«Noi genitori ci vediamo sempre più spesso come i paladini dei nostri figli, in realtà dovremmo essere i difensori dei loro interessi. Che è una cosa diversa. Trasmettere il rispetto per la figura dell’insegnante dovrebbe essere il primo fra questi visto che sono le persone alle quali abbiamo delegato la loro educazione».
Matteo Bussola a Le parole della settimana
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Dopo il grande successo di Notti in bianco, baci a colazione, torna Matteo Bussola con Sono puri i loro i sogni. Se nel suo precedente lavoro l’autore raccontava della sua magica esperienza di padre di tre figlie, ora, con questo libro-lettera, indaga «sul vero triangolo delle Bermude» (Massimo Gramellini): ricorrendo alla scrittura per mettere in ordine i pensieri, come gli aveva insegnato la sua maestra, affronta il tema del delicato rapporto fra figli, genitori e insegnanti. Lo fa come uomo di cultura e, soprattutto, come padre che ha commesso tutti gli errori che racconta nel suo libro.
Il cammino che attende i bambini e gli adolescenti è irto, difficile, lo si vorrebbe coprire di velluto per evitare loro difficoltà e fallimenti dimenticando però che essi «fanno crescere e forgiano la personalità, fanno crescere individui autonomi e responsabili, mentre noi non accettiamo più il fallimento come parte integrante della nostra vita» (Matteo Bussola intervistato da Valentina Santarpia, «Corriere della Sera»). I genitori stanno troppo vicini ai loro figli, vogliono vedere, vigilare, interpretano la genitorialità come un mettersi davanti per proteggere quando, suggerisce l’autore, sarebbe più corretto lasciarsi «un passo indietro pronti a prenderli se cadranno» (Matteo Bussola intervista da Rosa Baldocci, «F»).
La famiglia non sempre rispetta il confine labile e sottile fra presenza e invadenza, si sente processata per gli insuccessi dei figli e reagisce accusando l'istituzione. L’autore, ospite di Massimo Gramellini a Le parole della settimana, sostiene che «noi genitori ci vediamo sempre più spesso come i paladini dei nostri figli, in realtà dovremmo essere i difensori dei loro interessi. Che è una cosa diversa. Trasmettere il rispetto per la figura dell’insegnante dovrebbe essere il primo fra questi visto che sono le persone alle quali abbiamo delegato la loro educazione».
Sono puri i loro i sogni è una ricerca dei perché: perché si è cosi arrabbiati con gli insegnanti, perché gli adulti hanno tanta paura, perché la scuola da tappa fondamentale del cammino verso la sicurezza sia diventata «un servizio dove il cliente ha sempre ragione».
Bussola ricorda il suo passato di alunno quando nessuno discuteva l'autorità e i provvedimenti di un docente e il Preside godeva di una autorevolezza che lo metteva al riparo da ogni intimidazione; oggi è più semplice assecondare «il cliente» per difendersi dalla furia genitoriale; forse perché «noi genitori abbiamo dentro uno straordinario senso di colpa, perché non abbiamo più tempo di stare con i nostri figli e quindi sviluppiamo questa sorta di aggressività latente nei confronti di tutte quelle figure professionali che invece con i nostri figli il tempo ce lo passano» (Matteo Bussola a Le parole della settimana).
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Di seguito Matteo Bussola a Le parole della settimana.
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Una giovane donna in fuga e il mistero che porta con sé. Un solitario che vive sulla montagna dei suoi padri, seguendo leggi inflessibili e antichissime. Un uomo divorato dal passato e uno tanto spaventoso da non avere né nome né futuro. Poi Lissy. Un'invenzione gigantesca.
«Un thriller esistenziale e cupissimo ambientato sulle Alpi, centrato su quattro personaggi borderline. Caratteri a tutto tondo, e un intreccio che coinvolge il lettore, senza pause né sbavature, fino all'epilogo: non sorprende che un autore così solido sia finito, già al debutto, nelle top ten di paesi come la Germania, la Spagna, la Danimarca. Perfino l'Uruguay».
Claudia Morgoglione, «la Repubblica»
«Lissy è una creatura arcaica e quasi mitologica, con cui D’Andrea mette a segno un’invenzione assai potente e riuscita, lasciando che il romanzo viri nei toni dell’horror e del visionario».
Alessia Rastelli, «Corriere della Sera – La Lettura»
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Luca D’Andrea, dopo lo straordinario successo in Italia e all'estero de La sostanza del male, tradotto in 35 paesi e che presto diventerà una serie TV, torna con un nuovo, avvincente, thriller, Lissy.
Il libro ha vinto il Premio Giorgio Scerbanenco 2017 in quanto «originale esempio di noir ambientale in cui la montagna, vera coprotagonista del romanzo, nasconde antiche paure e minacce, esplorando in modo paranoico i segreti più oscuri della provincia italiana».
