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Scrittori giocatori
Dante Alighieri orchestra incontri e trasformazioni di suoni.
Primo Levi esplora con palindromi e anagrammi la chimica del linguaggio.
John Cage attraversa l'opera di James Joyce come un micologo in un bosco, ricostruendo frammenti di nomi.
Il libro
Giampaolo Dossena diventa scrittore catalogando e ideando nuovi giochi. Marcel Proust nasconde in punti lontani della sua opera le tessere di un puzzle calligrafico. Vladimir Nabokov gioca a giochi di mondi-parola (world games). Carlo Emilio Gadda come Nabokov riscuote un’attenzione intermittente. Raymond Queneau gioca con le regole del gioco e indica la via per diventare «scrittoranti». Italo Calvino fa un anagramma, senza saperlo, e si accanisce in piú di un solitario, senza risolverlo. Gianni Celati insegue le segrete prosodie del parlato. Roland Barthes è ricordato all’incrocio fatale tra écriture e società della comunicazione. Alberto Arbasino inventa la post-parolaccia, nella vertigine cronologica del suo romanzo maggiore. Alighiero Boetti compone cruciverba, palindromi, rebus e crittografie in una sua personale enigmistica della figurazione. Giuseppe Pontiggia ribalta le pedine su una lucida scacchiera. Truman Capote perde alla roulette americana. Don DeLillo gioca a baseball con la Storia e i suoi segreti. David Foster Wallace, grande e audace scrittore, dall’alto di una caricatura esposta su un palco assiste alla celebrazione sua e del gioco che ha portato all’infinito.
«L’arbitro sussurra Giocate Per Favore. Si può dire che noi giochiamo. Ma in un certo senso è tutto ipotetico. Perfino il “noi” è teoria: non riesco mai a vedere bene l’avversario, per via di tutto l’apparato del gioco» (David Foster Wallace, Infinite Jest). In Infinite Jest il tennis, «questo infinito sistema di decisioni e angoli e linee», viene visto come un ibrido dei due giochi a cui assomiglia di piú, gli scacchi e il pugilato: aggiunge la forza fisica agli scacchi, sottrae il contatto diretto dei corpi al pugilato, ma abbina la geometria di quelli alla violenza di questo. Come entrambi sfugge alla statistica. Il teorico del tennis ne dà una versione a sua volta mediata da matematica e psicoanalisi: è l’anziano e temibile Gerhardt Schtitt, capo degli allenatori e dei preparatori atletici dell’accademia. L’essenza del suo insegnamento è questa: «Il vero avversario, la frontiera che include, è il giocatore stesso. C’è sempre e solo l’io là fuori, sul campo, da incontrare, combattere, costringere a venire a patti. Il ragazzo dall’altro lato della rete: lui non è il nemico; è piú il partner della danza. Lui è il pretesto o l’occasione per incontrare l’io. E tu sei la sua occasione. […]. Scompari dentro al gioco: fai breccia nei tuoi limiti: trascendi: migliori: vinci. […] È tragico e triste e caotico e delizioso. E tutta la vita è cosí, come cittadini dello Stato umano: i limiti che ci animano sono dentro di noi, devono essere uccisi e compianti, all’infinito».