Giulio Einaudi editore

Intervista a Paul Murray Il giorno dell’ape

Firenze, 3 marzo 2025

Abbiamo incontrato Paul Murray a Firenze, in occasione della presentazione a Testo de Il giorno dell’ape, il suo nuovo romanzo appena uscito in Einaudi Stile Libero. Prossimamente pubblicheremo anche il secondo romanzo dell’autore irlandese, Skippy muore, uscito la prima volta in Italia nel 2010 per Isbn Edizioni.

«Ma qui per me i giorni migliori sono quando tremo di paura». Il romanzo si apre con un’epigrafe dal Sonetto sacro XIX di John Donne, una poesia sull’incostanza della fede. Ne Il giorno dell’ape, vediamo i personaggi lottare con il senso di colpa, il destino e la redenzione personale, temi con forti connotazioni religiose. Vedi il tuo romanzo come un’opera che affronta idee religiose, in particolare legate al cattolicesimo?

Non credo, almeno non direttamente. A volte, quando ripenso al libro, mi sorprende che ci sia così poca religione. Certo, fino a poco tempo fa l’Irlanda era un luogo fortemente religioso, ma la maggior parte dei personaggi del libro, anche quando le cose gli vanno molto male, non sembra percepire una forza superiore a cui rivolgersi. Sì, c’è un’occasione degna di nota in cui il piccolo PJ prega, ma per il resto, anche quando vanno in chiesa, non credono davvero che qualcosa possa aiutarli, e questo li mette in una situazione difficile. Avevo un’altra epigrafe che volevo usare, presa da John Berger: diceva più o meno così: «Quello che non capivo da giovane è che il passato non scompare, ma si raccoglie intorno a te come una placenta per il morente». Trovo che sia davvero bella. Ma il mio editor pensava che fosse troppo deprimente per il libro. Così ho scelto John Donne, che in fondo dice che quando le cose vanno malissimo, almeno sai di essere vivo. Sei scosso dalla paura, ma almeno sei consapevole della tua esistenza. Invece nei giorni normali sei in una sorta di torpore e non presti davvero attenzione al tempo che passa. I personaggi del libro sono sottoposti a uno stress enorme: tutto ciò in cui credono, tutto ciò che li lega gli uni agli altri e al mondo viene messo in discussione. E così si arriva all’essenza di ciò che sono, nel bene e nel male.

La tradizione dei Sidhe appare sia in Skippy muore che ne Il giorno dell’ape, ma in modi diversi: nel primo confonde i piani della realtà nella scuola in cui è ambientato, mentre nel secondo assume una presenza più cupa e fatalista. Cosa ti attrae di questo aspetto del folklore irlandese e come vedi il suo ruolo cambiare tra questi due romanzi? Pensi che miti come questo influenzino ancora la vita irlandese contemporanea?

Sidhe, o - se volete - le fate, sono una superstizione molto antica, ma non sono creature graziose e svolazzanti con vestiti eleganti. Sono esseri piuttosto sinistri, il cui mondo si sovrappone al nostro. Il loro mondo e il nostro occupano lo stesso spazio, ma di solito non possiamo vederli. Tuttavia, ci sono punti nel nostro mondo in cui i due piani si toccano: in Irlanda potrebbero essere per esempio un albero o una collina, e lì è più probabile incontrare i Sidhe. Ed è pericoloso, perché sono capricciosi e piuttosto crudeli: potrebbero maledirti, ucciderti le mucche, rubarti il bambino o girarti le orecchie al contrario, cose del genere. Non sono una persona superstiziosa, non credo a queste cose, ma trovo affascinante l’idea di un mondo dentro al nostro, un mondo che a volte lavora contro di noi, altre volte è semplicemente indifferente, ma è sempre lì. Viviamo in un’epoca in cui ci dicono continuamente che tutto è stato capito: gli scienziati, gli economisti e i grandi della tecnologia con i loro computer hanno risolto il problema dell’esistenza. Ma è bello avere una superstizione che ci ricordi che non esiste una soluzione all’esistenza, che non è qualcosa che si può «risolvere». E proprio quando pensi che tutto stia andando alla grande, qualcuno ti gira le orecchie al contrario.

