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Passaggio in Alaska
Un viaggio per mare sulla scia delle canoe indiane e dei vascelli dei grandi esploratori. In barca a vela da Seattle a Juneau, Raban esplora la costa nordamericana nei meandri di isole e insidiosi
bracci di mare, e ne racconta le leggende e i pericoli.
Un'avventura che diventa per il moderno navigatore un «rito di passaggio», portando con sé esperienze che lo cambieranno nel profondo.
Il libro
Dopo il Montana di Bad Land, il paese «a mille miglia dall’oceano più vicino», Jonathan Raban riprende la sua esplorazione dell’America meno conosciuta affrontando proprio l’oceano, o meglio il Passaggio Interno, quel dedalo di bracci di mare che si estende dall’estremo Nord-ovest degli Stati Uniti all’Alaska, lambendo la costa occidentale del Canada.
Raban naviga sulla scia della spedizione britannica del capitano Vancouver alla fine del XVII secolo, dei pescherecci supertecnologici che mettono a rischio la sopravvivenza dei salmoni, dei missionari e degli antropologi ottocenteschi, delle tribù che fino a un secolo fa costituivano la civiltà indigena più artisticamente prolifica del Nordamerica, custode di una letteratura orale ricca e di un immaginario figurativo misterioso come i riflessi dell’oceano.
Attraverso lo specchio deformante dell’Alaska, l’ultima frontiera, terra dello sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali e dei miraggi di arricchimento facile, delle città che nascono e muoiono nell’arco di una generazione e degli orsi che frugano nei bidoni dell’immondizia, Raban ci offre un ritratto dell’America pieno di contraddizioni e di fascino.
«Il mare mi fa paura. Mi fa paura il crepitio da incendio nel sottobosco delle onde che si frangono trasformandosi in schiuma; il risucchio intimo del gorgo della marea; l’apparizione dell’oceano che si gonfia, sinistro e scuro, nella calma senza vento; la maretta, il mulinello, la corrente; la semplice profondità abissale dell’acqua, quando galleggi come uno scarabeo fiducioso su una superficie in tensione.
In mare la razionalità mi abbandona. Ho visto il cipiglio sprezzante e ostile di un’onda staccatasi dal branco per colpire la mia barca. In due occasioni ho giurato davanti a Dio che non sarei mai piú uscito in mare purché Egli, solo per quella volta, mi avesse concesso di arrivare in porto. Non ho il mare nel sangue; sono un marinaio timido, timoroso, cerebrale. Non mi sento mai tanto fuori dal mio elemento come quando sono in mare.
Ciò nonostante, negli ultimi quindici anni, avevo passato a galla ogni giorno libero che riuscivo a strappare al calendario, in una condizione di rapimento che non diminuiva mai: rapito dal mare, dai suoi movimenti e dai suoi significati».