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Teatro
Il libro
Cechov tratteggia il suo teatro come un diagramma di incontri, di separazioni, di addii. L’arrivo della Ranevskaja riempie di gaio frastuono il giardino assonnato; l’apparizione di Versinin riaccende nelle tre sorelle il miraggio di Mosca. E, al contrario, quanta mestizia avviluppa le partenze finali. In Tre sorelle l’autunnale sconforto delle scene in cui si accomiatano gli ufficiali della brigata sembra riassumersi nelle parole di Rode “Addio, eco!”. Come se i personaggi si fossero assottigliati a larve vocali, a diaframmi impalpabili. Nel Giardino dei ciliegi, dopo aver orchestrato la progressione confusa dell’abbandono, l’affaccendarsi e il tramestio dei congedi, Cechov spegne di colpo ogni rumore, portando sul palcoscenico vuoto il vecchio Firs, il maggiordomo, dimenticato come un oggetto inutile, come l’armadio di cui Gaev ha tessuto le lodi: Firs, annoso guardiano d’una casa deserta, simile al decrepito custode della cripta nel dialogo di Kafka. La vanità degli effimeri sconvolgimenti conferma che il ritmo dell’esistenza è immutabile. Dopo un po’ di fragore, ogni cosa riprende il suo ordine pigro, la vita torna sempre ad un punto come un disco sgraffiato (…)Il dileguare della bellezza, l’automatismo dei gesti, il torpore ritmato dal battere dei guardiani, gli abbandoni lirici, il fitto intersecarsi di cadenze discordi, le pause: tutto questo concorre ad esprimere l’inesorabile, immenso fluire del tempo. Poiché ciascuna figura si inserisce nel dialogo con un suo motivo autonomo e dissonante, con un suo soliloquio, ogni commedia (e in specie Tre sorelle) è un alveare di temi, un formicolio di motivi, che si susseguono e scalzano senza nesso apparente. Un tema, appena accennato, dissolve in un altro, che sfuma subito anch’esso, lasciando un amaro residuo, un alone di malinconia. In altre parole: ogni commedia è una folta sequela di eterogenei pezzi semantici, affiancati meccanicamente, un aggancio di battute difformi che si contrappongono, come nei […]