La storia è ambientata nel silenzio degli spazi dolomitici, dove vive il Bau’r Simon Keller, un contadino solitario che conosce i segreti delle erbe e delle montagne. È «boscaiolo, cuoco, falegname, allevatore, medico... perfino prete». Proprio quest'uomo trova, tramortita e ferita, una donna, Marlene, e la accoglie nel suo maso.
La donna è fuggita dal marito, Robert Wegner, per tutti Herr Wegener: un uomo spietato, «quarantadue anni passati a costruire una carriera fatta di intimidazioni, contrabbando, agguati e omicidi» (Lissy, p. 5). Marlene, «quasi una novella Angelica in una selva dannata, è il motore di tutte le inchieste del libro, delle quali lo scrittore regge le file con sapienza» (Alessia Rastelli, «Corriere della Sera – La Lettura»). Ha abbandonato il boss portandogli via un sacchetto di zaffiri, lasciandolo rabbioso e sgomento, ma durante ha l’incidente che le farà incontrare il Bau’r.
Nel libro compaiono altri due personaggi: l’Uomo di fiducia, un killer spietato, bello come un attore di Hollywood, messo sulle tracce di Marlene dal marito e, soprattutto, Lissy. È una gigantesca scrofa del Bau’r, la sua prediletta e a cui dedicherà particolari e inquietanti attenzioni: «una creatura arcaica e quasi mitologica, con cui D’Andrea mette a segno un’invenzione assai potente e riuscita, lasciando che il romanzo viri nei toni dell’horror e del visionario» (Alessia Rastelli, «Corriere della Sera – La Lettura»).
La montagna, il freddo, la neve, una donna in fuga, un vecchio che la aiuta e Lissy: «Sembrerebbe una fiaba, come quelle del libro dei fratelli Grimm da cui Marlene, la protagonista, non si separa mai: il vecchio che salva la principessa dall’orco, solo che a un certo punto non si capisce più chi sia l’orco. O se ce ne sia più di uno» (Alessia Rastelli, «Corriere della Sera – La Lettura»).
Dietro i personaggi ci sono storie piene di luci e ombre: nessuno è innocente ma nessuno sembra colpevole senza attenuanti. Poi c’è la montagna, «dura. Severa. Chiusa in un silenzio minerale. Altro che luogo idilliaco... prova a viverci davvero, lassù, e poi ne riparliamo» (Luca D’Andrea intervistato da Claudia Morgoglione, «la Repubblica», link).
«L'Alto Adige è il mio parco giochi personale, dove posso far muovere i personaggi dei miei libri: come fa Jo Nesbø in Norvegia o Stephen King, il mio mito, nel Maine. Ma con Lissy ho voluto scrivere una storia completamente diversa dalla precedente, e anche per questo l'ho ambientata in un'altra epoca, nel 1974: il periodo in cui l'economia del maso tramonta» (Luca D’Andrea intervistato da Claudia Morgoglione, «la Repubblica», link).
La storia di D’Andrea è «forte e cattura, confermando che siamo di fronte a un narratore solido e originale» (Alessia Rastelli, «Corriere della Sera – La Lettura»), le cupe atmosfere sono accompagnate da «caratteri a tutto tondo, e un intreccio che coinvolge il lettore, senza pause né sbavature, fino all'epilogo» (Claudia Morgoglione, «la Repubblica», link).
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Di seguito Luca D’Andrea presenta Lissy sul profilo Facebook de «la Repubblica».
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Severino Cesari e Paolo Repetti
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Altri, con più lucidità e la giusta distanza sapranno dire meglio di me cosa ha rappresentato Severino Cesari - Seve - per il giornalismo e l'editoria italiana. Stasera, a pochi minuti dalla notizia della sua scomparsa, della scomparsa del mio fratello maggiore di avventure e imprese editoriali, posso solo dire il vuoto che la sua figura lascia dentro di me. Severino è stato un maestro dell'ascolto. Tutti i nostri autori lo sanno. Aveva la pazienza, il distacco, l'attenzione lucida di un monaco buddista. E tutte le virtù di un maestro di cerimonie. Della cerimonia che, insieme alla vita, ha amato di più: la letteratura, che della vita in genere, e della sua vita, era parte integrante.
Spesso l'ho visto incantarsi davanti a un fiore, una montagna, un libro antico, una parola. E fermarsi lì, in ascolto. Eravamo così diversi e così uniti. Io, un impulsivo navigatore della superficie. Severino, piantato come una quercia che trae la sua linfa, la sua conoscenza, solo dopo aver messo radici. Ascoltava, dicevo. Spesso in silenzio. Non l'ho mai sentito esprimere un parere corrivo, orecchiato. Detestava il chiacchiericcio mondano sui libri. Per lui, su ogni parola, si giocava la bellezza e la verità di un testo. E non mollava l'osso fino a quando non ne fosse stato convinto.
