria (1981), un trittico di libri Einaudi che avrebbero confermato il valore del poeta milanese e restano tuttora la testimonianza di una fase particolarmente felice della poesia di Loi.
Nella tradizione di Carlo Porta e Delio Tessa, Loi aveva ripreso a scrivere poesie in milanese, ma il suo dialetto si differenziava da quello dei suoi predecessori, era pieno di termini spuri o spesso inventati. Se non per la lingua, Loi si ricollegava al Porta per la teatralità dei suoi versi, per le voci differenti che attraversavano i suoi poemetti e le sue poesie. Salvo restituire spazio a un io lirico, spesso trasognato, nel corso degli anni.
La vena narrativa dei suoi versi era l’elaborazione poetica di un’arte affabulatoria naturale, orale, capace di intrattenere e coinvolgere sia un pubblico di amici sia un uditorio più vasto nonostante una voce flebile e di registro acuto. La sua disposizione alla conversazione e all’amicizia ha saputo diventare negli anni anche un prezioso apporto a tante figure di più giovani poeti che a lui guardavano come maestro e punto di riferimento insostituibile.

La sua poesia resterà, ma mancherà a molti la sua simpatia e la sua umanità.

Nel corso di circa mezzo secolo Franco Loi ha pubblicato una trentina di libri. Tra i più recenti: Amur del temp (Crocetti 1999, 2018); L’aria de la memoria (Einaudi 2005), un’auto-antologia che raccoglie il meglio di tutta la sua produzione; I niül (cioè «le nuvole», Interlinea 2012).