Giulio Einaudi editore
Dori Ghezzi, Giordano Meacci, Francesca Serafini

Per la prima volta Dori Ghezzi parla della sua storia d’amore e della sua vita con Fabrizio De André.

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È stato scritto, e si continuerà a scrivere molto su Fabrizio De André, cantautore fra i più amati dal pubblico italiano, oggetto di un vero e proprio culto che attraversa le generazioni. Lui, io, noi è un libro diverso da tutti quelli pubblicati finora perché a parlare è, per la prima volta, Dori Ghezzi, la donna che gli è stata accanto dal 1974 fino alla morte.

Ad aiutare Dori a raccontare la sua, la loro storia, Giordano Meacci e Francesca Serafini, autori e sceneggiatori del film-evento di Claudio Caligari Non essere cattivo, e di Principe libero, miniserie di due puntate su De André, andata in onda su Rai 1 il 13 e il 14 febbraio. «L’idea di dargli questa forma “collettiva” è nata dal non sentirmi la scrittrice che finge di aver letto e capito tutto, e soprattutto non volevo dar vita all’ennesima biografia. Ci sono alcuni passaggi importanti della mia vita e di quella di Fabrizio che volevamo, volevo, portare alla luce» (Dori Ghezzi, intervistata da Antonio Gnoli, «la Repubblica»).

La loro vita insieme è stata segnata da grandi amicizie, Fernanda Pivano, Marco Ferreri, Paolo Villaggio, Francesco De Gregori, Vasco Rossi… dalla nascita della figlia Luvi, dalla loro carriera di cantanti e dalla scelta coraggiosa di trasferirsi in Sardegna per lavorare la terra e allevare gli animali, «la terra in cui gli opposti convivevano meravigliosamente, un cui l’autentico non aveva bisogno di aggettivi. Non cercavamo la bellezza, o almeno non solo quella, cercavamo una ragione di vita» (Dori Ghezzi, intervistata da Antonio Gnoli).

La Sardegna è stata però anche il teatro del famoso e tragico rapimento dell’Anonima Sequestri, durato quattro mesi, duri e spaventosi: «Ricordo il cielo a volte stellato e bellissimo. Il paesaggio scarno. Le maschere perché non vedessimo i rapitori. All’inizio il rumore degli elicotteri che ci cercavano ma non potevano vederci. Il cibo freddo. E il fatto che una sola settimana ci permisero di cucinare con una bombola e una fornelletto. Era troppo pericoloso, spiegarono. Ricordo un giorno in cui il cielo si fece tutto scuro e all’improvviso vennero i lampi e poi i tuoni. E la pioggia battente che cadeva obliqua. Come ombre, ci davamo la mano con Fabrizio. E pensavamo che anche loro, in fondo, erano dei sequestrati» (Dori Ghezzi, intervistata da Antonio Gnoli).

Fu proprio quel legame «fermo, limpido e accecante» che li sostenne durante il sequestro, li aiutò a tornare alla normalità dopo la liberazione e ad affrontare la malattia di Fabrizio, un cancro di cui in pochi sapevano all’inizio, solo gli amici più intimi.

Lui, io, noi è una storia privata che s'intreccia con di chi, da sessant'anni, ascolta De André. Soprattutto è il racconto intimo, commovente, a tratti perfino buffo, di un grande amore.

Nathan Englander

L'ultimo libro di Nathan Englander è, come al solito, magnifico: un'opera di precisione psicologica e forza morale che cattura con pari immediatezza sia l'eterna verità umana sia gli smarrimenti del presente Colson Whitehead

Due personaggi, due ombre, dominano il nuovo tesissimo romanzo di Nathan Englander, Una cena al centro della terra: il prigioniero Z e il Generale. Il prigioniero è un americano senza nome, chiuso da dodici anni in una cella nel deserto di Negev, sorvegliato da telecamere che registrano e contrassegnano ogni movimento. Ha come unica compagnia un secondino e scrive molte lettere al Generale, quasi un alter ego di Ariel Sharon, per riavere la libertà, senza sapere che è ormai prigioniero del suo corpo, in un ospedale di Tel Aviv.