Poi, quando i libri finalmente uscivano, Severino si ritirava «in clandestinità». Lasciava a me, a noi tutti la palla. Qualche volta provavo a convincerlo: «Seve, dovresti chiamare tu il tal critico o un giornalista, non lo fai mai!» Lui annuiva. La telefonata magari prima o poi arrivava. Ma quando il libro era già uscito da mesi.
Caro Seve, quanto era tenera e tua quella timida discrezione.
La vita è stata incredibilmente generosa con lui. E sembra un paradosso dirlo per una persona martoriata negli ultimi anni dalla malattia. È stata generosa perché lui lo è stato con lei. Ecco l'insegnamento forse più grande che mi ha lasciato. Non esistono sventure, malattie, drammi che non sia possibile trasformare in una occasione di sguardo verso un altrove. Severino lo ha fissato con candore, fino agli ultimi istanti, come stupito della forza invincibile che ha la vita, se la si attraversa con l'intelligenza di un cuore immenso.
Ciao Severino, ora sta a noi prendere una parte di te nelle nostre vite.
Paolo Repetti, «la Repubblica» del 26/10/2017.
«Un romanzo di formazione dal sapore epico. È impossibile non restare impressionati – per non dire sbalorditi – di fronte all’impresa portata a termine da Auster. Un’opera frutto di un’ambizione sfrenata e di una maestria senza pari; un monumentale affresco fatto di storie che abitano universi paralleli eppure si incrociano. Un romanzo che ne contiene infiniti altri».
«The New York Times Book Review»
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Dopo un'attesa di quasi dieci anni, Paul Auster ritorna al romanzo. 4 3 2 1, finalista al Man Booker Prize 2017, racconta i quattro sentieri diversi della vita di Archie Ferguson, la vita che ha avuto e quella che avrebbe potuto avere: «è il risultato di un'ambizione vertiginosa e di una maestria artigianale unica. Una costruzione grandiosa di storie alternative e complementari» («The New York Times Book Review»).
Il romanzo di Paul Auster è avvolgente, «ponderoso, se non fosse per la cristallina scrittura di Auster che dà il suo meglio nel tratteggiare come i diversi personaggi reagiscono alle ordinarie catastrofi – incendi di negozi in cui si è investito tutto, fratelli che truffano fratelli, l’adorata fidanzata che bacia un altro: la vita, in poche parole – che si para loro davanti» (Riccardo Staglianò, «il venerdì – la Repubblica», link).
Ogni esistenza umana lascia dietro di sé sentieri interrotti, deviazioni ignorate, viaggi incompiuti, passioni trascurate, tanti se... I romanzi sono un placebo al desiderio di vivere altre vite, di abitare in altri luoghi e in altri tempi, di avere vicino e amare persone diverse in modi diversi.
Paul Auster ha scritto una sinfonia maestosa suonando i tasti del destino e del caso: un libro che mette d'accordo Borges e Dickens, un'avventura vertiginosa e scatenata, unica e molteplice come la vita di ognuno.
Ferguson è nato in una famiglia di origine ebrea polacca nel 1947 e Auster, con «una struttura a scatole cinesi che rinvia a Pirandello o a Borges e ammicca alle ardite sperimentazioni del postmoderno» (Roberto Bertinetti, «Il Messaggero»), ne racconta le storie e contemporaneamente affresca l'America degli anni Sessanta.
Mentre esplora la crescita del suo personaggio che passa dall'infanzia all'età adulta in quattro modi diversi, racconta il New Jersey e New York, le proteste per i diritti civili, Kennedy e il suo assassinio, il baseball e il Sessantotto ed è lo stesso autore ad ammettere, nell’intervista per il venerdì, che in 4 3 2 1 trapela anche una sorta di nostalgia per la gioventù.
Auster, «autore di culto negli Usa e in Europa» (Roberto Bertinetti), trascina il lettore in un caleidoscopio di immagini e fatti che richiamano alla mente i lavori di De Lillo e Roth con «un romanzo di formazione dal sapore epico. È impossibile non restare impressionati – per non dire sbalorditi – di fronte all’impresa portata a termine da Auster. Un’opera frutto di un’ambizione sfrenata e di una maestria senza pari; un monumentale affresco fatto di storie che abitano universi paralleli eppure si incrociano. Un romanzo che ne contiene infiniti altri» («The New York Times Book Review»).

La «New York Times Book Review» ha collocato fra i dieci libri migliori del 2014 il romanzo di Akhil Sharma, Vita in famiglia.
In un'intensa conversazione con Mohsin Hamid, autore del Fondamentalista riluttante e Come diventare ricchi sfondati nell'Asia emergente, Sharma parla del suo libro, al quale ha lavorato per quasi tredici anni.
Mohsin Hamid: So che nel romanzo Vita in famiglia racconti una vita molto simile alla tua. In che misura il tuo romanzo è un'autobiografia?
