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Requiem
Oh padre padre, patria del mio cuore,| per tanto tempo solo col tuo male,| per giorni e giorni e notti di terrore,| come in una sequenza cerebrale| ti vedo, solo, solo e senza amore,| annegare tacendo nel tuo male| tra chi sa e capisce e non sa amare| e chi non sa capire, e non sa amare.
Il libro
Non molti dei suoi non pochi lettori sanno che al centro della poesia di Patrizia Valduga, nel punto più esposto e al tempo stesso più segreto della sua ispirazione c’è questo libro da tempo introvabile, pubblicato per la prima volta nel 1994 e che dopo di allora ha continuato ad essere scritto, o meglio a scriversi, praticamente senza sosta, come se fosse impossibile, per l’autrice come per chiunque altro, mettergli davvero e per sempre la parola fine. Da anni, anno dopo anno, Requiem costruisce e decostruisce di continuo, in una sorta di estatica, lancinante immobilità quella che Luigi Baldacci ha definito “la cronistoria di un’agonia e di un’angoscia, del padre e della figlia: una morte riguardata dalle ultime trincee della vita”; una cronistoria in cui “niente è lasciato alla sfera della metafisica, tutto si riporta all’immanenza, al concreto”. E mai, forse, come in queste ottave vertiginosamente spoglie, dettate o scaturite da un’insaziabile “fame di concretezza fonica”, Patrizia Valduga – “questa donna singolare, funebre, passionale” (sono parole di Alfonso Berardinelli) “che ha fatto irruzione nella poesia italiana degli ultimi vent’anni come una creatura aliena e insieme come una figlia in lutto da sempre attesa” – è stata tanto vicina alla più alta, alla più ardua delle mete che un poeta possa sperare di raggiungere: la semplicità.