Giulio Einaudi editore

Maurizio de Giovanni

A tre anni di distanza da Angeli, la loro ultima indagine, i Bastardi sono tornati.

Serve a poco l'ombrello se ti piove dentro… e a tutti i membri del commissariato di Pizzofalcone piove sopra e sotto la pelle, che decidano di andarsene in giro riparati o no. In questa atmosfera dovranno risolvere il caso dell’omicidio di Leonida Brancato, penalista imbattibile, il re del cavillo.

Quando Brancato era andato in pensione, in procura avevano fatto festa. Da anni non si sapeva più nulla di lui, ma ora qualcuno lo ha ucciso e ha infierito sul suo cadavere. Un omicidio all’apparenza privo di movente.

Sotto un diluvio che non concede tregua, circondati da nemici e nonostante dolorosi problemi personali, i formidabili poliziotti, usciti dalla penna di Maurizio de Giovanni, si districheranno fra segreti, ipocrisie, rancori. Arrivando a scoprire una verità quanto mai inaspettata.

Così l’autore presenta il ritorno dei Bastardi al Corriere della Sera: «Quel mondo è per me tra i più interessanti, perché è quello che mi consente di guardarmi attorno nel mio ambiente, qui e ora, e declinare uno spettro di ferite e lesioni attraverso una pluralità di personaggi che mi ha sempre incantato […] Man mano che andavo avanti nella scrittura ero sempre più felice di trovarmi lì […] Mi sono divertito, preoccupato, angosciato e addolorato. Ho avuto paura, mi sono arrabbiato, ho molto riso e ho perfino imprecato a mezza voce mentre scrivevo. Mi sono perfino, ci credereste?, molto sorpreso per il finale, in cui accade qualcosa che non avevo previsto».

Per Raffaella Silipo, nella sua recensione su tuttolibri – La Stampa, «i Bastardi di Pizzofalcone, secondogeniti turbolenti e amatissimi di Maurizio de Giovanni, sono un’orchestra jazz, di quelle mitiche del dopoguerra, alla Glenn Miller: virtuosi diversi tra loro, ciascuno guidato dai suoi demoni e abituato a improvvisare per conto suo, eppure alla fine, come per miracolo, il suono combinato regala momenti di felicità e persino un poco di giustizia […] de Giovanni coordina i suoi Bastardi come un direttore d'orchestra consumato, sa tirar fuori da ognuno il suono giusto, che è poi il suono complesso di una città “piena di confini interni, dalle Vele di Scampia al Circolo Nautico Posillipo: i miei poliziotti altro non sono che navigatori fra questi mondi”. La musica di Napoli, per dirla con Pino Daniele: tra la pazzia e il blues».

«Questo è il male, sapete? Ognuno fa il suo pezzo di lavoro, senza mai alzare lo sguardo... Ma la giustizia, ispettore, che fine fa? Si perde nei rivoli, negli interstizi, nei dettagli, nelle procedure…» Come fa notare Generoso Picone sul Mattino, «non ci sarà articolo del codice penale o sentenza di Tribunale a fornire un'adeguata risposta a interrogativi di tanta inquietudine. Tali da ribaltare lo schema di una pur complicata indagine per omicidio nella trama quasi dostoevskiana di un’immersione che scandaglia le profondità più oscure dell’animo umano, misurandosi con il nodo inestricabile che intreccia la verità, la giustizia, la vendetta, la pena».

Ho saputo della morte di Alice Munro e, appena tornata a casa, sono andata ai suoi libri allineati sullo scaffale. D’impulso ne ho presi due: Danza delle ombre felici e Uscirne vivi. Il primo e l’ultimo, l’alfa e l’omega di una scrittrice che ha messo la longevità al servizio di un percorso artistico di assoluta imperterrita grandezza.

Tradurre Alice Munro è quello che ho fatto quasi ininterrottamente per circa dodici anni; è stata la mia vita per circa dodici anni. Come per altri può essere fare ogni giorno il pane, visitare pazienti, costruire case, suonare il violoncello. Il mio mestiere per tanto tempo è stato questo: tradurre Alice Munro. A me sembra una cosa strabiliante.

Ecco l’incipit del primo racconto della prima raccolta, quella dedicata al padre, Robert Laidlaw:

«Dopo cena mio padre fa: - Scendiamo a vedere se c’è ancora il lago? - Lasciamo mia madre a cucire sotto la lampada in sala da pranzo; mi fa dei vestiti per l’inizio della scuola».

Ed ecco l’epilogo del suo ultimo racconto, dedicato, senza bisogno di dediche, a sua madre:

 «Non tornai a casa per la sua malattia e nemmeno per il funerale... Di certe cose diciamo che non si possono perdonare, o che non ce le perdoneremo mai. E invece poi lo facciamo, lo facciamo di continuo».

Tra l’uno e l’altro si dispiega l’immensa costellazione di storie che, con felice caparbietà, Munro non ha mai trasformato in romanzi. «Maestra del racconto breve» recita la motivazione per l’assegnazione del Nobel del 2013. E maestra anche per non aver cambiato rotta e per aver consegnato un Premio Nobel al Canada e alla forma del racconto. Il suo unico presunto tentativo di romanzo, La vita delle ragazze e delle donne, anziché cedere all’ambizione del racconto di lunga gittata, ne frantuma la compattezza in capitoli per registrare il processo di formazione della voce narrante, Del, che, da bambina di nove anni, attraverso una serie di riti iniziatici e passaggi, approda alla necessità della scrittura e promette al lettore il dono di racconti credibili e radiosi.

