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Il conte di Montecristo
Le grandi traduzioni
«La cosa decisiva è che, nel tradurre, si cerchi di uscire
dalla propria lingua verso quelle altrui e non il contrario,
che è ciò che si suol fare».
José Ortega y Gasset
***
«Il conte di Montecristo è senz'altro uno dei romanzi
piú appassionanti che siano mai stati scritti
e d'altra parte è uno dei romanzi piú mal scritti
di tutti i tempi e di tutte le letterature».
Umberto Eco
Il libro
***
Ha centosettant’anni, ma non perde un colpo. Pubblicato a puntate fra l’agosto 1844 e il gennaio 1846 sul «Journal des Débats», mentre Dumas lo stava ancora scrivendo (con l’aiuto di un ghost-writer, Auguste Maquet), senza sapere nemmeno lui come l’avrebbe concluso, e intanto metteva in cantiere altri due o tre romanzi, Il conte di Montecristo ha lasciato, e lascia tuttora, col fiato sospeso folle di lettori di ogni estrazione sociale e di ogni paese. Nessun romanzo, forse, ha avuto tante edizioni (settantasei solo in Italia, già dal 1846), tanti adattamenti cinematografici (il primo nel 1922) e televisivi; è diventato un musical, un fumetto con Paperino, è stato immortalato sulle figurine Liebig e condensato nelle strisce della Magnesia San Pellegrino; oggi ispira la serie americana Revenge. Tutti quindi possono dire di conoscerne almeno a grandi linee la trama e il protagonista, anche chi non lo ha mai letto. Ma non c’è trasposizione, necessariamente lacunosa, data la mole del romanzo, che valga il godimento di aprirlo e rimanere intrappolati senza scampo nel suo inesorabile ingranaggio narrativo, che funziona sempre anche se si sa già come andrà a finire la vicenda. I suoi stessi difetti, le ripetizioni, le digressioni, le zeppe, sono funzionali al piacere della lettura. Gramsci lo ha bollato come «il piú “oppiaceo” dei romanzi popolari: quale uomo del popolo non crede di aver subíto un’ingiustizia dai potenti e non fantastica sulla “punizione” da infliggere loro?» Nella sua scia, ma senza alcuna condanna ideologica, Umberto Eco lo ha fatto accedere, finalmente, al canone della tradizione letteraria, celebrando il suo protagonista come una delle piú riuscite incarnazioni del «superuomo di massa». Bello e tenebroso quanto basta, Montecristo non ricorre all’armamentario del romanzo gotico inglese, né è un autentico aristocratico come il suo predecessore piú immediato, il Rodolphe de Gerolstein dei Misteri di Parigi di Eugène Sue (1843), vendicatore di torti nei bassifondi di Parigi. Montecristo ammette con disinvoltura di essere un «conte improvvisato», ma con un patrimonio da far impallidire quello di Rothschild, un fascino magnetico e una cultura smisurata, grazie ai quali abbacina l’élite politica e finanziaria del regno borghese di Luigi Filippo. Dall’alto della sua onniscienza, tiene a bada depressione e malumori con pasticche di hashish, e intanto manipola la Borsa, usa l’amministrazione della giustizia come un suo personale braccio armato e pilota l’esistenza dei suoi nemici per punirli con sapiente contrappasso, imprigionandoli in una trama impeccabile di coincidenze che non sono mai tali, di accadimenti che non sono mai fortuiti. Proprio come farebbe un grande romanziere.
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«Ecco perché, con i tuoi personaggi vigorosi, allegri, brillanti, intrepidi, generosi, pronti a servire fino alla morte le cause piú nobili, i sentimenti piú elevati, appassioni sempre piú le masse da oltre mezzo secolo; ecco perché, nonostante tutte le scuole, tutte le estetiche, tutte le discussioni piú o meno sincere, tutte le parzialità e le calunnie fra cui si dibatte la letteratura attuale, sei diventato, resti e resterai lo scrittore piú appassionante, il romanziere piú popolare nel senso migliore del termine, non soltanto della Francia, ma del mondo intero».
Da una lettera di Alexandre Dumas figlio al padre