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Velázquez e il ritratto barocco
Francis Bacon ha scritto che «da tutti i suoi dipinti traspare quell'emozione che Velázquez deve aver provato, persino in quelle bellissime opere dove le figure hanno una meravigliosa struttura e al tempo stesso la colorazione di un Monet. Si avverte sempre il passaggio dell'ombra della vita». In modi misteriosi quest'ombra si proietta sull'arte europea, e nel cuore stesso del piú sfarzoso, esteriore e mendace ritratto barocco, si insinua come una lama la verità di Velázquez: questo libro ne racconta la storia.
Il libro
PRINCIPE ENRICO Dio mi sia testimonio, sono estremamente stanco.
POINS Siamo a questo? Credevo che la stanchezza non avrebbe osato attaccare uno di cosí alta nascita.
PRINCIPE ENRICO S’è davvero attaccata a me, sia pure che riconoscerlo scolori il volto della mia grandezza.
In questo brano dell’Enrico IV di Shakespeare lo stile sublime e quello realistico si mescolano: la pittura conquisterà questa libertà un poco piú tardi, anche se piú radicalmente. Ma è solo con i ritratti di Velázquez che vediamo davvero il volto dei principi scolorarsi per la stanchezza. All’inizio del Seicento, la rivoluzione di Caravaggio abbatte la separazione e la gerarchia dei generi, ma non è in Italia che essa produce i suoi massimi risultati: è con Velázquez e con Rembrandt che la verità della pittura attinge vette insuperabili. E questo accade soprattutto nei loro ritratti. Quelli di Velázquez riescono a conciliare un’obiettività da pittura di natura morta con un’inesorabile capacità di inchiodare alla tela l’anima delle persone.
«Da molti anni ormai, dal Ritratto di Fraga eseguito nel 1644, tra i volti della corte dipinti da Velázquez mancava quello del re. In una stupefacente lettera spedita l’8 luglio 1653 a Luisa Magdalena de Jesús (una monaca sua intima confidente), è lo stesso Filippo IV a spiegarcene le ragioni: “tra i quadri [inviati al monastero] non c’è un mio ritratto perché sono nove anni che non se n’è fatto nessuno: non ho voglia di sottopormi alla flemma di Velázquez, non solo perché la sua lentezza mi sfinisce, ma anche perché non voglio vedermi invecchiare”. […] Pochi anni dopo, Filippo dovette cedere alle esigenze di Stato, e Velázquez lo dipinse in due memorabili ritratti a mezzobusto. […] Dal fondo di una tela nera ci guarda un viso umanissimo e tristissimo: nessuna insegna regale (nel secondo ritratto il toson d’oro è solo un luccichio giallo), nessuna preoccupazione iconografica, nessuna pietosa finzione nascondono lo smottare della pelle intorno agli occhi, ormai simili a quelli di un grande pesce pescato da troppi giorni. Come ci accade di fronte a un sovrano shakespeariano rimasto solo sul proscenio alla fine della tragedia, sentiamo Filippo IV spiritualmente vicino: la pittura di Velázquez ha colmato ogni distanza di tempo, di mentalità e di ceto facendo risalire in superficie l’essenziale, e cioè l’umanità dolente. Uno scrittore contemporaneo, Lázaro Díaz del Valle, scrisse poeticamente che in queste tele aveva visto “mucha alma, en carne viva”: e cioè una grande introspezione psicologica insieme a una strepitosa capacità di catturare e rappresentare la vitalità. In queste quattro parole è contenuto interamente il miracolo della ritrattistica di Velázquez».