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Tragedie. I.
Il libro
Uno dei motivi dominanti la discussione sul teatro nel Settecento italiano fu la reciproca differenza tra scrittori drammatici e compagnie comiche. Il Nelli, il Martello, l’Albergati Capacelli, il Pepoli, il Calzabigi, per citarne solo alcuni, discutono amaramente sull’ineducazione degli spettatori, sull’incertezza e l’ignoranza dei comici. Altri scrittori tragici affrontano il problema con diverso impegno pragmatico (si pensi a Scipione Maffei): e tra costoro, Vittorio Alfieri si distingue per un taglio prospettico tutto particolare, che dalla semplice lettura d’autore dei testi drammatici (cui concorressero “dodici o quindici individui”, un “semi-pubblico” comunque preferibile al pubblico vero, “sempre misto di uomini e di donne, di letterati e d’idioti, di gente accessibile ai diversi affetti e di tangheri”) trascorre alla recita in proprio di alcune sue tragedie (dall’Antigone a Roma al Filipppo nella casa fiorentina sul Lungarno) sino all’addestramento di una propria compagnia, come nel caso della messinscena del Saul, ancora a Firenze, nel 1793, in cui drammaturgo, “regista” e protagonista coincisero nella sua persona.La scelta e la presentazione di Luca Toschi delle cinque tragedie racchiuse in questo volume – Filippo, Antigone, Agamennone, Oreste, Ottavia -, l’introduzione e l’appendice approntata da Sergio Romagnoli si unificarono a questo disegno critico, originale e ad un tempo assai fondato: la storia del teatro alfieriano come itinerario dell’ideale al reale, dall’utopia di un teatro fututo, perfetto e irragiungibile, alla prassi di un teatro presente, che esalta la dignità della parola, del verso, del personaggio.