Nei due libri, la stessa storia appare in forme diverse. Facendo ricerche sul folklore irlandese per Skippy muore, ho usato i Sidhe per evidenziare come il passato, ovunque, continui sempre a influenzare il presente. In Irlanda, però, questo concetto si manifesta fisicamente nelle tombe disseminate ovunque nel paesaggio, i tumuli neolitici. Newgrange è il più famoso, ma ce ne sono ovunque. Sono il mondo sotterraneo, quello dei morti. Tendiamo a cancellare la morte dalla nostra vita quotidiana, ci piace considerarci esseri superiori con i nostri telefoni, ma il paesaggio irlandese ci ricorda costantemente che il passato è reale. E questo significa che la morte è reale. Un giorno saremo tutti in una tomba, giusto? Quindi, i Sidhe offrono ai ragazzi nel libro una via di fuga, suppongo. Forse non funziona davvero, ma sembra dare loro un’opportunità per sfuggire a un certo tipo di indottrinamento sulla realtà aziendale a cui sono sottoposti a scuola.

Ne Il giorno dell’ape il concetto è più esplicito. La storia dei Sidhe racconta di un viaggiatore che si addormenta su una collina magica. Quando si risveglia, entra dentro la collina e si ritrova in mezzo a persone bellissime, con capelli dorati e gioielli sfarzosi, che stanno banchettando in una festa sontuosa. Gli offrono cibo e bevande, fanciulle danzano per lui, e tutto sembra andare magnificamente. Ma poi, il giorno dopo, si risveglia di nuovo sulla collina. Tutto è sparito, svanito nel nulla. Per Imelda, questo diventa un monito, perché lei viene da un ambiente povero, ma incontra questa famiglia ricca. Conosce un ragazzo molto benestante, Frank, il figlio di un concessionario d’auto. Ai suoi occhi, sembrano possedere una ricchezza infinita. Viene attratta in questo mondo, dove le sembra che tutti i suoi problemi possano semplicemente svanire. Per persone come loro, quelle cose non sono nemmeno problemi. Ma poi succede la stessa cosa. Il destino interviene, e tutto scompare. Si risveglia, e non le è rimasto più nulla.

All’inizio de Il giorno dell’ape, Miss Grehan dice a Cass che la poesia «fa l’opposto di fingere» e può essere liberatoria. Nel romanzo, la poesia gioca un ruolo silenzioso ma significativo, soprattutto in contrasto con le illusioni dei vari personaggi. Vedi la poesia come un antidoto al rifiuto della realtà nel libro? E, più in generale, pensi che la poesia abbia ancora il potere di dire la verità nella vita contemporanea?

Sì, nel libro Miss Grehan dice che il mondo sarebbe un posto migliore se tutti, una volta al giorno, invece di guardare il telefono leggessero una poesia. In realtà, anche solo se lo facessi io stesso. Vorrei riuscirci. Vorrei avere la disciplina per farlo. Ma sì, credo che il punto sia questo: siccome oggi abbiamo così tante possibilità di scegliere dove rivolgere l’attenzione, non ci rendiamo conto di come si tratti di una scelta illusoria. In realtà, guardiamo sempre le stesse cazzate. E se leggi una poesia, invece, è tutto un altro ordine espressivo, in cui qualcuno scava dentro di sé. La poetessa citata nel libro è Sylvia Plath, ma nei miei romanzi c’è quasi sempre un poeta: nel primo era Yeats, in Skippy muore Robert Graves. Penso che esistano altri modi di vedere il mondo, altri modi di vivere che possono liberarci dalle svariate luccicanti prigioni in cui ci chiudiamo da soli. Sì, ovviamente oggi è un lavoro difficile essere poeti, ma bisogna continuare a crederci.

La domanda sorge spontanea: tu scrivi poesie?

Circa una volta all'anno scrivo una poesia molto brutta. Non ci riesco, no, proprio no. Non riesco nemmeno a scrivere testi per canzoni. Quando ero in una band e provavo a scrivere canzoni mi chiedevo: ma come si fa a scrivere i testi? Ho bisogno di una storia. Posso creare immagini e collegarle a emozioni, ma deve esserci uno sfondo narrativo.

