Giulio Einaudi editore

«È tornato agli elementi, ieri all'improvviso, Glauco Felici. Dopo aver avvisato, fra gli altri, Mario Vargas Llosa e Javier Marías, che si stringono addolorati alla famiglia, scorro nel catalogo storico dell'Einaudi la lunga colonna dedicata al lavoro di Glauco. Questo di lui ci rimarrà, oltre al ricordo: lo stile e la grazia con cui ha saputo scrivere per il lettore italiano i libri degli altri. Un dono immenso, che Glauco ha saputo sempre porgere con un gesto breve ed elegante».
Ernesto Franco

Glauco Felici riceve il Premio Monselice per la traduzione
Tradurre «Mrs Dalloway»

Verrà mai un tempo in cui reggerò la lettura di un mio scritto stampato senza arrossire, senza rabbrividire, senza il bisogno di trovare riparo?

Virginia Woolf, Diario di una scrittrice
27 marzo 1919

Parafrasando Virginia Woolf, posso dire che non c’è stato un momento, negli ultimi mesi, in cui non mi sia chiesta se avrei retto la lettura della mia versione di Mrs Dalloway senza arrossire, senza rabbrividire, senza bisogno di trovare riparo. Woolf è stata ed è un punto fermo nella mia formazione, se per formazione intendiamo il lento farsi di sé nel tempo, come lettrice, come studiosa, come donna. Quando la casa editrice mi ha proposto di farne una nuova traduzione, sono tornata a Mrs Dalloway, letto in originale decenni fa, e più tardi nella traduzione di Nadia Fusini. Come innumerevoli altre lettrici, l’avevo molto amato. Ricordavo il lento fluire dei pensieri, la sobria tessitura di parole, i protagonisti – Clarissa Dalloway, Peter Walsh, Septimus Warren Smith – i loro spostamenti nelle strade di Londra in quel lontano 13 giugno 1923. Un solo giorno, un giorno qualunque, a pochi anni dalla fine del primo conflitto mondiale. Nel pallido sole primaverile, la città e le persone sembrano ritrovare una normalità dimenticata.

Ciò che non ricordavo – sommerso forse dalle interpretazioni – erano l’energia, il movimento. Tutto si muove in questo romanzo grandioso. La gente sui marciapiedi, le nuvole nel cielo, la bruma del mattino, gli omnibus le automobili e i carretti nelle strade, i pony e i bambini nei parchi, le luci alle finestre che via via si illuminano, i riflessi sull’acqua, i ricordi nella mente dei personaggi. Perfino le parole letteralmente si muovono, quelle che a nastro si srotolano dalla coda di un aereo, disegnando nel cielo uno slogan pubblicitario. Né ricordavo la quantità di rumori, di suoni, di voci che intervengono nel silenzio. E sono tante, le voci. Quelle che in ognuno riemergono dal passato, quelle che interloquiscono nei dialoghi, quelle che si inseguono tra le stanze la sera del ricevimento. É il brusìo della città, il fragore del bus su cui sale la giovane Elizabeth Dalloway, sono gli uccelli «che cantano in greco».

«In questo libro ho anche troppe idee. Voglio dare la vita e la morte, la saggezza e la follia; criticare il sistema sociale e mostrarlo all’opera, nel momento di massima intensità», scrive Woolf nel suo diario il 19 giugno 1923. E aggiunge: «Il disegno è così strano e possente. Devo continuamente forzare la materia per adattarvela. Vorrei scrivere e scrivere, a gran velocità, con accanimento». E io l’immaginavo, nel suo studio a Rodmell, concentrata su pagine bianche che a poco a poco si riempiono della sua scrittura, le pagine che io andavo rileggendo, abbagliata dalla forza cinetica, dalla molteplicità dei punti di vista, dalle libertà della lingua, dall’apparente arbitrio delle avversative e dei punti e virgola.

