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Quindici stanze per una casa
Il libro
Questo libro si apre col misterioso arrivo di un gruppo di persone in una città d’acqua, di sotterranei e di solai, con una morte sospetta, col furto di carte e fogli, di cui la memoria dovrà ricostruire il contenuto. Per farlo, il narratore che qui parla racconterà quindici storie, comprese quelle che in testa e in coda incorniciano il libro. Sono storie visionarie e però anche descrittive fino alla mania; anzi è forse questa una delle rare volte in cui l’elemento onirico e notturno convive con una minuziosa precisione e aderenza all’oggetto. Perché è prima di tutto degli oggetti e dei dettagli che qui si narra (come in un Perec più stilista, più gaddiano), àncora salvifica del ricordo, attorno al quale si sviluppano i gesti e le abitudini e le storie, il costruire e l’aver cura, l’attenzione, l’arte, un pensiero di sé, un pensiero degli altri. Che sia “La casa del Sole nascente”, di cui si traccia la storia immaginaria da stazione nel culto di San Giacomo di Compostella a cinemetto hardcore, o quella dell’allevatore di cavalli Van der Poleg, o la misera avventura dei bracconieri dei cigni, o il cinese pescatore sul lago ghiacciato, oppure il lurido uomo-topo infestatore incontrato sul treno, ogni racconto si genera intorno a dei particolari: dai cubetti di ardesia delle strade agli ascensori Stigler, ai modi per curare o scannare gli animali. E da questi muove per rintracciare un’etica del fare, o del distruggere. In questo modo Arduino Cantàfora compone le sue “stanze”, nel doppio senso poetico e architettonico della parola, fino ad ultimare la sua “casa”. Lo fa con una scrittura iperlinguistica, onnivora, altera e malinconica, che macina tutti i materiali, dalla canzone blues alla trattatistica fisiognomica settecentesca, appassionatamente ripercorse o reinventate. Fino alla soglia del finale, dove il mistero si svela nella sua natura più profonda e accorata, e la città di cui si parla appare col suo nome, e il delirio delle storie si contrappone al […]