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Fui chiamato dal presidente
Il libro
Questo romanzo è un ritratto dell’Italia democristiana, ai nostri giorni, disegnato nelle pieghe d’una vicenda che si svolge fra i corridoi e le ricche e tetre stanze d’un’azienda di stato. Raramente ci era accaduto di incontrare, in un romanzo, l’immagine d’una zona del mondo attuale così viva e così veritiera, di respirarne l’aria, di osservarne i connotati e i contorni tanto esattamente e da vicino. Dicono che i romanzieri, oggi, si astengono dal raccontare il presente. E infatti spesso, leggendo dei romanzi, abbiamo la sensazione di passeggiare per giardinetti ben custoditi, curati e ravviati, e immersi in un’atmosfera senza tempo. Questo romanzo è pensato e generato nel presente, imbevuto e impregnato di fatti che avvengono oggi, e nulla vi si scorge che non appartenga al presente, nulla che sia situato al di fuori o al di sopra dei giorni in cui stiamo vivendo. Non esiste, qui, il passato, e non esiste il futuro. Gli odori e i colori del presente ci sono offerti con una strana, arida forza. È un romanzo scritto male, e tuttavia ci rendiamo conto che non potrebbe essere scritto in un modo diverso, che questo stile insieme studiato e rozzo è il solo che sia congeniale e strettamente aderente sia alla vicenda, sia ai luoghi, sia alla comunità umana qui rappresentata. Lette le prime righe, non riusciamo ad abbandonarlo, eppure ci ispirano, personaggi e luoghi, un acuto ribrezzo, e ci sembra di essere caduti in una sorta d’inferno, dove non c’è però ne disperazione, ne gloria. È un romanzo appassionante e ripugnante. È il romanzo di uno scrittore. Non è stato scritto per caso o per un capriccio mentale, ma per un’assoluta necessità. E solo a uno scrittore è dato penetrare così a fondo nell’intimità d’un ambiente e d’una vicenda, e riportarne le folate fetide, l’atmosfera corrotta e fredda, le fisionomie degli esseri che vi dimorano, miserevoli, o grottesche, o abbiette, o infami.
Natalia Ginzburg