Alice Munro ha continuato per sessant’anni a convocare le sue storie e a ripeterle, cioè a domandare a ciascuna di esse qualcosa che ancora le sfuggiva. «Scrivo dal punto in cui mi trovo nella vita», diceva. Il miracolo è che ogni volta il racconto trascina il lettore nel luogo in cui la lettura si fa necessaria e incantevole.

Le storie di Munro per me sono ricordi, come quelli che conserviamo delle persone che abbiamo conosciuto.

Donne, soprattutto, ragazze, bambine e donne di ogni età coi loro nomi: Heather, Maddie, Almeda, Sally, Lucille, Helen, Verna, Meriel, Fiona, Pauline, Mary Louise, Annie, Marian, Frances e tante altre ancora. Di loro, conosco i vestiti capaci di sedurre o imbarazzare, certi segreti e certe vergogne, spesso l’indirizzo, che saprei trovare, se solo esistessero i posti dove abitano.

E cose, osservate nella loro vita attiva in relazione con la nostra: case bianchissime, chiese, cuffie da bagno, tailleur, lettere micidiali.

Ma anche alberi, erbe, arbusti, piante in vaso e rovi perfino, protagonisti ignari dei racconti, insieme ai mille laghi in cui si nuota o si annega. Sono naturalmente aceri, ma anche abeti azzurri, cedri, pini neri, salici, olmi, pioppi rossi, betulle, castagni e meli, e radure sconfinate di tarassaco, lappe, piantaggini, ortiche, verghe d’oro, crescione, monarda didima e melissa. Come l’erbario poetico di Seamus Heaney che si conclude con un elenco di erbe spontanee da fiore e con la dichiarazione di un’appartenenza.

«Tra erica e calendula,
tra sfagno e ranuncolo,
tra tarassaco e ginestra,
nontiscordardimé e caprifoglio,
come tra azzurro chiaro e nuvola,
tra pagliaio e cielo al tramonto,
tra quercia e tetto d’ardesia,
passai la mia esistenza. Lì fui,
io nel luogo e il luogo in me».

Infine, le stagioni e le località, il tempo e lo spazio, tutte le immaginarie cittadine dell’Ontario come Walley, Jubilee, Hanratty, Dalgleish, che Munro ha inventato traducendole dalle reali Wingham, Guelph, Clinton, Kitchener. Perché Munro è nel luogo e il luogo in lei, oltre che nella geologia della sua lingua.

Ricordo la potenza della gioia con cui nel 2013 accolsi la notizia del Nobel: una telefonata dalla casa editrice. È stato così anche questa volta e ho sentito dentro un silenzio quieto, come di neve. Ci vorrebbe lei, per descriverlo.

Susanna Basso

 

Pubblichiamo il discorso della professoressa Michela Ponzani tenuto a Civitella in val di Chiana in occasione del 25 aprile 2024 per le celebrazioni della festa della Liberazione organizzate dal Quirinale in presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.


Presidenza della Repubblica
Celebrazione del 79° anniversario della Festa della Liberazione
80° anniversario dell’eccidio di Civitella in Val di Chiana
25 aprile 2024

La guerra giusta contro la politica del terrore

Signor Presidente della Repubblica, autorità tutte, famigliari delle vittime

«L’ho lasciato lì, in mezzo alle piante dell’orto». Alba Bonichi ha ricordato così l’ultimo istante in cui ha visto suo padre. I suoi occhi di bambina non hanno mai dimenticato «quel babbo che per le scale si reggeva il sangue».

È il 29 giugno 1944 quando militari tedeschi della divisione corazzata paracadutisti “Hermann Göring” massacrano oltre 200 civili nei paesi di Civitella in Val di Chiana, e nei piccoli comuni di Cornia e San Pancrazio.

Non sono uomini delle SS ma reparti scelti dell’esercito regolare; soldati della Wehrmacht giovanissimi (fra i 16 e i 25 anni), un corpo d’élite, provengono dalla gioventù hitleriana, e sono addestrati alle più spietate operazioni di polizia antipartigiana, alla guerra di sterminio. I loro commilitoni si sono già macchiati d’infamia massacrando la popolazione sul fronte orientale, nell’Europa dell’est, fin dal 1942; in Italia tornano a razziare e impiccare in una lunga scia di sangue che travolge l’intera penisola. Tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, si combatte in Italia una «guerra totale»: le popolazioni civili, investite di colpo da un conflitto che usa la violenza in maniera massiccia e indiscriminata, diventano improvvisamente il bersaglio strategico di una delle più spietate forme di guerra terroristica che la storia ricordi. Una guerra fatta di rastrellamenti con incendi a case e villaggi, corpi impiccati sulla pubblica piazza a monito della popolazione, torture sui corpi dei prigionieri politici, stragi, eccidi di massa, deportazioni, stupri contro le donne.

La guerra ai civili è la logica della “terra bruciata”, della guerra “casa per casa”; una tattica di terrorismo preventivo e intimidatorio, utilizzata dalle forze occupanti tedesche per “bonificare” il territorio dalle bande di ribelli e punire i civili che osano dare sostegno alle formazioni partigiane.