Akhil Sharma: È una di quelle domande a cui i romanzieri odiano rispondere.
MH: Lo so.
AS: I romanzi dovrebbero essere giudicati con severità. Un libro funziona oppure non funziona. Una cosa può essere vera nel mondo reale, ma non per questo è più autorevole nella fiction.
MH: Lo so, ma te lo chiedo perché ho una seconda domanda da farti, e dipende dalla tua risposta.
AS: È quasi tutto vero. Anche se le cose non sono accadute nell'ordine in cui le faccio accadere nel romanzo. E altre cose non le ho messe nel romanzo sebbene siano state importanti nella mia formazione.
MH: Perché non hai scritto un memoir?
AS: Considero i memoir alla stregua di saggi, e tutto in essi dev'essere vero. In un'opera di saggistica non posso avere personaggi compositi. Non posso attribuire a qualcuno un dialogo basato esclusivamente sui miei ricordi e non su appunti presi all'epoca in cui le parole furono dette; inoltre devo poter dire cose che sono importanti anche se non funzionano in termini narrativi, cose che distruggerebbero la simmetria o il ritmo narrativo. È il mio punto di vista personale, naturalmente, ma sentivo che era impossibile superare tutti questi ostacoli riuscendo comunque a scrivere qualcosa di significativo.
MH: Dicevi prima che hai lasciato fuori cose che sono state importanti nella tua formazione. Potresti dirmene una?
AS: La costante disperazione di vivere con una persona malata, di non avere speranza. È stato questo il polo d'attrazione intorno a cui hanno gravitato la mia infanzia e giovinezza. Per descriverlo compiutamente avrei dovuto metterlo in primo piano. Ma la disperazione è ripetitiva e noiosa. Non solo, uccide l'interesse del lettore per gli altri aspetti della narrazione.

MH: Hai accennato di nuovo al fatto di aver raccontato la formazione di un personaggio. Ti va di dirci qualcosa su ciò di cui secondo te parla il romanzo?
AS: Per me il romanzo parla di un bambino che diventa una persona compiuta in una famiglia claustrofobica, e di come l'adulto ci ritorna sopra e cerca di dar conto di ciò che è accaduto. Come sai, è un tema classico anche del romanzo modernista. Credo di poter paragonare Vita in famiglia a Così muore la carne di Samuel Butler, per esempio, o al Ritratto dell'artista da giovane di Joyce, che da Butler trasse ispirazione. Ma ai miei occhi è anche la storia della mia generazione di indiani americani. Credo che si tratti di qualcosa di nuovo: un rigoroso romanzo modernista sul sé infantile che ha a che fare specificamente con l'esperienza dell'immigrante indiano.
MH: Prevedi che il libro sarà definito romanzo d'immigrazione?
AS: Philip Roth e Saul Bellow sono stati definiti scrittori ebrei per un sacco di tempo. Faulkner era considerato uno scrittore del sud. Di Virginia Woolf si sottolineava l'essere donna. Spesso si ha bisogno di definire le cose alla svelta e così si usa un'abbreviazione. Il problema è che spesso dopo aver usato un'etichetta si comincia a ragionare solo nei termini dell'etichetta invece che della totalità dell'esperienza racchiusa nel romanzo. È come quando nelle relazioni ci concentriamo solo su un aspetto della persona amata, a detrimento di tutti gli altri.
MH: In più, spesso la gente si basa sull'etichetta per decidere se leggerà o no un dato romanzo.
AS: Sì, ma resta il fatto che un'abbreviazione è necessaria.
MH: Una delle cose che colpisce in te è la celerità con cui ti sposti fra particolare e universale.
AS: Tendo a pensare che siamo tutti molto simili. Tutti ci disperiamo. Tutti abbiamo problemi nelle relazioni. Tutti abbiamo paura. Tutti guardiamo gli altri pensando che sono molto più fortunati di noi. Poi, certo, i dettagli delle singole vite sono unici. D'altra parte, passare il tempo a pensare quanto si è diversi dagli altri è di solito piuttosto improduttivo.
MH: Cosa mi dici dei dettagli del tuo romanzo e della tua vita? Sembrano unici in un modo non generalizzabile. Quegli strani «operatori del miracolo», ad esempio.
AS: Non sono unici. Spero che tu non debba mai soffrire di una grave malattia, ma se dovesse accadere, potrebbe succederti di rivolgerti ovunque in cerca di aiuto.

MH: E quella gente che considera tua madre una santa e viene a chiederne la benedizione?
AS: Non succede anche nel cattolicesimo? Tutti quei martiri considerati santi?
MH: Cambiando un po' discorso, hai passato tredici anni su questo romanzo.
AS: Rabbrividisco nel sentirtelo dire.
MH: Il numero è giusto?
