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Cento giorni
David Hohl, uno svizzero tranquillo. Nel 1990 parte per il Ruanda, per aggregarsi a un importante progetto di cooperazione. Nel panorama africano, il paese è una positiva anomalia con allevamenti di bestiame, con programmi di riforestazione, con una situazione politica tutto sommato stabile. La collaborazione funziona, i risultati non mancano.
Il libro
Ingenuo e idealista, Hohl stenta a comprendere una realtà radicalmente altra, un universo enigmatico, talvolta minaccioso e in ogni caso non valutabile in base ai parametri occidentali. Nel rapporto con l’affascinante Agathe, una donna dalla sensualità dirompente, intuisce forse di trovarsi di fronte a questo baratro di incomprensione. Ma non è sufficiente: nonostante tutte le avvisaglie, nei quattro anni che trascorre nel paese non si rende conto della tragedia che si sta preparando. E così scivola, quasi impercettibilmente, in un incubo: quando, nella primavera del 1994, ha inizio il massacro, cerca di tenere i contatti con la donna – che con gli anni ha maturato una sua coscienza politica e muore di colera in un campo profughi -, non parte con gli altri occidentali, per cento giorni rimane recluso nella sua abitazione e diventa così testimone e in qualche modo complice del genocidio che costò la vita a quasi un milione di persone.
«Negli anni seguenti ho cercato di tenere lontano dalla mia vita ogni turbamento e solo a volte, quando ascolto la tanta gente arguta e leggo i tanti libri intelligenti che da allora sono stati scritti su quel periodo, allora cerco il mio nome nell’indice analitico, e il nome del piccolo Paul, sotto Direzione della cooperazione allo sviluppo e dell’aiuto umanitario, e quando eccezionalmente li trovo, al massimo c’è scritto che eravamo lì e forse anche che abbiamo investito in quel paese più soldi di tutte le altre nazioni. La nostra fortuna è sempre stata che in ogni crimine in cui era coinvolto uno svizzero ci fosse sempre di mezzo qualche farabutto più grosso, che attirava su di sé l’attenzione e dietro il quale potevamo nasconderci. No, non appartenevamo a quelli che commettevano bagni di sangue. Erano altri a farlo. Noi ci sguazzavamo dentro. E sapevamo perfettamente come bisognava muoversi per restare a galla e non affondare in quella salsa rossa».