Come restituire tutto ciò, nel 2012, a nuove lettrici e lettori, e a quanti vorranno rileggere? E come accogliere le tracce di coloro che prima di me si sono cimentate con la traduzione di questo straordinario romanzo – Alessandra Scalero (1946) e Nadia Fusini (1993)? Leggendo e rileggendo, anch’io con accanimento, ho infine colto di alcune parole la natura di parole-chiodo, alle quali ho appeso via via tutto il resto. Ho fatto alcune scelte radicali, ma credo di aver reso giustizia alla visione di Woolf, al suo occhio grandangolare sulla realtà del suo tempo. Al suo orecchio che sembra cogliere ogni sfumatura di rintocchi silenzi baccano fruscio. Nello squillo prolungato dell’ambulanza – «Quella era civiltà» pensa Peter Walsh appena rientrato dall’India – ho letto tutta l’ironia con cui Woolf già nel 1925 coglieva la crisi dell’impero. «Eccolo quell’uomo fortunato, riflesso nel cristallo della vetrina di una casa automobilistica in Victoria Street. L’India intera si stendeva alle sue spalle, pianure, montagne, epidemie di colera, un distretto grande due volte l’Irlanda...». Alle spalle di Clarissa Dalloway mi è sembrato di scorgere un’ombra, un’ombra uscita da Chiara luce del giorno di Anita Desai. Non sono così lontani dal Tamigi i bagliori che tutt’a un tratto rischiarano gli argini della Yamuna a New Delhi. E al «crimine» che tormenta Septimus – «Sono stato morto, eppure adesso sono vivo» – mi premeva dare tutto il significato, l’insostenibile pesantezza che sappiamo, molte guerre dopo la guerra da cui lui tornava, molte paci dopo quella che una scienza medica violenta gli impedì di vivere.

           Non esiste innocenza in questa lingua
           ascolta come si spezzano i discorsi
           come anche qui sia guerra
           diversa guerra
           ma guerra – in un tempo assetato....

           La parola si spacca come legno
           come un legno crepita di lato
           per metà fuoco
           per metà abbandono.

           in Antonella Anedda, Notti di pace occidentale

Intervista ad Agota Kristof

Agota Kristof, tra i maggiori esponenti della letteratura francofona, è la nuova vincitrice del Kossuth, il più importante premio letterario ungherese. Tornata nella sua terra natale per la consegna del premio, l'autrice ha rilasciato questa intervista – pubblicata su Hlo.hu – in cui riflette su immaginazione e scrittura, linguaggio e traduzione.

Cos’ha provato quando ha saputo che avrebbe vinto il premio Kossuth?
Mi ha reso molto felice, perché è un premio ungherese – di solito i premi non mi interessano così tanto, diciamo che ne ho già ricevuti abbastanza. Quando i miei libri cominciarono a essere tradotti in ungherese per me fu un grande onore, ma non mi aspettavo che avrebbero suscitato tanta attenzione. In passato già due volte mi avevano annunciato che avrei vinto il Kossuth, ma non successe né la prima né la seconda volta. Così, quando mio fratello mi ha telefonato per darmi la notizia, immediatamente gli ho chiesto: «di nuovo?».

L’anno scorso a Budapest, durante una conferenza internazionale in cui lei era l’ospite d’onore, il poeta András Petőcz le ha domandato come è nata l’idea di scrivere in un’altra lingua. Lei ha risposto che si era resa conto abbastanza in fretta che, se voleva essere letta, doveva scrivere in francese.
Beh, certo, è questa la ragione per cui ho iniziato a scrivere in francese. In Svizzera non avrei avuto nessuna possibilità se avessi scritto in ungherese. Però ho continuato a scrivere anche nella mia lingua madre per un bel po’ di tempo, almeno cinque anni.

Nel suo romanzo Ieri, il protagonista – operaio in una fabbrica di orologi – dice che scrive nella sua testa, perché è più semplice; scrivere distorce i pensieri e alla fine, per colpa delle parole, tutto sembra venir fuori contraffatto. Quando ha scritto le sue prime frasi in francese, stava di fatto traducendo dall’ungherese? Il setaccio della traduzione rendeva le sue parole più precise? Più esatte?
Penso che questo rappresenti un problema per ogni scrittore. Non è possibile riuscire a esprimere esattamente ciò che intendiamo. Scrivere per me voleva dire anche cancellare tantissimo. Cancellavo in particolare gli aggettivi e le immagini che non appartenevano al mondo reale, concreto, ma che nascevano dalle emozioni. Ad esempio, una volta ho scritto: «i suoi occhi scintillanti». Poi mi sono detta: ma davvero scintillano? E ho cancellato l’aggettivo.