AS: Sì, lo è, anche se io dico sempre dodici perché per qualche ragione mi sembra un numero meno penoso.
MH: Ci hai messo così tanto per via della natura autobiografica del libro?
AS: Poiché non voglio che il libro sia letto come un memoir, lascia che ne parli prima come di un'opera di fiction, una realtà inventata. Tecnicamente, è stata una sfida incredibile. Spero che le soluzioni che ho inventato non si vedano, ma è stato difficile metterle a punto. È stata una sfida scrivere di cose fisicamente pesanti senza provocare una presa di distanza del lettore. Il lettore legge di un personaggio che diventa cieco ed è così straziante che abbandona il libro. Dovevo trovare una soluzione per questo. Un'altra cosa difficile era creare un narratore bambino, ma anche sufficientemente informato perché la narrazione risulti comprensibile al lettore. Infine, in una situazione di malattia terminale come quella di cui ho scritto, tende a non esserci un intreccio. Ciò che accade, è il passare del tempo. Spaventosamente monotono, così ho dovuto creare una serie di racconti collaterali per tener viva l'attenzione del lettore e indurlo a continuare a leggere.
MH: E quali sono gli elementi autobiografici? È stato difficile scriverne?
AS: È stato difficilissimo trovare un punto di vista stabile sui vari avvenimenti che racconto. Mia madre aveva parecchi tipi strambi che venivano a casa per risvegliare mio fratello. E io lo capisco. Ma sento anche che in questo modo faceva del male a me e a mio padre. Era egoista, mia madre? O era inconsapevole? Se era inconsapevole, lo era intenzionalmente? Sono queste le domande che mi hanno tormentato durante la stesura del libro. Spero che il mio corpo a corpo coi personaggi, il loro modo di attirarmi a sé e poi di allontanarmi, possa sperimentarlo anche chi legge.
MH: Ho notato questo tira e molla. Puoi fare un confronto fra questo romanzo e il precedente?
AS: Penso che in questo libro ci sia molta più tenerezza.
MH: Ho notato anche questo. Mi sono affezionato a ognuno dei personaggi.
AS: Una differenza tecnica fra Un padre obbediente e Vita in famiglia è che in quest'ultimo faccio maggiore ricorso alla descrizione. Per me nella descrizione c'è sempre tenerezza. Mentre una scena drammatizzata è un modo per garantire un'esperienza emotiva al lettore, la descrizione dà per scontato un lettore sofisticato che sappia vedere l'universale. Descrivere dimostra una grande fiducia nel lettore, e tale espressione di fiducia infonde tenerezza al libro.
Traduzione di Anna Nadotti
© Riproduzione riservata
«È tornato agli elementi, ieri all'improvviso, Glauco Felici. Dopo aver avvisato, fra gli altri, Mario Vargas Llosa e Javier Marías, che si stringono addolorati alla famiglia, scorro nel catalogo storico dell'Einaudi la lunga colonna dedicata al lavoro di Glauco. Questo di lui ci rimarrà, oltre al ricordo: lo stile e la grazia con cui ha saputo scrivere per il lettore italiano i libri degli altri. Un dono immenso, che Glauco ha saputo sempre porgere con un gesto breve ed elegante».
Ernesto Franco
Verrà mai un tempo in cui reggerò la lettura di un mio scritto stampato senza arrossire, senza rabbrividire, senza il bisogno di trovare riparo?
Virginia Woolf, Diario di una scrittrice
27 marzo 1919
Parafrasando Virginia Woolf, posso dire che non c’è stato un momento, negli ultimi mesi, in cui non mi sia chiesta se avrei retto la lettura della mia versione di Mrs Dalloway senza arrossire, senza rabbrividire, senza bisogno di trovare riparo. Woolf è stata ed è un punto fermo nella mia formazione, se per formazione intendiamo il lento farsi di sé nel tempo, come lettrice, come studiosa, come donna. Quando la casa editrice mi ha proposto di farne una nuova traduzione, sono tornata a Mrs Dalloway, letto in originale decenni fa, e più tardi nella traduzione di Nadia Fusini. Come innumerevoli altre lettrici, l’avevo molto amato. Ricordavo il lento fluire dei pensieri, la sobria tessitura di parole, i protagonisti – Clarissa Dalloway, Peter Walsh, Septimus Warren Smith – i loro spostamenti nelle strade di Londra in quel lontano 13 giugno 1923. Un solo giorno, un giorno qualunque, a pochi anni dalla fine del primo conflitto mondiale. Nel pallido sole primaverile, la città e le persone sembrano ritrovare una normalità dimenticata.