Z ha combattuto e ucciso per il suo paese, ha avuto nelle sue mani il destino di una nazione, ha parlato e ascoltato due lingue, quella della Bibbia e quella dei fucili. Nella storia, che è psicologica e politica, compaiono altri personaggi, che intrecciano le loro storie, muovendosi in luoghi e tempi diversi. C'è Ruthi, madre del sorvegliante che accudisce il Generale, un morto «così potente che continua a vivere» e c'è il figlio, il sorvegliante che osserva e parla con «un vivo che è già morto».

Una cena al centro della terra tesse «una maglia narrativa coesa e densissima, dove spie in fuga e traffici internazionali si incrociano ai tragitti dell’esistenza individuale e alle rapaci incursioni della storia nella convulsa attualità […] una narrazione insieme estrosa e serissima, in una catena di rispecchiamenti e corrispondenze, di storie che fanno eco ad altre storie, dove tutto è sempre sul punto di rovesciarsi nel suo contrario» (Massimiliano De Villa, «il manifesto»).

Centrale nel romanzo è anche la complicata situazione in Medio Oriente. È lo stesso autore, in un’appassionante conversazione con Gianni Riotta, ad ammettere di non capacitarsi come non si riesca a trovare una soluzione pacifica al conflitto: «Tutti sanno quali sarebbero le soluzioni, palestinesi ed israeliani lo sanno, tutti sanno dov’è la chiave, nessuno apre la porta. Per questo ho scritto Una cena al centro della terra, per strillare “rivoglio indietro la mia pace! Non potete fregarmela per sempre!” […] La sola strada per comprendersi tra nemici in questa terra ferita è l’empatia».

Tutti i personaggi sono vicini e opposti, prigionieri di una realtà, anche quelli che vivono lontano dal dramma di una terra senza pace. «Un nuovo romanzo, diverso, originale, sempre sospeso tra la riflessione morale e la spy-story, che ci fa sprofondare in una realtà dove le ragioni e i torti dell’uno si rovesciano in quelli dell’altro, rifrangendosi in un ininterrotto gioco di specchi» (Franco Marcoaldi, «D – la Repubblica»).

Una profonda meditazione sullo stato di Israele e insieme un thriller avvincente, denso di colpi di scena e ambiguità morali. Una gioia da leggere «The Jewish Chronicle»

Jeff VanderMeer

Borne è il nuovo romanzo di Jeff VanderMeer, autore di culto, capofila del New Weird. È noto soprattutto per la straordinaria Trilogia dell’Area X, adorata da Stephen King, elogiata in Italia da Paolo Giordano e Michela Murgia, e che da marzo sarà su Netflix, con protagonista il Premio Oscar Natalie Portman. Annientamento  è il titolo dell'adattamento cinematografico.

Lo scrittore statunitense ci porta fra le macerie di una città in rovina, in un mondo che per la rivista Kirkus «ricorda La strada di Cormac McCarthy». Qui la cacciarifiuti Rachel si imbatte in una creatura misteriosa che decide di prendere con sé, dandole il nome di Borne.

Ma cos’è Borne? Una persona, un mostro, una bio-tec creata dalla Compagnia - l'enigmatica società che controlla la Città? All'inizio è poco più di una pianta che cresce a una rapidità impressionante: è un bambino curioso e frenetico; è un anemone di mare gigante che muta forma e colore. Mangia e non espelle nulla, assorbe, impara a parlare e in un istante si può trasformare in una pietra o in un umano.

Con Borne, VanderMeer prosegue la sua indagine sulla grazia malevola del mondo: ed è una meraviglia totale Colson Whitehead

L’arrivo di Borne spezza gli equilibri nella vita di Rachel: altera il rapporto con il compagno Wick alla Scogliera (il loro rifugio), la costringe a rivivere il passato e a rivalutare il presente, dominato da Mord, l’enorme orso volante bio-tec simile a un dio, creato dalla Compagnia. Per la prima volta si sente madre.

