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La ragazza perduta
Questa è una bellissima storia d'amore.
Definito da Geno Pampaloni, al suo apparire, uno dei racconti
più intensi e memorabili del Novecento, La ragazza perduta
è il ritorno prezioso di un testo salutato dalla critica come un
capolavoro. Per questo motivo riproporlo ora, in una riscrittura
dell'autore, s'impone con la forza dirompente delle cose necessarie.
Il libro
«L’ultimo colloquio al telefono dunque rovesciò le nostre vite: per accumulo, per eccesso, quasi che esse potessero cambiare solo traboccando. Zezi poi asserí, magari velleitariamente, che era stato come il sussulto piú luminoso d’una lampadina prima che si fulmini. A voler chiamare luce l’infelicità, o addirittura la violenza, e buio l’assestamento raggiunto fra noi».
Un racconto: l’insolito regalo di compleanno di un marito a una moglie che lo accusa di non amarla più. Quando scende la sera, e fa freddo fuori e dentro, alla luce blanda di una lampada un uomo «quasi vecchio» legge alla sua compagna una storia d’amore che ha appena finito di scrivere per lei, nel tentativo di ritrovare l’intesa d’un tempo.
Torna così un inverno lontano e insolitamente nevoso, quando un giovane magistrato all’inizio della sua carriera arriva dal continente su un’isola. Là, dentro una precaria camera d’affitto, gli tocca smaltire insieme alle carte processuali la noia della solitudine. Ma una sera la telefonata di una sconosciuta increspa la calma triste e piatta di quello scenario. Sembra un errore, uno scherzo, e invece è l’inizio di una relazione.
Chi lo chiama è Zezi, una diciassettenne buffa («una squaw bambina»), persino bella e a suo modo infelice: d’una «fragilità impudica ». Insiste a cercarlo, serenamente sfacciata, con la sua voce puerile ma di contralto; e presto il magistrato non riesce a fare a meno di quelle telefonate. S’imbatte allora in una realtà sconosciuta, che è già amore, anche se il nome gli verrà solo più tardi; una zona inesplorata di sé nella quale si perde, costretto a fare i conti con la propria vita, in bilico tra le rigidità della professione e le imprudenze frivole (le assennate follie?) della ragazza. Ma cosa cerca Zezi? Perché vanta amori di ogni genere e con indecenza soave si dà della puttana? Forse per recuperare qualcosa che ha perduto, che non ha mai avuto? Per mitomania? O soltanto per civetteria? Che si tratti di bisogno di protezione o di malizia, lei gli propone un fidanzamento, però condizionato. Così il giudice prende a frequentarne ogni giorno la villa, Villa Mimosa, imparando da un vecchio grammofono lo strazio dei tanghi argentini e la Pavane di Ravel; ma dopo non sta ai patti: come se d’improvviso si fossero scambiati innocenza e corruzione, in un gioco delle parti che è la dolorosa fine d’ogni gioco. Segue un anno di sospensione e silenzio, poi la storia si ripete: lo squillo di una telefonata sembra riaprire il ciclo. Ma l’emozione che ne deriva è una vertigine dissolta in un attimo, «come nei sogni di chi crede di stare su un precipizio e invece si ritrova sopra un qualsiasi gradino». Come se una nuova cognizione del dolore avesse d’un tratto cancellato quella strana passione, lasciando solo uno sconforto cocente degli altri e di sé.
Quella di Mannuzzu è una scrittura che s’impregna di dolore, malinconia, sbigottimento.
Un perimetro di tensioni e passioni, dove tutto procede per sottili trapassi, in una prosa fitta di dialoghi, stranita e colma di risonanze.