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Vuoi star zitta, per favore?
Con l'uscita nel 1976 di Vuoi star zitta per favore, la prima raccolta di Raymond Carver, s'imprimevauna svolta irreversibile nell'idea di short story e, presto, nell'intero panorama letterario americano.
Già all'indomani della pubblicazione, lo scrittore Geoffrey Wolff commentava dalle pagine del New York Times: «Mi piace credere che, avendo letto questi racconti, potrei identificarne l'autore sulla base di un solo paragrafo, due al massimo», e l'unicità di quella combinazione di temi e stile rimane a tutt'oggi insuperato modello e pietra di paragone.
Il libro
I soggetti dei ventidue racconti contenuti in questa prima raccolta di Raymond Carver sono già gli stessi di sempre: uomini e donne sull’orlo, o già al di là, della perdizione, disoccupati, alcolisti, gente incapace di creare e mantenere rapporti sentimentali veri e solidi.
Ma, mescolato al disincanto con cui Carver sa raffigurare alienazioni e mancanze, spunta qui e là un tratto più emotivo, passionale, in qualche caso un dettaglio erotico o comico. In una parola, una qualità affettuosamente «umana».
Nel racconto Collettori, ad esempio, l’inattività un po’ angosciosa di un disoccupato che in una giornata piovosa guarda con una certa apprensione fuori della finestra di casa temendo la comparsa di collettori delle tasse, è interrotta dall’arrivo inaspettato di un venditore ambulante di aspirapolvere, un altro genere di «collettore» – un po’ avanti negli anni, grasso, raffreddato, stanco, a sua volta una figura di perdente sociale – che, con il pretesto di una pulizia gratuita di moquette e materassi, si introduce in casa e, sordo alle timide proteste del disoccupato, si mette al lavoro. Giunto in camera da letto, bastano poche righe, un solo sguardo, – «Non c’era altro che un letto e una finestra. Le coperte erano ammucchiate sul pavimento. Sul materasso c’erano solo un lenzuolo e un cuscino. Si è messo a fissare il materasso, poi mi ha lanciato uno sguardo con la coda dell’occhio. Sono andato in cucina e ho preso la sedia. Mi sono seduto sulla soglia e mi sono messo a guardare» – ed è come se i due si vedessero davvero per quello che sono, un disoccupato solo, forse lasciato dalla moglie, e un anziano venditore porta a porta senza prospettive, e sembra crearsi una solidarietà o almeno una comunanza fugace ma limpida. È una comunanza per nulla glorificata, per nulla lirica o solutrice. Dura poco, è imperfetta, un po’ opportunista, non consola, anzi, è quasi sempre tragica, ma è perfettamente umana.
Come tragicamente umane sono la lontananza e la bieca prevaricazione raffigurate in Loro non sono tuo marito, dove Earl, un rappresentante senza occupazione, costringe la moglie Doreen a una dieta estenuante dopo aver ascoltato, nel ristorante dove lei lavora come cameriera, i commenti impietosi di due avventori sulle sue forme. C’è meschinità nella vergogna provata da Earl, c’è crudeltà nel trattamento che infligge alla moglie nell’assurda speranza di sanare il proprio orgoglio ferito. E nella risposta data da Doreen a chi le chiede chi sia quel buffone seduto fra i tavoli – «È un rappresentante. È mio marito», la laconicità dei due sostantivi, il loro ordine – c’è tutto Carver.