Una precisa strategia militare già prevista dalle spietate direttive del generale Wilhelm Keitel, comandante in capo delle forze armate tedesche e ribadita dagli ordini draconiani del feldmaresciallo Albert Kesselring: non riuscendo a stanare ogni singolo partigiano che si nasconde in montagna, che combatte in collina o nelle città occupate, le truppe tedesche (con l’ausilio dei reparti armati di RSI) dovranno mettere a ferro e fuoco quei villaggi e quelle comunità che danno aiuto ai partigiani; si dovranno massacrare civili innocenti che possono dare ai partigiani rifugio, cibo e cure.

In quella fresca mattina d’estate del 29 giugno 1944 a Civitella, la gente si è radunata in chiesa per celebrare le festività dei santi Pietro e Paolo. Qualche giorno prima i partigiani della banda “Renzino”, che opera in zona, hanno teso un agguato e ucciso, in pieno giorno, alcuni soldati tedeschi presso il dopolavoro ferroviario della città. Nessuno però si aspetta rappresaglie, come lo stesso comando tedesco si affretta a dire, rassicurando la popolazione. E invece, quel 29 giugno, alle prime ore del mattino, circa 400 uomini della divisione tedesca accerchiano la collina da due lati; un reparto uccide tutti gli uomini nelle vicine frazioni che tentano la fuga, e incendia tutto. L’altro, entra nel borgo, raccoglie la popolazione sulla piazza del paese: donne e bambini vengono allontanati, mentre gli uomini radunati in gruppi di cinque, sono portati sul retro della scuola e uccisi da un colpo di pistola alla nuca. Tra le vittime c’è anche don Alcide Lazzeri, il parroco di Civitella, che invano tenta di difendere la sua gente. E mano a mano che la strage procede, i cadaveri vengono gettati nelle case in fiamme.

A Solaia, altra frazione, una donna, Modesta Rossi, viene massacrata col figlio in braccio, di neppure un anno. A Cornia (dove il 21 giugno i partigiani hanno aperto il fuoco e ferito un sottufficiale tedesco), viene messa a punto una vendetta ancora più terribile: il massacro colpisce donne e bambini e alcune sono costrette a subire violenza davanti ai mariti e ai figli. Tutte le case vengono date alle fiamme e fino a sera, per tutta la campagna, si sentono urla e spari.

A comandare l’operazione è un ufficiale tedesco di 28 anni, che le testimonianze descrivono dal carattere ironico e sicuro di sé: morirà sul fronte orientale, nel marzo 1945, senza scontare neppure un giorno di prigione per i suoi crimini.

Nel tempo, intorno all’eccidio di Civitella si è radicata una memoria divisa: una memoria che ha trovato appiglio nel dolore di donne e orfani, abbandonati dalle istituzioni del dopoguerra, lasciati in una profonda solitudine di fronte al trauma della morte e al dolore dell’elaborazione del lutto. Una solitudine che nel tempo è diventata rabbia, si è trasformata in un risentimento profondo verso le bande partigiane locali, accusate di aver scatenato la ritorsione tedesca. Ma quella rabbia (umanamente comprensibile) è stata abilmente strumentalizzata da narrazioni di comodo, da polemiche infinite, da distorsioni della verità intenzionate a prendere di mira le ragioni dell’antifascismo e di tutta la Resistenza. Da un uso pubblico della storia che ha potuto radicarsi soprattutto a causa dell’assenza di una giustizia, incapace nel dopoguerra, di inchiodare i carnefici alle loro responsabilità.

Oggi, grazie al lavoro degli storici, sappiamo che la strage di Civitella non è stata una rappresaglia compiuta per vendicarsi di azioni partigiane, ma una spietata operazione di polizia antipartigiana, usata per controllare un territorio in prossimità delle linee di difesa e ritirata.

Un massacro ordinario, un crimine di guerra, una ritorsione vigliacca. I tedeschi sanno benissimo che su quel territorio l’iniziativa partigiana è praticamente inesistente (anche se ogni tanto si manifesta), che i partigiani in zona sono pochi e mal organizzati. Ma sanno anche che la Resistenza potrebbe crescere e rafforzarsi proprio grazie al sostegno della popolazione civile. La consistenza delle truppe impiegate nell’eccidio dimostra come l’operazione fosse stata decisa da tempo dai vertici militari, per ripulire dalle bande di ribelli una zona considerata strategica. E a massacrare la gente di quel paesino, che ha solo la sfortuna di trovarsi a ridosso di una linea di fortificazione tedesca, ci sono anche tanti italiani: spie, delatori, confidenti dei comandi tedeschi di zona. Sono squadre di brigate nere e militi della GNR, a straziare i corpi di donne, vecchi e bambini nella zona di Cornia, insieme ai soldati nazisti: fascisti animati dal culto del sangue e della violenza, da un crudele spirito di vendetta che cresce man mano che la guerra si sente perduta.

È contro questa politica del terrore che i ribelli, i combattenti irregolari, i partigiani che si danno alla macchia cercano di resistere; e lo fanno come possono. La scelta di combattere non sarà né allora, né in seguito, una decisione presa a cuor leggero. Convincersi all'uso armato della violenza è un dramma di coscienza attraversato da dubbi, da crisi, da tormenti interiori: perché in fondo «ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione», come avrebbe ricordato Cesare Pavese nella sua Casa in collina.

