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Lotta di classe
Questo è un libro in cui perdersi. Un saliscendi di storie, su e giù per le scale di un condominio di periferia. Sono torrenti di voci che corrono verso un burrascoso racconto corale, una miscela irripetibile di affabulazione, politica e poesia.
Il libro
«Io passo attraverso i muri. Attraverso le villette antiladro controllate dagli allarmi antizingaro, protette da inferriate antinegro con vernice antiruggine dove antipatici padroni antisemiti con crema antirughe fanno antipasti antiallergici in bunker antiatomici. Attraverso le banche videosorvegliate. Attraverso i muri delle caserme, dei manicomi, delle galere.
E mi viene da ridere mentre una guardia prova a fermarmi, perché attraverso anche lei con la sua divisa.
Lei che si girerà dicendo: – Brigadiere,che facciamo? Questa è stregoneria!
E io le risponderò: – No, questa è lotta di classe».
«Chi ha detto che il tempo è denaro? Un filosofo, un banchiere o un orologiaio?» Se ne vanno a rotta di collo le giornate di Marinella e Salvatore, di Nicola e della signorina Patrizia. Le giornate di chi fa dieci lavori tutti precari e ha l’impressione di vivere a mezz’aria, «pisciando in corsa come i ciclisti al giro d’Italia». Perché se è vero che il tempo è denaro, il loro tempo dev’essere denaro di qualcun altro.
Vivono tutti in un condominio fuori dal Raccordo Anulare, cinque piani di vite arrangiate fra il centro commerciale e il gigantesco call center. Dietro alle spalle ci stanno i padri, con i loro ricordi di guerra e le loro sicurezze appiccicate alla poltrona, «la perseveranza del mondo contadino dentro allo stupro urbanistico palazzinaro». E nel presente c’è l’insensatezza di un tempo bloccato, apparecchiato e inutile come la casetta di Barbie.
Nelle quattro storie che s’intersecano dentro questo libro se ne raccolgono un’infinità di altre, per raccontare l’energia, la delusione e la rabbia di una generazione, ma anche la fantasia e la passione, la voglia di cambiare. Di ribellarsi. Di riposarsi. Di ricominciare.
«Mi spogliavo e mi sentivo leggera. Avrei continuato a spogliarmi, se fosse stato possibile. Mi sarei sfilata la pelle come un cappotto e l’avrei appesa a una stampella. A scuola c’insegnano che abbiamo quattrocento muscoli: me li sarei tolti uno per uno come fazzoletti sporchi dentro alle tasche. E le ossa? Solo nel piede ce ne stanno cinquantadue. E io le avrei messe in un secchio al lato del letto. Anche le vene le avrei tirate via, raggomitolate e messe in un cassetto. E poi la stanchezza che mi pesava come un maglione, e tutti i pensieri che c’avevo addosso».