Però in Ieri ci sono molte cose che non appartengono al mondo reale. È un libro in cui sogno e realtà si mescolano in continuazione.
È diverso. Questi sogni sono solo in Ieri. Per descriverli ho usato molte delle mie vecchie poesie in ungherese.

Come è andata esattamente? Si è rimessa a sfogliare le sue vecchie poesie?
Non le ho «sfogliate». Le ho tutte in testa.

Quanto materiale non scritto c’è nella sua testa?
Non scrivo più, sono molto malata. Non è stata una decisione consapevole, è successo e basta. Semplicemente non me la sento, non ho più l’energia necessaria.  Però ci sono ancora tanti temi che mi interessano, e su uno di questi ho cominciato a scrivere due anni fa. Ho tutto il libro in testa, praticamente è finito. È molto facile mettere sulla carta quello che ho immaginato. Così ho buttato giù un paio di pagine, ma mi sembrava di ripetere cose che avevo già scritto. Ho ricominciato, poi ho scritto il finale, diverse volte, alla fine ho lasciato perdere.

Ci sono autori che affermano di scrivere e riscrivere sempre la stessa storia, all’infinito.
Sì, in un certo senso è vero anche per me, ad esempio quando ho scritto il mio primo romanzo, Il grande quaderno, non pensavo che sarei andata avanti, che fosse possibile continuare. Ma poi semplicemente non ho potuto fermarmi, non potevo lasciare soli i gemelli, anche se provavo a scrivere un’altra cosa non riuscivo a immaginare nient’altro che i gemelli, di nuovo. Così ho dovuto scrivere il secondo libro, La prova. A quel punto ho pensato che fosse sufficiente, ma alla fine ho scritto anche La terza menzogna, perché non potevo raccontare nulla di diverso.

In L’analfabeta [pubblicato in Italia da Casagrande] racconta di aver imparato una lingua attraverso il corpo: nella fabbrica di orologi una donna le insegnava i nomi delle parti del corpo e degli oggetti attraverso il linguaggio corporeo. Quando si è accorta che il francese era ormai la sua lingua?
C’è voluto molto tempo, dodici anni direi, perché cominciassi a scrivere in francese. Prima ho tentato di capire come suonavano in francese le mie poesie ungheresi. Poi ho iniziato ad assemblare frasi, testi brevissimi, ma è accaduto tutto molto lentamente. Ho iniziato con i testi teatrali, perché è molto più semplice, basta indicare il nome di chi parla. Il mio non era un francese letterario, buttavo giù conversazioni in una lingua quotidiana, popolare. Ho terminato un paio di commedie, e qualcuno mi ha suggerito di mandarle a una radio. Hanno voluto lavorarci immediatamente, e ne hanno trasmesso cinque. Ho portato avanti quel lavoro per molto tempo, ho imparato le tecniche della scrittura radiofonica. Non riesco a ricordare come sono passata a scrivere romanzi. L’idea è arrivata e basta. Volevo raccontare di come io e mio fratello Jenő avevamo vissuto la guerra a Kőszeg. All’inizio i narratori eravamo io e mio fratello, ma le parole io e lui in francesce suonano talmente goffe. Così ho unito i pronomi e il narratore è diventato un noi – nous in francese – e non c’era più bisogno di dichiarare chi stesse parlando. Ecco come è nata la voce di questo libro [si riferisce a Il grande quaderno, N.d.T.].

Non si tratta di un romanzo completamente autobiografico, ma contiene molti episodi veri. Ad esempio la deportazione degli ebrei da Kőszeg. Io l’ho vista. C’era un campo a Kőszeg, abbiamo visto gli ebrei che marciavano in fila davanti alle nostre case. La nostra domestica si è avvicinata per porgergli del pane, ma poi l’ha riportato indietro. Questo è il genere di cose che notavo, avevo dieci anni. Ci sono molte cose, in quel romanzo, che non sono capitate a me direttamente, ma a dei miei amici. Quando arrivarono i russi, capitava che ci nascondessimo sulle colline. Una volta la madre di una mia amica aveva un neonato in braccio, è inciampata ed è caduta sopra il neonato, e la mia amica ha assistito alla scena. Nel romanzo ho inserito cose come queste, non mi interessava che fosse completamente autobiografico. Ci sono molte storie che riguardano Kőszeg.

