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Spazi vuoti
«Adesso ogni cosa è via, e lí
è tutto un susseguirsi di spazi
vuoti, come se un folletto
maligno avesse eliminato tutto
quello che io adoravo»
Conclusione della trilogia autobiografica iniziata
con Le nozze in casa, Spazi vuoti (1985) racconta
gli anni tra il '63 e il '73, la nouvelle vague praghese,
il successo letterario, e poi i carri armati sovietici,
i libri mandati al macero, l'abbandono forzato
della vecchia casa e il trasloco in un anonimo palazzo
di periferia. Attraverso la voce della moglie Pipsi,
Hrabal si mette a nudo rivelando ciò che si nasconde
dietro la maschera dello sbruffone da osteria: le sue
piccole vigliaccherie, il narcisismo, l'amore per i gatti,
la paura delle malattie e il terrore della morte.
Finora inedito in Italia, l'ultimo tassello
dell'autobiografia di uno scrittore-personaggio
negli anni più belli e più drammatici del suo Paese.
Il libro
Non stupisce più di tanto la non coincidenza tra narratore (al femminile: la moglie Pipsi) e autore, così come anche il fatto che il personaggio attorno a cui ruota la narrazione sia spesso Pipsi stessa e le sue vicende familiari: questo conferma solo l’ipotesi di un’autobiografia in realtà «doppia», contribuendo anche ad accrescere quel senso di sfasamento tra realtà e finzione che è in tutte le autobiografie romanzate. Del resto, a partire dagli anni Settanta Hrabal aveva già sperimentato diverse forme di voce narrante straniata, e questo a cominciare dallo sguardo infantile del narratore nella Cittadina dove il tempo si è fermato per arrivare fino alla narrazione per bocca della madre dello scrittore nella Tonsura e nei Milioni di Arlecchino. Quello che invece stupisce di più è il «taglio», l’angolo visuale che spesso cancella dalla scena figure che sappiamo essere presenti nelle sequenze narrate. Ma del resto lo stesso Hrabal aveva difeso quel suo diritto a una «lettura diagonale»: «con quel metodo io seleziono dal mio passato le immagini lì sepolte, immagini che mi sorprendono come le frasi e le parole dadaiste tirate fuori dal cappello surrealista». dalla prefazione di Giuseppe Dierna