Per il Pulitzer 2017 Colson Whitehead «con Borne, VanderMeer prosegue la sua indagine sulla grazia malevola del mondo: ed è una meraviglia totale»; il romanzo invita il lettore a riflettere sull'esperienza della perdita, del tradimento, sull’importanza della fiducia. «Ma c’è qualcosa in più in quest’essere che VanderMeer mette in scena, ed è la sua capacità di mostrarsi come una sorta di intelligenza collettiva, in grado di inventarsi un nuovo linguaggio e una nuova forma di conoscenza» (Christian Raimo, Tuttolibri – La Stampa).

L’autore «ci ha portato, come in un labirinto di specchi, a porci di fronte a una specie di grande metafora della letteratura, della sua possibilità di genesi infinita, in un mondo come il nostro che sembra condannato alle sue narrazioni imposte dalla ripetizione del presente» (Christian Raimo, Tuttolibri – La Stampa).

A conferire ulteriore fascino al libro è la copertina creata da Lorenzo Ceccotti, in arte LRNZ, già autore di quelle della Trilogia e dell’Omnibus negli Einaudi tascabili.

Donatella Di Pietrantonio

Bella mia è il secondo romanzo di Donatella Di Pietrantonio, reduce dal trionfo di critica e pubblico per L’Arminuta, vincitore del Premio Campiello 2017. Il libro, ora nei Super ET con una postfazione dell'autrice, ha partecipato al Premio Strega 2014 e ha vinto il Premio Brancati e il Premio Vittoriano Esposito Città di Celano.

Il sisma del 2009 ha sconvolto L'Aquila, ha trasformato il suo volto, ha cambiato non solo i luoghi ma i cuori e le anime dei sopravvissuti. Caterina, protagonista e io narrante di questo romanzo, struggente ma aperto alla speranza, deve affrontare, come tanti, il trauma del presente e le ferite del passato. La sua storia, quella della madre anziana strappata alle sue rassicuranti abitudini e quella del nipote, raccontano la perdita, il lutto sullo sfondo di una città che è sempre lì a ricordare e testimoniare la devastazione.

Come si possono ricomporre i cocci di una vita quando la terra trema e rimescola luoghi, prospettive, relazioni? Colson Whitehead

Nella nuova casa, situata nei Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili (C.A.S.E.), che «puzza di nuovo», deve provare a reinventare la sua vita. Marco, suo nipote, figlio della sua gemella Olivia morta la notte del sisma, è venuto a stare con lei, fuggendo da un padre a cui rimprovera molte cose; è «alto, secco, un corpo di linee spezzate e mai curve, con una fioritura di brufoli», rabbioso adolescente rinchiuso nel «suo recinto di capelli».

«Schiacciato dal peso di un lutto devastante» (Donatella Di Pietrantonio, «Rai Letteratura», link), il ragazzo rifiuta la realtà con atti violenti, non perdona il padre che non c'era quella notte, non perdona gli ingegneri che hanno permesso che la sua casa crollasse. Caterina deve affrontare questo adolescente disperato, «una donna che aveva rinunciato all’esperienza della maternità,  che non se ne sentiva capace» (Donatella Di Pietrantonio). Era sempre vissuta all'ombra di Olivia ma, pur amandola, si vedeva come «la sua brutta copia»; era lei che «aveva i poteri», era lei che stregava uomini e animali. Con i ricordi che mordono «con denti da iena» deve accettare la sfida, convivere con le macerie fisiche della città, tentare per sé e per il nipote una possibile rinascita.