Sta tutta qui l’etica della responsabilità di quei combattenti volontari, «dagli abiti laceri e dalle scarpe rotte», «straccioni affamati» come li chiamano i tedeschi, che scelgono la lotta al fascismo perché mossi dalla ferma convinzione che sia giunto il momento d’opporsi in maniera definitiva, risoluta e forte, anche con la violenza, a chi la violenza la usa mille volte di più.

A resistere dopo l’8 settembre del ’43 sono soprattutto ufficiali e soldati del regio esercito sbandato, che si danno alla macchia, ma anche giovani nati e cresciuti sotto il fascismo: studenti ispirati da uno spontaneismo libertario, patriottico, influenzato da Mazzini e da Croce, operai, antifascisti della prima ora, sorvegliati speciali, che hanno patito il carcere e il confino, e molte donne: sono i “piccoli maestri” decisi a mettersi fuori legge per farla finita con un regime ormai crollato, che ha portato la rovina della patria. Scegliere di resistere, è un atto di disobbedienza radicale contro il poter fascista (come scriverà Itali Calvino), che matura nell’intimo della propria coscienza, in solitudine, e si trasforma in assunzione di responsabilità con l’irrompere della guerra in casa.

Azioni di sabotaggio, attacchi a convogli in transito e a linee nemiche, agguati continui a tedeschi e fascisti nelle città occupate: chi combatte nella Resistenza deve misurarsi ogni giorno con eccidi, rastrellamenti e violenze, senza cedere mai alla paura e al ricatto delle rappresaglie. È una scelta coraggiosa ma non scontata, una scelta dolorosa e carica di responsabilità.

Una scelta verso la quale il paese dovrebbe riconoscenza.

E invece ad ogni anniversario del 25 aprile il paese è però scosso da un Processo alla Resistenza che punta il dito sulle ragioni dell’antifascismo, confondendo torti e ragioni, meriti e bassezze, valori e disvalori, che cerca di equiparare le azioni partigiane ad atti di terrorismo. Si assiste, di contro, a una generale riabilitazione del fascismo, quasi a giustificare le colpe dei tanti crimini commessi da militi della RSI, “buoni padri di famiglia”, costretti solo ad obbedire a ordini superiori”.

«Assassini», «vigliacchi», «terroristi», «colpevoli sfuggiti all’arresto»: così i revisionisti hanno da sempre definito i partigiani, accusati d’irresponsabilità per non essersi costituiti ai nazisti in modo da evitare rappresaglie. Ma si tratta di una questione tirata fuori in maniera consapevolmente faziosa da chi, allora e in seguito, fu incapace di considerare il profondissimo dilemma umano e intellettuale che i partigiani di tutta Europa si erano posti, con estrema serietà e coscienza. Al fatto, cioè, che proprio l’antifascismo, in tutte le sue componenti politico-culturali, si era da sempre ispirato all’idea di un’Europa in cui le nazioni potessero convivere pacificamente; ma con l’irrompere della guerra l’idea della pace non poteva indurre alla soluzione d’arrendersi, di cedere al ricatto delle rappresaglie.

L’assenza di processi contro criminali di guerra nazifascisti ha nel tempo alimentato l’odio verso i partigiani, permettendo ai carnefici di rimanere impuniti. Migliaia di documenti e fascicoli processuali illecitamente archiviati con nomi di vittime e carnefici, con testimonianze e luoghi di migliaia di eccidi in tutta la penisola. Documenti occultati per oltre 50 anni in nome delle ragioni della guerra fredda rinvenuti solo nel 1994 presso la sede della Procura militare di Palazzo Cesi a Roma. Un tragico Atlante delle stragi nazifasciste, con oltre 5000 episodi di violenza contro i civili commessi dall’esercito tedesco e dai suoi alleati fascisti, per il quale ben pochi hanno pagato.

Gli storici hanno recuperato fonti, scavato fra gli atti processuali, ascoltato memorie e testimonianze, fino a entrare negli abissi della mente di chi decise quei massacri. E oggi grazie alle sentenze pronunciate dalla magistratura militare italiana per i nazisti non è più possibile nascondersi dietro al dito degli ordini ricevuti: non solo i comandanti ma anche i soldati semplici hanno delle responsabilità. Perché per sterminare centinaia di persone inoffensive non è sufficiente dire ho obbedito a un ordine; bisogna credere a quell’ordine, bisogna essere disposti a considerarlo legittimo.

La Resistenza ha affermato il diritto di un popolo a non farsi massacrare, a non farsi annientare senza muovere un dito: il diritto di lottare (con e senz’armi) per riprendersi la libertà e restituire dignità al paese in cui il fascismo aveva avuto origine nel 1922.

Il 25 aprile è il simbolo di una libertà riconquistata a caro prezzo. Una giornata chiamata a celebrare il ricordo, per le generazioni future, di quei mesi di guerriglia, trascorsi clandestinamente sulle montagne, tra «agguati, rastrellamenti, e imboscate», dove ognuno, a modo suo, aveva imparato a combattere «per l’indipendenza della patria e per la dignità di uomini liberi».

