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Stalin e il patriarca
La travagliata relazione tra totalitarismo sovietico e cristianesimo ortodosso nell'era di Stalin.
Il libro
In Unione Sovietica il potere comunista fece del credo antireligioso uno dei suoi cavalli di battaglia: l’«uomo nuovo» vagheggiato non avrebbe dovuto nutrire alcuna fede religiosa, né essa avrebbe dovuto occupare alcun posto nella società e nell’organizzazione dello Stato sovietico. Ma la seconda guerra mondiale avrebbe cambiato molte cose, e Stalin avrebbe imparato a gestire in modo molto piú sofisticato il suo rapporto con la Chiesa ortodossa. Una storia complessa e ricca di implicazioni, ricostruita con esattezza di dettaglio e ampio uso di fonti originali sovietiche.
Nella notte tra il 4 e il 5 settembre 1943 Stalin ricevette al Cremlino i tre metropoliti che assicuravano il governo della Chiesa ortodossa russa. Fu un incontro sorprendente. Il leader sovietico nei decenni precedenti aveva scatenato una persecuzione implacabile nei confronti degli ecclesiastici e dei fedeli ortodossi. I tre vescovi erano dei sopravvissuti all’offensiva antireligiosa consumatasi nel quarto di secolo precedente a quel colloquio.
Nel corso di una lunga e cordiale conversazione Stalin espresse il suo consenso all’elezione di un patriarca a capo della Chiesa russa. Dal 1925, infatti, la sede patriarcale era vacante, per il rifiuto del potere sovietico di autorizzare la Chiesa a eleggere un suo nuovo capo. L’8 settembre 1943 il metropolita Sergij (Stragorodskij) fu eletto patriarca di Mosca e di tutte le Russie.
Cosa aveva determinato questo cambiamento della politica religiosa sovietica? Quali erano le radici profonde di questa nuova alleanza tra Chiesa ortodossa e regime?
E perché Stalin aveva deciso di far rinascere il patriarcato?