Bella mia, titolo ispirato a una canzone abruzzese dedicata alla città dell’Aquila, è un romanzo che parla con straordinaria forza poetica dell’amore e di ciò che proviamo nel perderlo. Ma soprattutto della speranza e della ricostruzione: la ricostruzione di una città squassata dal sisma e la ricostruzione ancora più faticosa della fiducia nella vita.

Letizia Pezzali

Un caso internazionale: in via di traduzione in sette paesi, ancora prima della sua uscita in Italia. Colson Whitehead

Il romanzo, nelle parole di Stefano Massini (Lehman Trilogy) «è un trattato sul rischio dell'amore, e specularmente sull'amore per il rischio». L'autrice ha lavorato per anni a Londra in una banca d'affari e mette al centro del romanzo proprio l'ambiente della finanza, un mondo dominato dal caos, dalla tensione. È la stessa Pezzali, nell'intervista a Repubblica.it, a sottolineare come «la vita vera rappresentata nel romanzo esce dalla rappresentazione classica cinematografica della finanza e va un po' dietro le quinte»: non ci sono solo persone che corrono e si agitano osservando numeri volubili, ma anche tanta mediocrità.

 


 

Giulia, la protagonista di Lealtà, lavora a Londra in una banca d'affari. È un luogo fondato su regole quasi religiose dove lei si muove lontana dalla felicità ma non a disagio tra molto denaro, pochissimo tempo libero e rapporti che, fatta eccezione per il sesso, mirano soprattutto al mantenimento della reputazione.

Nello stesso ambiente conduceva la propria esistenza anche Michele, verso cui al tempo dell'università, a Milano, lei aveva sviluppato un'ossessione sentimentale ed erotica. In una mattina speciale per il mercato, il brillante capo di Giulia fa il nome di Michele e lei si trova a ripercorrere una vicenda che credeva sepolta, ad indagare la dimensione emotiva del dolore e dell'amore, la loro origine genetica.

La loro vicenda d'amore nasce come una guerra persa in partenza: c'è un'attrazione fisica potente contrastata però da un contesto ostile. Oltretutto Michele è sposato, e ha una figlia. Giulia arriva a mandargli fino a sessanta messaggi al giorno, lui la allontana per poi riprenderla in un balletto fra alti e bassi degno dei deliri di Wall Street.

«Ogni libro contiene in fondo una domanda, io credo che in questo caso essa abbia a che fare con la doppia (e simultanea) faccia dell'amore, potentissimo e fragile, simile al numero di un equilibrista: negare il baratro sotto i suoi piedi equivale ad azzerarne la poesia» (Stefano Massini, «Robinson - la Repubblica»).

Fred Vargas

Il morso della reclusa di Fred Vargas segna il ritorno dell'amato commissario Adamsberg, il nebbioso, beccheggiante, indolente capo dell'Anticrimine al tredicesimo arrondissement parigino che «ha reso la regina del noir francese celebre in tutto il mondo» (Fabio Gambaro, «la Repubblica»).

In questo nuovo capitolo c’è una «storia affascinante e complicata a base di ragni, incidenti misteriosi, storie passate e crimini contemporanei che mette a dura prova l’intuitivo commissario» (Fabio Gambaro, «la Repubblica»). Adamsberg, in vacanza in Islanda, è costretto a tornare per seguire le indagini su un omicidio. Il caso è ben presto risolto, ma la sua attenzione viene attirata da quella che sembra una serie di sfortunati incidenti: tre anziani che, nel Sud della Francia, sono stati uccisi da una particolare specie di ragno velenoso, comunemente detto reclusa.

Per tutti, stampa, opinione pubblica e studiosi, si tratta di una strana coincidenza o, teoria molto diffusa nel web, di un aumento del numero delle recluse a causa del surriscaldamento terrestre. Per tutti, ma non per il commissario capo che sospetta qualcosa, anche se non riesce a dare un nome a questi «pensieri prima dei pensieri». È convinto che le morti non siano casuali ma deve scontrarsi con quasi tutto l’arrondissement: soprattutto con il colto comandante Danglard, ferocemente contrario alle idee del commissario.