In tutte le sue forme e ovunque si combattesse, nelle città presidiate dai Gap o a Nord della linea Gotica, tra gli Appennini e il Po, e ancora con la mobilitazione sociale nei luoghi di lavoro, nelle fabbriche e nelle campagne, la Resistenza rappresentò il senso più profondo della lotta contro questa politica criminale. Donne e uomini, partigiani e civili, internati e deportati: persone che, con modalità e tempi diversi (e per diverse ragioni) avevano contribuito a riscattare l’onore della Patria, gettata nel fango dal fascismo e dai suoi miti guerrieri. Alcuni trovarono la morte, altri divennero sopravvissuti, ma per tutti l’amore per la libertà aprì un nuovo sguardo al futuro. Ha scritto così Rosario Bentivegna, ricordando quei giorni:

«Capimmo allora, poco più́ che ventenni, che la pace tra uomini liberi era la cosa più́ bella del mondo e quella lezione non l’abbiamo mai dimenticata, noi che abbiamo dovuto batterci nella più́ feroce delle guerre e abbiamo visto cadere, al nostro fianco, tanti amici, compagni, tante persone che ci erano care. La guerra è la cosa più́ sporca, più́ ignobile che all’uomo possa capitare di vivere, anche se i fascisti la acclamavano e la invocavano come “unica igiene del mondo”».

Civitella, questo luogo della memoria ci parla oggi del senso di quella scelta antifascista; la scelta maturata da un’intera generazione costretta a battersi, come scrisse Piero Calamandrei «per necessità, non per odio», nell’idea di un possibile riscatto dell’Italia «dalla vergogna e dall’orrore del mondo».

Buona Liberazione Presidente.

Per una di quelle sincronie che lo affascinavano tanto, Paul Auster è morto nel giorno in cui la polizia in tenuta antisommossa ha assaltato la Columbia University occupata dagli studenti, come nei tumultuosi giorni del 1968 che ritornano in molti dei suoi libri: allora protestavano contro la guerra in Vietnam e il reclutamento dei Marines all’interno dell’università, oggi contro il massacro di civili inermi a Gaza. Nel 1968, studente della Columbia, Auster era un contestatore svogliato e non troppo convinto, e il suo impegno politico (si definiva “molto più a sinistra del partito democratico”) trovò poi nella letteratura uno strumento forte attraverso il quale esprimere il proprio dissenso. La sua opera è attraversata da una riflessione radicalmente pessimista sulla natura del potere, ed è sufficiente leggere alcuni dei suoi libri più noti, La musica del casoLeviatano, Uomo nel buio fino al più recente 4321, per rendersene conto. Mi piace ricordare questa versione battagliera di Paul Auster (che fu tra l’altro a lungo impegnato in prima fila con il PEN Club), perché nei trent’anni in cui l’ho frequentato ho parlato con lui molto di letteratura, ma altrettanto spesso di politica: gli argomenti non mancavano da entrambi i lati dell’oceano. Il libro con cui si congederà dal pubblico italiano si intitola Un paese bagnato di sangue (uscirà il prossimo autunno da Einaudi) ed è uno straordinario pamphlet contro la diffusione delle armi da fuoco negli Stati Uniti e le fondamenta di violenza che reggono la storia americana.

In una frase di Peter Brook che Auster citava spesso, è nascosto forse il segreto della sua scrittura: “Nel mio lavoro cerco di combinare la vicinanza del quotidiano alla distanza del mito. Perché senza vicinanza non ci si può commuovere, e senza distanza non ci si può meravigliare”. La vicinanza del quotidiano si manifesta nei suoi libri nell’attenzione al dettaglio banale e nello stile realistico della narrazione. I romanzi partono talvolta dal micromondo della scrittura stessa: un taccuino intonso, una penna stilografica, oppure una macchina per scrivere, una scrivania in una stanza chiusa, isolata dal mondo. Poi arriva l’ondata di marea delle storie che investe il lettore e lo trascina per pagine e pagine, lontano. Auster ha trovato un modo unico per inserirsi nel solco della tradizione novecentesca di sovvertimento dei dogmi della letteratura, coltivando nello stesso tempo il gusto per un’arte antica, preromanzesca della narrazione. Ho sempre ammirato i suoi libri più famosi, da L’invenzione della solitudine a Trilogia di New York, ma il libro a cui sono più affezionato e in cui riaprendolo ritrovo lo scrittore che conoscevo, è un suo romanzo meno noto, La notte dell’oracolo. Raccontando l’avventura del giovane scrittore Sydney Orr, Auster porta a zonzo il lettore, apparentemente con lo scopo di fargli perdere l’orientamento, seguendo una linea narrativa ondivaga e tortuosa, e poi con un virtuosismo stupefacente riesce a trasformare quella stessa linea in una retta impeccabile, e il romanzo divagante in un intreccio perfetto.

Andrea Canobbio da «doppiozero», link

Nicoletta Verna

Dopo il successo dell’esordio Il valore affettivo, apprezzato da critica e pubblico, torna nelle librerie Nicoletta Verna con I giorni di Vetro.

L’autrice racconta la storia di Redenta, nata a Castrocaro il giorno del delitto Matteotti. In paese si mormora che Redenta abbia la scarogna e che non arriverà nemmeno alla festa di San Rocco. Invece per la festa lei è ancora viva, mentre Matteotti viene ritrovato morto. È così che comincia davvero il fascismo.

Redenta è ingenua, ma il suo sguardo sbilenco vede ciò che gli altri ignorano. È vulnerabile, ma resiste alla ferocia del suo tempo. È un personaggio letterario magnifico. La sua voce continuerà a risuonare a lungo, dopo che avrete chiuso l'ultima pagina.