Ciò che non ricordavo – sommerso forse dalle interpretazioni – erano l’energia, il movimento. Tutto si muove in questo romanzo grandioso. La gente sui marciapiedi, le nuvole nel cielo, la bruma del mattino, gli omnibus le automobili e i carretti nelle strade, i pony e i bambini nei parchi, le luci alle finestre che via via si illuminano, i riflessi sull’acqua, i ricordi nella mente dei personaggi. Perfino le parole letteralmente si muovono, quelle che a nastro si srotolano dalla coda di un aereo, disegnando nel cielo uno slogan pubblicitario. Né ricordavo la quantità di rumori, di suoni, di voci che intervengono nel silenzio. E sono tante, le voci. Quelle che in ognuno riemergono dal passato, quelle che interloquiscono nei dialoghi, quelle che si inseguono tra le stanze la sera del ricevimento. É il brusìo della città, il fragore del bus su cui sale la giovane Elizabeth Dalloway, sono gli uccelli «che cantano in greco».
«In questo libro ho anche troppe idee. Voglio dare la vita e la morte, la saggezza e la follia; criticare il sistema sociale e mostrarlo all’opera, nel momento di massima intensità», scrive Woolf nel suo diario il 19 giugno 1923. E aggiunge: «Il disegno è così strano e possente. Devo continuamente forzare la materia per adattarvela. Vorrei scrivere e scrivere, a gran velocità, con accanimento». E io l’immaginavo, nel suo studio a Rodmell, concentrata su pagine bianche che a poco a poco si riempiono della sua scrittura, le pagine che io andavo rileggendo, abbagliata dalla forza cinetica, dalla molteplicità dei punti di vista, dalle libertà della lingua, dall’apparente arbitrio delle avversative e dei punti e virgola.
Come restituire tutto ciò, nel 2012, a nuove lettrici e lettori, e a quanti vorranno rileggere? E come accogliere le tracce di coloro che prima di me si sono cimentate con la traduzione di questo straordinario romanzo – Alessandra Scalero (1946) e Nadia Fusini (1993)? Leggendo e rileggendo, anch’io con accanimento, ho infine colto di alcune parole la natura di parole-chiodo, alle quali ho appeso via via tutto il resto. Ho fatto alcune scelte radicali, ma credo di aver reso giustizia alla visione di Woolf, al suo occhio grandangolare sulla realtà del suo tempo. Al suo orecchio che sembra cogliere ogni sfumatura di rintocchi silenzi baccano fruscio. Nello squillo prolungato dell’ambulanza – «Quella era civiltà» pensa Peter Walsh appena rientrato dall’India – ho letto tutta l’ironia con cui Woolf già nel 1925 coglieva la crisi dell’impero. «Eccolo quell’uomo fortunato, riflesso nel cristallo della vetrina di una casa automobilistica in Victoria Street. L’India intera si stendeva alle sue spalle, pianure, montagne, epidemie di colera, un distretto grande due volte l’Irlanda...». Alle spalle di Clarissa Dalloway mi è sembrato di scorgere un’ombra, un’ombra uscita da Chiara luce del giorno di Anita Desai. Non sono così lontani dal Tamigi i bagliori che tutt’a un tratto rischiarano gli argini della Yamuna a New Delhi. E al «crimine» che tormenta Septimus – «Sono stato morto, eppure adesso sono vivo» – mi premeva dare tutto il significato, l’insostenibile pesantezza che sappiamo, molte guerre dopo la guerra da cui lui tornava, molte paci dopo quella che una scienza medica violenta gli impedì di vivere.
Non esiste innocenza in questa lingua
ascolta come si spezzano i discorsi
come anche qui sia guerra
diversa guerra
ma guerra – in un tempo assetato....
La parola si spacca come legno
come un legno crepita di lato
per metà fuoco
per metà abbandono.
in Antonella Anedda, Notti di pace occidentale
Agota Kristof, tra i maggiori esponenti della letteratura francofona, è la nuova vincitrice del Kossuth, il più importante premio letterario ungherese. Tornata nella sua terra natale per la consegna del premio, l'autrice ha rilasciato questa intervista – pubblicata su Hlo.hu – in cui riflette su immaginazione e scrittura, linguaggio e traduzione.
Cos’ha provato quando ha saputo che avrebbe vinto il premio Kossuth?
Mi ha reso molto felice, perché è un premio ungherese – di solito i premi non mi interessano così tanto, diciamo che ne ho già ricevuti abbastanza. Quando i miei libri cominciarono a essere tradotti in ungherese per me fu un grande onore, ma non mi aspettavo che avrebbero suscitato tanta attenzione. In passato già due volte mi avevano annunciato che avrei vinto il Kossuth, ma non successe né la prima né la seconda volta. Così, quando mio fratello mi ha telefonato per darmi la notizia, immediatamente gli ho chiesto: «di nuovo?».
L’anno scorso a Budapest, durante una conferenza internazionale in cui lei era l’ospite d’onore, il poeta András Petőcz le ha domandato come è nata l’idea di scrivere in un’altra lingua. Lei ha risposto che si era resa conto abbastanza in fretta che, se voleva essere letta, doveva scrivere in francese.