Con l’avanzare delle indagini la tensione cresce: si creano due schieramenti, «la squadra di Adamsberg non è certo una comunità idilliaca dove tutto funziona a meraviglia. Come in ogni gruppo, non mancano i conflitti e le contraddizioni. Esattamente come accade nella vita, ma in maniera deformata» (Fred Vargas, intervistata da Fabio Gambaro, «la Repubblica»).

Scavando in profondità emergono episodi di violenze subite da molte donne nella zona di Nîmes, e questi eventi diventeranno centrali ne Il morso della reclusa. È la stessa autrice ad ammettere che «all’inizio non è che avessi in testa di scrivere un romanzo sulla violenza contro le donne, ma poi il libro ha preso questa direzione per tutta una serie di motivi che il lettore scoprirà leggendo»  (Fred Vargas, intervistata da Fabio Gambaro, «la Repubblica»).

Mettere insieme i vari tasselli di questo complicato caso, e ricompattare la squadra, non sarà facile ma Adamsberg  sa che è necessario. Ecco allora che escono con forza gli altri personaggi del libro, i colleghi, i loro problemi e le loro intuizioni: «Non credo che sia possibile risolvere i problemi da soli, credo alla forza del gruppo. Per questo cerco di dare sempre più spazio a quelli che all’inizio erano secondari».

Il risultato è un noir avvincente, particolare dove, oltre all’intrigo criminale «contano l’atmosfera, le divagazioni e i personaggi. Vorrei che alla fine del libro il lettore si sentisse un po’ meglio di quando ha iniziato a leggere» (Fred Vargas, intervistata da Fabio Gambaro, «la Repubblica»).

Il commissario Adamsberg ha reso la regina del noir francese celebre in tutto il mondo Fabio Gambaro, «la Repubblica»

Auður Ava Ólafsdóttir

Un affascinante concentrato di poesia e fantasia, un piccolo incantesimo che conquista il lettore trascinandolo in un mondo straniante e sospeso Claire Devarrieux , «Libération»

Hotel Silence è il nuovo romanzo di Auður Ava Ólafsdóttir, vincitore dell'Icelandic Literature Prize ed eletto Libro dell'anno 2016 dai librai in Islanda, terra natale della scrittrice.

È la storia di Jónas, uomo di quarantanove anni con un talento speciale per riparare le cose. La sua vita però non è facile da sistemare: la madre oramai vive in un ospizio e soffre di demenza, ha appena divorziato e l’ex moglie gli confessa che la loro amatissima figlia in realtà non è sua. Tutte e tre le donne si chiamano Guðrún.

La vita di Jónas ruotava intorno a queste tre figure, «io faccio quello che le tre Guðrún della mia vita mi chiedono di fare», e ora la sua esistenza sembra aver perso di senso. Non si riconosce più davanti lo specchio: «Mi sento i muscoli della parte superiore del braccio, e mi sento gli addominali, ma non saprei dire se io sono quello oppure l’altro. Da questa parte ci sono io e dall’altra il mio corpo. Entrambi estranei allo stesso modo». E sceglie di farla finita.

Jónas non vuole lasciare a nessuno l’imbarazzo di disporre del suo cadavere, soprattutto a sua figlia, e decide di partire per un paese straniero (di cui la scrittrice non svelerà il nome), appena uscito da una sanguinosa e tragica guerra civile, con un solo cambio di vestiti e una cassetta per gli attrezzi – portata per mettere in atto il suicidio.

L’uomo alloggerà all’Hotel Silence, gestito da due fratelli, ancora in piedi ma bisognoso di molte riparazioni. L'incontro con le persone del posto e le loro ferite, in particolare con i due giovanissimi gestori dell'albergo,  fa slittare il suo progetto giorno dopo giorno... La sua buona manualità diventa fondamentale per la comunità. «Lirico e rassicurante (come la vita ogni tanto) è l’avanzare del romanzo, che mette a monte le asperità per lasciarsi ingentilire da incontri e accadimenti» (Tiziana Lo Porto, «D – la Repubblica»).