I giorni di Vetro è un romanzo storico. L’autrice ha detto: «Ho scelto di raccontare il passato per parlare della violenza del presente. Il tema principale del romanzo è la violenza come primordiale e inevitabile forma di interazione fra gli esseri umani. Questa violenza nel distruggere determina il progresso: l’evoluzione è sopraffazione, dunque violenza. […] Qualunque invenzione presente nel romanzo è sottoposta al rigido vincolo della verità storica frutto di una corposa ricerca».

Il romanzo sta ricevendo un’accoglienza straordinaria:

«È già il caso letterario dell’anno. Leggendolo rimarrete colpiti dalla straordinaria forza della lingua. Un romanzo straordinario».
Massimo Gramellini a «In altre parole» su La7, link

«È una sorpresa. Una scrittura piena di forza, personalità, capace di attingere dal passato come se ne avesse esperienza diretta».
Nicola Lagioia, link

«Questo libro è vivo: fatto di Elsa Morante e di Renata Viganò. Il romanzo italiano torna a resistere».
Roberto Saviano

«I giorni di Vetro si dimostra capace di tessere un rapporto ideale tra i destini minuti delle persone e la Storia con tanto di maiuscola, cioè quella grondante di vita, morte, amor patrio, stragi, assembramenti, sangue, folla, congiure […] Questo romanzo ti arrovella e non ti lascia in pace. Ha un fuoco ottocentesco e un carico emotivo estremo, e il suo confronto con l'estetica e la follia del fascismo è un dato oggi attualissimo. Farà parlare di sé».
Leonetta Bentivoglio, «la Repubblica»

«Verna ha una voce potentissima, diversa da tutte, ha come un magnete interno attorno al quale tutto il racconto gravita, una tranquillità e una sicurezza, una calma rovente. Un tizzone, la letteratura quando torna».
Concita De Gregorio, «la Repubblica», link

«I giorni di Vetro di Nicoletta Verna è un romanzo epico, ambientato a Castrocaro nell’arco di tempo dall’omicidio Matteotti, 1925, alla Liberazione, con protagonista Redenta, “nata con la scalogna”, zoppa per la poliomielite, “la scema del paese”, eppure capace, lei così fragile, di resistere alla ferocia del suo tempo e alla bestialità del marito».
Daniela Monti, «7 – Corriere della Sera»

«I giorni di Vetro di Nicoletta Verna è uno dei libri più neri e severi che io abbia mai letto, ma con una luce interna (la letteratura?) che sorregge il racconto dalla prima all’ultima riga, e gli impedisce di soccombere alla durezza dei fatti. Un grande libro».
Michele Serra, «Il Post»

«Questo romanzo riesce nell’impresa quasi impossibile di raccontare la Resistenza sfuggendo alla retorica. Per farlo, Verna segue le tracce di Fenoglio: narra gli esseri umani con le loro piccole passioni, i loro amori, le loro insicurezze, e sono queste ultime più che il coraggio a fungere da leva per combattere».
Irene Graziosi, Lucylink

L’erba di nessuno di Enrico Testa è fra i dodici titoli candidati alla seconda edizione del Premio Strega Poesia. Uscito nella «Bianca» a marzo del 2023, al centro di questo nuovo libro stanno le erbe di nessuno, erbe che raccontano «una vita plebea», spesso in ambienti ostili, e che finiscono, come il taràssaco (già amato da Emily Dickinson), in un soffio nel vento. Una poesia dominata dall’ombra e dall’«eco sfuggente delle cose». Impreziosita da alcune versioni da Quevedo, Larkin e altri grandi autori: poesie in cui Testa si identifica totalmente tanto da farle sue nella forma e nel senso profondo.

«…Il tema della memoria è anch'esso intriso di gusto e sapienza della lingua, dell'uso familiare e comune del linguaggio di ogni giorno, che si oppone a panacee, cancellazioni, retoriche. La poesia resiste nel suo basso continuo di suoni scabri, spigolosi, di accenti disarmonici, con molto Montale nella mente, intimamente rivissuto. Se verità c'è, è per Testa nei territori dimessi, nei luoghi senza distinzione. Forse la lezione più fonda appresa da Montale sarà allora quella che il poeta de La bufera chiamava della “decenza quotidiana”».
«Daniele Piccini, La Lettura – Corriere della Sera»

Il premio verrà assegnato mercoledì 9 ottobre, a Roma, presso il Tempio di Venere e Roma all’interno del Parco archeologico del Colosseo.

Gli altri candidati:

Alida Airaghi, Quanto di storia, Marco Saya.
Alessandro Anil, Terra dei ritorni, Samuele Editore-PordenoneLegge
Gian Maria Annovi, Discomparse, Aragno
Daniela Attanasio, Vivi al mondo, Vallecchi Firenze
Alessandro Baldacci, Il dio di Norimberga, Pequod
Antonio Bux, Mappe senza una terra, RP libri
Roberto Cescon, Natura, Stampa 2009
Stefano Dal Bianco, Paradiso, Garzanti
Giovanna Frene, Eredità ed Estinzione, Donzelli
Rosaria Lo Russo, Tande, Vydia Edizioni
Tommaso Ottonieri, Cinema di sortilegi, La Vita Felice

Venerdì 4 aprile sono stati annunciati i dodici candidati alla 78esima edizione del Premio Strega. Sono due i titoli Einaudi presenti:

L’età fragile di Donatella Di Pietrantonio, proposto da Vittorio Lingiardi: «… È la storia di una famiglia sospesa nel segreto del trauma, parole mai dette rinchiuse nel cuore di una montagna d’Abruzzo che è insieme psiche e paesaggio. L’età fragile è il romanzo di una madre che non trova respiro, stretta tra la severità del padre e il silenzio della figlia. Un libro che raccontando il dolore lo cura, perché a scriverlo è una donna che conosce il miracolo delle parole e il sangue delle ferite. Per questo è il mio candidato al Premio Strega» (qui il testo completo).