Beh, certo, è questa la ragione per cui ho iniziato a scrivere in francese. In Svizzera non avrei avuto nessuna possibilità se avessi scritto in ungherese. Però ho continuato a scrivere anche nella mia lingua madre per un bel po’ di tempo, almeno cinque anni.
Nel suo romanzo Ieri, il protagonista – operaio in una fabbrica di orologi – dice che scrive nella sua testa, perché è più semplice; scrivere distorce i pensieri e alla fine, per colpa delle parole, tutto sembra venir fuori contraffatto. Quando ha scritto le sue prime frasi in francese, stava di fatto traducendo dall’ungherese? Il setaccio della traduzione rendeva le sue parole più precise? Più esatte?
Penso che questo rappresenti un problema per ogni scrittore. Non è possibile riuscire a esprimere esattamente ciò che intendiamo. Scrivere per me voleva dire anche cancellare tantissimo. Cancellavo in particolare gli aggettivi e le immagini che non appartenevano al mondo reale, concreto, ma che nascevano dalle emozioni. Ad esempio, una volta ho scritto: «i suoi occhi scintillanti». Poi mi sono detta: ma davvero scintillano? E ho cancellato l’aggettivo.
Però in Ieri ci sono molte cose che non appartengono al mondo reale. È un libro in cui sogno e realtà si mescolano in continuazione.
È diverso. Questi sogni sono solo in Ieri. Per descriverli ho usato molte delle mie vecchie poesie in ungherese.
Come è andata esattamente? Si è rimessa a sfogliare le sue vecchie poesie?
Non le ho «sfogliate». Le ho tutte in testa.
Quanto materiale non scritto c’è nella sua testa?
Non scrivo più, sono molto malata. Non è stata una decisione consapevole, è successo e basta. Semplicemente non me la sento, non ho più l’energia necessaria. Però ci sono ancora tanti temi che mi interessano, e su uno di questi ho cominciato a scrivere due anni fa. Ho tutto il libro in testa, praticamente è finito. È molto facile mettere sulla carta quello che ho immaginato. Così ho buttato giù un paio di pagine, ma mi sembrava di ripetere cose che avevo già scritto. Ho ricominciato, poi ho scritto il finale, diverse volte, alla fine ho lasciato perdere.
Ci sono autori che affermano di scrivere e riscrivere sempre la stessa storia, all’infinito.
Sì, in un certo senso è vero anche per me, ad esempio quando ho scritto il mio primo romanzo, Il grande quaderno, non pensavo che sarei andata avanti, che fosse possibile continuare. Ma poi semplicemente non ho potuto fermarmi, non potevo lasciare soli i gemelli, anche se provavo a scrivere un’altra cosa non riuscivo a immaginare nient’altro che i gemelli, di nuovo. Così ho dovuto scrivere il secondo libro, La prova. A quel punto ho pensato che fosse sufficiente, ma alla fine ho scritto anche La terza menzogna, perché non potevo raccontare nulla di diverso.
In L’analfabeta [pubblicato in Italia da Casagrande] racconta di aver imparato una lingua attraverso il corpo: nella fabbrica di orologi una donna le insegnava i nomi delle parti del corpo e degli oggetti attraverso il linguaggio corporeo. Quando si è accorta che il francese era ormai la sua lingua?
C’è voluto molto tempo, dodici anni direi, perché cominciassi a scrivere in francese. Prima ho tentato di capire come suonavano in francese le mie poesie ungheresi. Poi ho iniziato ad assemblare frasi, testi brevissimi, ma è accaduto tutto molto lentamente. Ho iniziato con i testi teatrali, perché è molto più semplice, basta indicare il nome di chi parla. Il mio non era un francese letterario, buttavo giù conversazioni in una lingua quotidiana, popolare. Ho terminato un paio di commedie, e qualcuno mi ha suggerito di mandarle a una radio. Hanno voluto lavorarci immediatamente, e ne hanno trasmesso cinque. Ho portato avanti quel lavoro per molto tempo, ho imparato le tecniche della scrittura radiofonica. Non riesco a ricordare come sono passata a scrivere romanzi. L’idea è arrivata e basta. Volevo raccontare di come io e mio fratello Jenő avevamo vissuto la guerra a Kőszeg. All’inizio i narratori eravamo io e mio fratello, ma le parole io e lui in francesce suonano talmente goffe. Così ho unito i pronomi e il narratore è diventato un noi – nous in francese – e non c’era più bisogno di dichiarare chi stesse parlando. Ecco come è nata la voce di questo libro [si riferisce a Il grande quaderno, N.d.T.].