La Ólafsdóttir è stata capace di scrivere «un affascinante concentrato di poesia e fantasia, un piccolo incantesimo che conquista il lettore trascinandolo in un mondo straniante e sospeso» che, nonostante il continuo confronto fra la vita e la morte, fra la felicità e il dolore, è «pieno di grazia e umorismo» (Claire Devarrieux, «Libération»).

La crisi di Jónas è profonda, a tratti destabilizzante, ma Hotel Silence è anche «un affascinante romanzo sulle seconde possibilità e sui viaggi fatidici, pieno di tranquillità e speranza» («Publishers Weekly»), capace di alternare momenti struggenti ad altri pieni di spirito e tenerezza.

Con una prosa surreale, quasi kafkiana, la favolosa storia di Ólafsdóttir riguarda il risveglio inaspettato di un uomo. Una storia di trasformazione avvincente e sorprendente, raccontata in forma quasi allegorica Kirkus

Andrea Bajani

Promemoria si rivela dunque un libro attraverso cui scoprire diversi, inaspettati gradi della nostra realtà, viaggiare nel multiverso dei mondi possibili, raccogliendo il testimone, a distanza di trent’anni, di un altro importante esordio poetico: quello di Valerio Magrelli con Ora serrata retinae Bianca Garavelli, «Avvenire»

Con questo petit livre, «che ha la forma di annotazioni sul da farsi nel corso della giornata» (Antonio Prete, «il manifesto»), Bajani celebra con ironia, crudeltà e diffidenza il nonsense del mondo. Nel suo esordio in versi sceglie una scrittura poetica essenziale, richiamandosi così alla tradizione italiana del Novecento.

Ospite di Jovanotti al «Jova Pop Shop», l'autore ha ammesso che mettersi in gioco con la poesia «è stato come reimparare a parlare, a scrivere»; durante l'incontro il cantante, grande estimatore di Bajani, ha musicato e dato voce a due poesie di Promemoria.

I calibratissimi versi esprimono lo spaesamento, la solitudine, l'assenza. La scelta ricorrente dei verbi all'infinito rimanda sì all'appunto domestico da appendere, per ricordare, ma esprime anche la ripetitività delle azioni e situazioni umane. Per Tiziano Scarpa, Andrea Bajani è stato capace di ascoltare la nostra lingua, «non soltanto nella sua sapidità lessicale, ma nella sua muscolatura grammaticale; ha assecondato questa potenzialità, questa potenza; le ha obbedito. Fra le pieghe della grammatica ha trovato questa energia e l'ha fatta sprigionare», dando vita ad un libro «abissale».

Promemoria è un libro «che punta all'essenzialità. Il tema è la consistenza del linguaggio: le parole sono indumenti che vanno stretti, rifugi in cui chiudersi a chiave, urne per conservare reliquie, case da arredare, bestie che vanno in calore e abbaiano la notte» (Andrea Cortellessa, «Il Sole 24 Ore»).

Bisogna «lasciare una | sporta di parole per chi resta | lasciare una sporta a parte | per chi nel buio si dispera». Ecco allora che si intravedono come feritoia e spiraglio di speranza in un mondo ingannevole l'ironia e l'amore anche se il senso ultimo dell'esistenza rimane impenetrabile e «imprendibile» (Antonio Prete, «il manifesto»).

In ogni uomo dimora nel profondo una scatola nera, va trovata, suggerisce l'autore, e poi «ascoltata» e alla fine «colorata». Tanti sono gli spunti di riflessione suggeriti dalle parole incisive; è necessario capire perché e quando siamo morti, lasciare indietro i padri, «dentro la tagliola», per affrontare il cammino difficile del vivere.