Cose che non si raccontano di Antonella Lattanzi, proposto da Valeria Parrella: «… È un romanzo rappresentativo di un momento privato che però sa raccontare di quanto esso sia condizionato dallo sguardo altrui, di quanto, cioè, non una società qualunque ma proprio la nostra, quella italiana degli anni 2020, quella post pandemica, possa essere giudicante e richiestiva davanti alla materia più complessa e preziosa dell’esistenza: il corpo delle donne» (qui il testo completo).

Gli altri titoli candidati:

Sonia Aggio, Nella stanza dell’imperatore, Fazi
Adrián N. Bravi, Adelaida, Nutrimenti
Paolo Di Paolo, Romanzo senza umani, Feltrinelli
Tommaso Giartosio, Autobiogrammatica, minimum fax
Valentina Mira, Dalla stessa parte mi troverai, SEM
Melissa Panarello, Storia dei miei soldi, Bompiani
Daniele Rielli, Il fuoco invisibile. Storia umana di un disastro naturale, Rizzoli
Raffaella Romagnolo, Aggiustare l’universo, Mondadori
Chiara Valerio, Chi dice e chi tace, Sellerio
Dario Voltolini, Invernale, La Nave di Teseo

Il 5 giugno ci sarà l’annuncio dei libri finalisti.

Riguarda la diretta

  • Donatella Di Pietrantonio

    L’età fragile

    Non esiste un'età senza paura. Siamo fragili sempre, da genitori e da figli, quando bisogna ricostruire e quando non si sa nemmeno dove gettare le fondamenta. Ma c'è un momento preciso, quando ci buttiamo nel mondo, in cui siamo esposti e nudi, e il mondo...
    pp. 192
    € 18,00
  • Antonella Lattanzi

    Cose che non si raccontano

    Ci sono cose che non si raccontano perché le parole sono scogli nel mare. Ci sono cose che non si raccontano per vergogna, rabbia, troppo dolore, e perché se non le racconti, in fondo puoi sempre credere che non siano successe. Antonella e Andrea vogliono...
    pp. 216
    € 19,00
Roberto Vecchioni

«Questo è un romanzo epistolare fasullo, strabico. Oh sì, le lettere ci sono, più di 50, ma non ricevono mai risposta… Sembra un’iperbole ma non è così: dovevo scriverlo, questo libro, perché mi stava dentro, passati gli 80 anni, come un’urgenza, un redde rationem, un soffio alla nebbia per sapere chi sono: il riflesso della mia lampada sulla finestra del nonno». Queste sono le parole con cui Roberto Vecchioni presenta Tra il silenzio e il tuono a «tuttolibri – La Stampa», il suo romanzo più intimo e struggente che racconta, per frammenti, la storia di una vita: sconfitte, vittorie, sogni, disincanti.

Non è un romanzo epistolare come gli altri. Si alternano due voci: da una parte c’è lui, Roberto Vecchioni, che racconta a un fantomatico nonno alcuni degli episodi più significativi della sua vita. Infanzia, amicizie, studi, canzoni, dolori, amori. Il nonno, dal canto suo, non gli risponde mai: forse non ce n’è bisogno, forse conosce Roberto fin troppo bene. Le sue lettere sono indirizzate ad altri personaggi, veri o immaginari, e affrontano gli argomenti più disparati.

«Il ragazzino del libro è pensoso, a volte solitario, umoristico, satirico, sa prendere in giro la vita. Ma le lettere in cui mi identifico di più sono quelle autoaccusatorie: quella del mio senso di colpa per avere trascurato mio figlio, mascherata dal sogno del cavaliere che vuole essere ucciso. E poi ci sono quelle in cui spiego la mia doppiezza: sotto il palco una persona normale, con la paura di sbagliare, sul palco invece un altro, sicuro, spensierato e padrone del mondo», spiega Vecchioni a «Vanity Fair».

Il più intimo e intenso scritto dal professore cantautore che mostra una serie di dualità, a partire dalle lettere di un ragazzo, Roberto, che man mano cresce, a un misterioso nonno Luca Valtorta, «Robinson – la Repubblica»

Anche per Ermanno Paccagnini, che su «La Lettura – Corriere della Sera» ha speso parole preziose sul lavoro dell’autore, «pur presentandosi il volume in forma di romanzo epistolare, viene riduttivo definirlo tale. Perché “ragazzo” e “nonno” sono sì due entità che si parlano, ma, proprio in quanto si parlano, ciascuna parla a sé stessa. Due entità che trovano espressione traslata nel titolo: Tra il silenzio e il tuono; dove la preposizione “tra” vive tutta la sua ambiguità nel designare sì il legame, ma pure i termini dei confini di quei due lemmi: d'un “tuono” (dimensione dell'eros) che trova in sé lo spazio del silenzio; e d'un “silenzio” (dimensione della philia, che «vive in una coincidenza di ricordi, proprio nel punto preciso di quelle risate e quelle lacrime») che si fa finalmente parola».