Torna a Kőszeg ogni tanto?
Sì, e la trovo diversa a seconda dei momenti. Qualche volta mi sembra una città nuova, con le case restaurate e imbiancate. Un paio d’anni dopo la trovo in rovina, le case sembrano quelle di cinquant’anni fa. Ma ora non ci vado più, non ne ho la forza.

A casa parlava ungherese con la sua prima figlia, ma non con i due figli che sono arrivati dopo. Come mai?
Anche con lei non ho usato l’ungherese a lungo. Adesso è mio figlio che parla questa lingua, perché ha una fidanzata ungherese, così spesso lo usiamo anche tra noi, ma lui ha trentotto anni e prefersice parlare in inglese anche con la sua fidanzata. Quella di non insegnare l’ungherese ai ragazzi non è stata una vera e propria scelta, è andata così. Per via dell’ambiente in cui viviamo. Anche il mio secondo marito parlava francese, possiamo dire che non volevo confonderli. Ma forse avrei dovuto. Me ne sono un po’ pentita. Adesso mia figlia vuole che parli ungherese al mio ultimo nipotino, che ha due anni. Ho paura che non mi capisca, che questa cosa possa allontanarlo da me. Conosce le parole igen e nem ( e no) e gli ho regalato un orsacchiotto che resta ad aspettarlo a casa mia, e lui sa che in ungherese di chiama mackó. Ma sento che è perplesso quando gli parlo in questa lingua.

Parlando di lei, Esterházy ha scritto: qualcuno guarda da lontano ciò che noi stiamo guardando da qui...
Sì, mi ricordo questo articolo, Esterházy fu il primo a parlare del mio libro. Ci siamo incontrati una volta. Questa frase può essere in parte vera, ma io non volevo scrivere un romanzo storico, non era il mio obiettivo, io volevo solo raccontare la mia infanzia.

Legge i suoi libri tradotti in ungherese? Cosa prova nel vedere i suoi testi scritti nella sua lingua madre? Ha detto che era difficile mettere insieme le frasi in francese, adesso come suonano in ungherese?
Sì, ricevo sempre le traduzioni, e do sempre un’occhiata, ma mi infastidiscono. Non mi piace leggerle. Ci sono così tante traduzioni dei miei libri che non riesco più a seguirle, a volte non riconosco neppure il mio nome stampato sulla copertina, come nel caso delle traduzioni giapponesi, cinesi o coreane, non so neppure cosa c’è scritto in quei libri. Non ho idea di quanto di ciò che scrivo arrivi ai lettori, ma certo i miei libri hanno successo, anche in Giappone e in Russia. Mi hanno invitato a San Pietroburgo diverse volte, ma non credo che ce la farò. I cinesi hanno tradotto tutto, ma non hanno pagato un centesimo (ride). Hanno detto che c’era un problema con il cambio, o qualcosa del genere, ma non mi interessa. Una cosa che mi interessa, invece, è che le mie vecchie poesie ungheresi saranno presto pubblicate in un’edizione bilingue. Ne sono davvero felice. Ho appena firmato un accordo con un editore di Ginevra, un traduttore ungherese tradurrà le mie poesie in francese.

E il regista János Szász sta lavorando a un adattamento cinematografico da Il grande quaderno. Che ne pensa?
È la cosa più bella che mi sia capitata ultimamente. János Szász mi manda delle parti di sceneggiatura, di tanto in tanto. Lui mi piace molto, i suoi film sono molto forti, e sono sicura che non rovinerà Il grande quaderno come ha fatto quel regista italiano con il film tratto da Ieri [si riferisce a Brucio nel vento di Silvio Soldini]. Quello è stato un totale pasticcio. Hanno cambiato il finale.

Ma perché? Una delle cose più belle di Ieri è che non è una storia a lieto fine.
Beh, nel film invece sì. Ho discusso a lungo con il regista e gli ho detto che non doveva finire in quel modo, ma lui diceva che altrimenti il pubblico avrebbe abbandonato la sala, perché le persone vogliono stare bene, vogliono essere felici. Il film di Szász sarà tutta un’altra cosa.

Per gentile concessione di Dóra Szekeres e Hungarian literature online.