Quando incontro un libro abissale mi tolgo lo zaino dalle spalle, lascio a terra il paracadute e mi tuffo. Quest’anno è successo con Promemoria di Andrea Bajani Tiziano Scarpa

Joe R. Lansdale

«Preparatevi a ridere a crepapelle per una battuta esilarante per poi coprirvi gli occhi davanti a una feroce sparatoria due righe più sotto».
«Booklist»

«Torbido e avvincente. Lansdale compone un intreccio pirotecnico, riuscendo al tempo stesso a parlare di amicizia, famiglia e lealtà come nessun altro».
«Publishers Weekly»

«Chi conosce Joe R. Lansdale ne consuma le pagine come si fa con le ciliegie».
Gianni Cuperlo

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La leggendaria coppia nata dalla penna di Joe R. Lansdale, alle soglie di una carriera trentennale, questa volta è alle prese con un omicidio a sfondo razziale che minaccia di far esplodere una cittadina dell'East Texas. Proprio quel Texas amato dall’autore, nonostante tutti i suoi difetti. Quel Texas che «ha scambiato ignoranza testarda per pensiero indipendente, ma che resta un posto pieno di gente interessante. Il Texas come stato mentale, un posto mitologico sulla terra reale» (Joe R. Lansdale intervistato da Gianni Cuperlo, «L’Espresso»).

Bastardi in salsa rossa inizia con Hap che, dopo esser stato ferito gravemente, ha realizzato di essere mortale; la sua testa però è dura, l'ha sempre avuta così e, anche se la «fatina della mortalità» ogni tanto turba le sue giornate, ha deciso di riprendere il lavoro con Leonard, il suo storico amico e collega.

Una donna di colore, Louise Elton, che vive a Camp Rapture, un quartiere violento e difficile dove i bianchi non piacciono, dove le regole non esistono, una sorta di Far West, vuole che si indaghi sulla morte del figlio che è stato, secondo lei, assassinato da tre poliziotti bianchi.

Il ragazzo, Jamar, era uno studente modello al Liceo e all'Università; la sua colpa è stata quella di voler far luce sulle molestie subite dalla sorella ad opera di Coldpoint, un agente corrotto. Ci sarebbe un testimone che ha assistito al pestaggio, tale Timpson, e l'indagine parte tra intimidazioni, dubbi, tensioni. Il problema principale è che non esiste alcuna prova del fatto che dei poliziotti l’abbiano ucciso. La sua storia non regge.

Il linguaggio del romanzo è duro come dura è quell'America che l'autore è abituato a raccontare; Lansdale, intervistato da Gianni Cuperlo per «L’Espresso», ha sottolineato come negli Stati Uniti i neri e la polizia abbiano sempre avuto un rapporto scomodo. Succede soprattutto in zone economicamente depresse, dove «i poveri vengono trattati come cittadini di seconda classe, come se fossero nati con il desiderio di essere dei fallimenti e vivere in povertà» (Joe R. Lansdale intervistato da «Gianni Cuperlo, L’Espresso»).

La sottotraccia etico-politca accompagna la storia, trascina il lettore in ambienti dove il male, il bene e la verità sono a volte difficile da distinguere. E lo fa divertendo: «chi conosce Joe R. Lansdale ne consuma le pagine come di fa con le ciliegie» (Gianni Cuperlo, L’Espresso»). C’è violenza ma c’è anche giustizia, sono due lati di una stessa medaglia, quella degli Stati uniti. C’è Hap «che pensa di aver tradito i suoi ideali, anche quando cerca di vivere rispettandoli»; e c’è Leonard, «un uomo pratico che accetta ciò che è». I personaggi «sono Yin e Yang, e si scambiano queste posizioni».

Insomma, «preparatevi a ridere a crepapelle per una battuta esilarante per poi coprirvi gli occhi davanti a una feroce sparatoria due righe più sotto» («Booklist»).