Ne Il giorno dell’ape c’è un passaggio che sembra quasi un non sequitur:
«Il romanzo è stato il primo esempio di quel che sarebbe poi diventata la vasta e tentacolare industria dell’intrattenimento nel XXI secolo, una macchina pressoché infinita progettata per distrarci e indebolirci. Ci viene presentato un mondo virtuale, alimentato in tutto e per tutto dall’incenerimento del reale». Questa frase ha sorpreso Sandro Veronesi che, pur definendo Il giorno dell’ape uno dei migliori romanzi di questo secolo, si è chiesto come mai un’argomentazione spesso usata per screditare il romanzo comparisse in un libro che in realtà dimostra l’esatto contrario. E così si risponde da solo: «Il romanzo è onnivoro ed è nato con anticorpi pronti a resistere a questo tipo di attacchi e persino a nutrirsene».
Perché hai incluso questo passaggio e cosa pensi dell’interpretazione di Veronesi?

Beh, arrivati all’ultima parte del libro, in cui ci sono parecchie scene con Cass all’università, lei ha quest’insegnante molto affascinante e intelligente di nome jj. Nella prima bozza del romanzo, jj aveva molto più spazio e teneva una lunga lezione, ispirata a un mio professore del college che ci disse che un libro non è diverso da una rivista o da una pubblicità di carta igienica, che erano solo parole. Voleva scioccarci con questa visione piuttosto nichilista del romanzo, che io trovai davvero offensiva. Nella prima stesura, quel passaggio che hai citato riguardava più il tema del genere, perché il romanzo, come forma d’arte, fu inventato per essere letto dalle donne. Nel diciottesimo secolo, le donne della classe media rimanevano a casa e i mariti si preoccupavano di cosa avrebbero fatto tutto il giorno senza un lavoro. Così il romanzo divenne un passatempo coinvolgente, un’arte destinata a persone escluse dal potere, offerta loro come intrattenimento.

Oggi non parliamo più delle donne del Settecento, ma abbiamo un milione di ore di Netflix, e intanto sembra quasi che non abbia più importanza per chi votiamo. I miei editor a un certo punto mi hanno detto che ero vicino alla fine del libro e che dovevo far scorrere la narrazione più velocemente, e mi hanno suggerito di tagliare alcune parti. Ma quel passaggio lo volevo proprio tenere. Credo che ogni scrittore del XXI secolo s’interroghi su qual è il senso della scrittura. C’è un diluvio di oscurità nichilista che ci assale continuamente, e finisci per domandarti: «Perché sto facendo tutto questo?» C’è una scena in cui Cass segue un corso di poesia e tutte le poesie che leggono sono nello stile di Seamus Heaney: parlano di more, cigni, querce e così via — tutte cose che, nel frattempo, vengono abbattute e sterminate senza sosta. Ma le poesie non ne parlano, e così lei pensa che i poeti siano bugiardi. Volevo che il libro riconoscesse la situazione in cui ci troviamo: la nostra vita quotidiana si basa sulla distruzione della natura. Questo è un fatto. Non è un proclama politico o un discorso da comizio, è un dato scientifico. La visione nichilista del romanzo è un veleno che ci viene costantemente somministrato, goccia a goccia. Se leggi qualsiasi cosa dica Elon Musk, o l’intero progetto dell’intelligenza artificiale, il messaggio è lo stesso: non c’è nulla di speciale o autentico nell’espressione e nella comunicazione umane. Sono solo parole prive di significato, e un computer potrebbe farlo gratuitamente. Credo che i lettori debbano interpretare il significato del passaggio per conto loro, ma per me il senso era questo.

Quindi volevi lasciare il lettore perplesso?

Beh, Cass è esposta a tutti questi discorsi, ma alla fine del libro riesce a pubblicare una sua poesia sulla rivista dell’università. Questo significa che non ha accettato quel ragionamento. Non crede che la scrittura sia solo intrattenimento. Pensa che scrivere una poesia abbia comunque un valore, anche se è la cosa più insignificante che si possa fare. È come lanciare un sassolino contro un missile nucleare. È una cosa minuscola, ma allo stesso tempo, per un po', le dà senso alla vita.

Il libro
  • Paul Murray

    Il giorno dell’ape

    2025
    La famiglia Barnes è nei guai. La concessionaria di Dickie sta per fallire, ma lui, invece di affrontare la situazione, trascorre le giornate costruendo un bunker a prova di apocalisse. La moglie Imelda, nel frattempo, si è messa a vendere i gioielli su eBay, la...