Non si tratta di un romanzo completamente autobiografico, ma contiene molti episodi veri. Ad esempio la deportazione degli ebrei da Kőszeg. Io l’ho vista. C’era un campo a Kőszeg, abbiamo visto gli ebrei che marciavano in fila davanti alle nostre case. La nostra domestica si è avvicinata per porgergli del pane, ma poi l’ha riportato indietro. Questo è il genere di cose che notavo, avevo dieci anni. Ci sono molte cose, in quel romanzo, che non sono capitate a me direttamente, ma a dei miei amici. Quando arrivarono i russi, capitava che ci nascondessimo sulle colline. Una volta la madre di una mia amica aveva un neonato in braccio, è inciampata ed è caduta sopra il neonato, e la mia amica ha assistito alla scena. Nel romanzo ho inserito cose come queste, non mi interessava che fosse completamente autobiografico. Ci sono molte storie che riguardano Kőszeg.
Torna a Kőszeg ogni tanto?
Sì, e la trovo diversa a seconda dei momenti. Qualche volta mi sembra una città nuova, con le case restaurate e imbiancate. Un paio d’anni dopo la trovo in rovina, le case sembrano quelle di cinquant’anni fa. Ma ora non ci vado più, non ne ho la forza.
A casa parlava ungherese con la sua prima figlia, ma non con i due figli che sono arrivati dopo. Come mai?
Anche con lei non ho usato l’ungherese a lungo. Adesso è mio figlio che parla questa lingua, perché ha una fidanzata ungherese, così spesso lo usiamo anche tra noi, ma lui ha trentotto anni e prefersice parlare in inglese anche con la sua fidanzata. Quella di non insegnare l’ungherese ai ragazzi non è stata una vera e propria scelta, è andata così. Per via dell’ambiente in cui viviamo. Anche il mio secondo marito parlava francese, possiamo dire che non volevo confonderli. Ma forse avrei dovuto. Me ne sono un po’ pentita. Adesso mia figlia vuole che parli ungherese al mio ultimo nipotino, che ha due anni. Ho paura che non mi capisca, che questa cosa possa allontanarlo da me. Conosce le parole igen e nem (sì e no) e gli ho regalato un orsacchiotto che resta ad aspettarlo a casa mia, e lui sa che in ungherese di chiama mackó. Ma sento che è perplesso quando gli parlo in questa lingua.
Parlando di lei, Esterházy ha scritto: qualcuno guarda da lontano ciò che noi stiamo guardando da qui...
Sì, mi ricordo questo articolo, Esterházy fu il primo a parlare del mio libro. Ci siamo incontrati una volta. Questa frase può essere in parte vera, ma io non volevo scrivere un romanzo storico, non era il mio obiettivo, io volevo solo raccontare la mia infanzia.
Legge i suoi libri tradotti in ungherese? Cosa prova nel vedere i suoi testi scritti nella sua lingua madre? Ha detto che era difficile mettere insieme le frasi in francese, adesso come suonano in ungherese?
Sì, ricevo sempre le traduzioni, e do sempre un’occhiata, ma mi infastidiscono. Non mi piace leggerle. Ci sono così tante traduzioni dei miei libri che non riesco più a seguirle, a volte non riconosco neppure il mio nome stampato sulla copertina, come nel caso delle traduzioni giapponesi, cinesi o coreane, non so neppure cosa c’è scritto in quei libri. Non ho idea di quanto di ciò che scrivo arrivi ai lettori, ma certo i miei libri hanno successo, anche in Giappone e in Russia. Mi hanno invitato a San Pietroburgo diverse volte, ma non credo che ce la farò. I cinesi hanno tradotto tutto, ma non hanno pagato un centesimo (ride). Hanno detto che c’era un problema con il cambio, o qualcosa del genere, ma non mi interessa. Una cosa che mi interessa, invece, è che le mie vecchie poesie ungheresi saranno presto pubblicate in un’edizione bilingue. Ne sono davvero felice. Ho appena firmato un accordo con un editore di Ginevra, un traduttore ungherese tradurrà le mie poesie in francese.
E il regista János Szász sta lavorando a un adattamento cinematografico da Il grande quaderno. Che ne pensa?
È la cosa più bella che mi sia capitata ultimamente. János Szász mi manda delle parti di sceneggiatura, di tanto in tanto. Lui mi piace molto, i suoi film sono molto forti, e sono sicura che non rovinerà Il grande quaderno come ha fatto quel regista italiano con il film tratto da Ieri [si riferisce a Brucio nel vento di Silvio Soldini]. Quello è stato un totale pasticcio. Hanno cambiato il finale.
Ma perché? Una delle cose più belle di Ieri è che non è una storia a lieto fine.
Beh, nel film invece sì. Ho discusso a lungo con il regista e gli ho detto che non doveva finire in quel modo, ma lui diceva che altrimenti il pubblico avrebbe abbandonato la sala, perché le persone vogliono stare bene, vogliono essere felici. Il film di Szász sarà tutta un’altra cosa.
Per gentile concessione di Dóra Szekeres e Hungarian literature online.