Maurizio de Giovanni

Un uomo viene trovato in un cantiere della metropolitana privo di documenti e di cellulare; qualcuno lo ha aggredito e percosso con violenza. Trasportato in ospedale, entra in coma senza che nessuno sia riuscito a parlargli. Di far luce sull'episodio sono incaricati i Bastardi, che identificano la vittima: è un americano in villeggiatura a Sorrento con la sorella e la madre, un'ex diva di Hollywood ora affetta da Alzheimer. Recandosi a piú riprese nella cittadina del golfo, vestita fuori stagione di un fascino malinconico, i poliziotti si convincono che la chiave del caso sia da ricercare in fatti accaduti là molti anni prima.

 

Souvenir è il nuovo capitolo della serie che vede protagonisti Lojacono e gli altri poliziotti di Pizzofalcone, alle prese con un mistero che ha la sua soluzione in un ricordo lontano e che li porta a uscire, per la prima volta, dalla città.

Un uomo, fra i cinquanta e i sessant'anni, senza documenti e cellulare, giace morente per una serie di percosse violente nel cantiere della metropolitana. In fin di vita viene portato in ospedale, dove inizia la sua personale battaglia contro la morte. Il quartiere dove è stato trovato è Pizzofalcone, proprio quello dei Bastardi, l'armata «irregolare e disordinata» che nel tempo inizia a farsi apprezzare, e della quale «nessuno ride più».

L'ispettore Lojacono e i suoi colleghi, di cui il lettore ormai conosce carattere e inquietudini, devono indagare;  Aragona, munito di un esilarante nuovo capo di abbigliamento, scopre ben presto l'identità della vittima, un americano ospite di un albergo di Sorrento, il Tritone. È il figlio di un’attrice che nel passato è stata una diva del cinema ma che ora è malata di Alzheimer. La donna da giovanissima aveva girato un film, Souvenir, proprio nella costa sorrentina. Forse la chiave del delitto è proprio nel passato, un tempo lontano che, però, «non può essere cancellato».

I poliziotti devono incrociare il presente con quel tempo lontano e sono costretti ad uscire dalla propria città, dal proprio quartiere; emerge una storia d'amore, struggente come un film, che era iniziata in una notte di luna cinquant'anni prima, quando una bellissima giovane donna si era recata a incontrare un uomo che apparteneva a un mondo troppo distante dal suo: aveva molto da perdere ma era certa che ne valesse la pena.

La vicenda si svolge a ottobre, mese usato da De Giovanni come splendida metafora che accompagna il lettore per tutto il racconto: «quasi personificandolo, gli dedica un potente e poetico inserto e lo fa ritornare come un filo rosso in tutto il libro» (Alessia Rastelli, Corriere della Sera, link). Ottobre è il mese da cui è «difficile pretendere sincerità», quando «c’è il mare a sussurrare tutte le avventure della spiaggia e del tempo appena passato che non vuole passare».

Lo scorso anno i Bastardi di Pizzofalcone hanno fatto la loro apparizione anche in tv, nell'omonima serie prodotta e trasmessa da Rai 1: il successo della prima stagione è stato grande e il 27 ottobre sono iniziate le riprese per la seconda, in onda nel 2018. A interpretare l’ispettore Lojacono sarà sempre Alessandro Gassmann.

 

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Luigi Palma, detto Gigi:
commissario.
Souvenir di una brillante carriera.

Giorgio Pisanelli, detto il Presidente:
sostituto commissario.
Souvenir di qualcosa che sembrava qualcos'altro.

Giuseppe Lojacono, detto il Cinese:
ispettore.
Souvenir di un sospetto e di una scoperta.

Francesco Romano, detto Hulk:
assistente capo.
Souvenir di un matrimonio felice.

Ottavia Calabrese, detta Mammina:
vicesovrintendente.
Souvenir di un fine giornata.

Alessandra Di Nardo, detta Alex:
agente assistente.
Souvenir di un colpo al cuore.

Marco Aragona, vorrebbe essere detto Serpico:
agente scelto.
Souvenir di una sciarpa di scena.