Tra il silenzio e il tuono è «un libro splendido. Una carriera preziosa. Un uomo che sa raccontare – e raccontarsi – come pochi altri» (Andrea Scanzi, «il Fatto Quotidiano»).

Roberto Vecchioni ospite a «Quante storie»

La zona d’interesse, diretto da Jonathan Glazer, si è aggiudicato l’Oscar per il Miglior Film Internazionale. Al film è andata anche la statuetta per il Miglior Sonoro, curato da Tarn Willers e Johnnie Burn.

Questi due riconoscimenti seguono il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes.

Il film, liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Martin Amis, mostra la storia del comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, e della sua famiglia. Höss vive con la moglie e i figli in una splendida villa confinante con il Campo dove le giornate scorrono all’insegna dell’ordinario: le immagini ci mostrano un’estraniante quotidianità fra tuffi in piscina, ore trascorse a pescare in riva al fiume, feste e degustazioni di the. Là fuori però, a pochi passi da quel piccolo Eden, c’è l’orrore di Auschwitz con i suoi rumori, i suoi fumi, la sua cenere.

«La zona d'interesse è un tour de force di puro virtuosismo linguistico nonché un romanzo geniale e divinamente urticante che trae ispirazione da una profonda curiosità morale sul genere umano. Lascia senza fiato».
Richard Ford

Il lavoro di Glazer, oltre al capolavoro dello scrittore britannico, deve sicuramente molto anche alla biografia che lo stesso Rudolf Höss ha scritto in attesa dell’esecuzione della sua condanna a morte, arrivata alla fine della guerra. Comandante ad Auschwitz, disponibile negli ET Saggi, è un documento impressionante che per la prima volta ha illuminato dall'interno la mentalità e la psicologia dei nazisti, la storia e il funzionamento delle officine della morte.

  • Martin Amis

    La zona d’interesse

    «Un romanzo geniale e divinamente urticante che trae ispirazione da una profonda curiosità morale sul genere umano. Lascia senza fiato».
    Richard Ford
    pp. 368
    € 13,50
  • Rudolf Höss

    Comandante ad Auschwitz

    Il volume, oltre alla prefazione di Primo Levi scritta nel 1958, contiene un articolo di Alberto Moravia e un'appendice storico-bibliografica a cura di Frediano Sessi.
    pp. XII - 278
    € 13,00
Gianrico Carofiglio

«È un romanzo sulla ricerca della felicità, sul non rassegnarsi». Gianrico Carofiglio descrive così a Severino Colombo, in un’intervista sul Corriere della Sera, L’orizzonte della notte, il nuovo libro che vede protagonista l’avvocato Guerrieri cinque anni dopo La misura del tempo.

Questa volta a Guido Guerrieri non basta più il fedele Mr Sacco, il sacco da pugilato con cui l’avvocato, tra un pugno e l’altro, è solito confidarsi.

«Il problema, senza offesa, è che tu sei un po’ troppo taciturno. Sei un ottimo ascoltatore, per carità. Ma sai, a volte uno ha bisogno di qualche commento esplicito, qualche interpretazione, anche qualche consiglio» (L’orizzonte della notte).

E proprio in quest’ottica Guido Guerrieri ne L’orizzonte della notte affronta un percorso di analisi con uno psicoanalista di scuola junghiana, il dottor Carnelutti, mentre è alle prese con un caso giudiziario che metterà a dura prova il senso di giustizia dell’avvocato, chiamato a difendere Elvira Castell. La donna ha ammesso di aver ucciso con un colpo di pistola al cuore l’ex compagno della sorella, da poco morta suicida.

«Mi interessava affrontare un soggetto etico, deontologico, ragionare su cos’è la legittima difesa, e anche parlare del tema della violenza sulle donne in maniera indiretta, da un altro angolo visuale», spiega Carofiglio nell’intervista al Corriere.

Un viaggio psicologico che rappresenta l'atmosfera di un libro delicato e dolente: seguendo il ritmo del legal thriller di cui è maestro Maurizio Crosetti, «la Repubblica»

L’angolo visuale scelto da Carofiglio per parlare della violenza sulle donne, e le sedute di analisi con il dottor Carnelutti, porteranno l’avvocato Guerrieri a prendere decisioni importanti nel corso del romanzo, e anche ad «accettare l’idea che sbagliare non è una catastrofe, è un passaggio fondamentale dell’evoluzione. Una forma di armistizio con noi stessi. Un modo per diventare persone migliori. Senza commiserazione e senza risentimento» (L’orizzonte della notte).

Come nota Maurizio Crosetti nella sua recensione pubblicata su Repubblica, «Il sentimento del tempo, una giostra tra sottrazione e accumulo, intesse questo romanzo multistrato, dove lo stile asciutto di Carofiglio è la nota giusta per non sbandare nelle curve del dolore. L’enfasi, scrive l’autore, segnala sempre un disagio».

L’orizzonte della notte è il settimo romanzo di Gianrico Carofiglio con protagonista Guerrieri. Il primo è Testimone inconsapevole (Sellerio, 2002), seguito da Ad occhi chiusi (Sellerio, 2003), Ragionevoli dubbi (Sellerio, 2006), Le perfezioni provvisorie (Sellerio, 2010), La regola dell’equilibrio (Einaudi Stile Libero, 2014) e La misura del tempo (Einaudi Stile Libero, 2019).

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