Giulio Einaudi editore

Intervista a Colm Tóibín Il mago di Enniscorthy

Roma, 23 marzo 2025

Abbiamo incontrato Colm Tóibín a Roma, in occasione della sua partecipazione al festival letterario Libri Come. Tóibín è nato a Enniscorthy, in Irlanda, nel 1955 e ha pubblicato finora undici romanzi, due raccolte di racconti, una raccolta di poesie (Vinegar Hill, Interno Poesia editore, 2024) e quattordici libri di saggistica. Presso Einaudi ha pubblicato La casa dei nomi, Il Mago, Long Island e l’edizione tascabile di Brooklyn.


Molti dei tuoi personaggi sembrano trovarsi in bilico tra due mondi, tra il vecchio e il nuovo, tra il paese natale e l’America, tra i doveri familiari e i desideri personali. Cosa ti attrae di questa dinamica?

Credo che il grande dramma dell’Irlanda nel XX secolo, e forse anche di altri paesi — il sud Italia, per esempio, o molti paesi africani — sia il movimento delle persone, le grandi migrazioni. E questo porta con sé un dramma personale straordinario che spesso viene cancellato dalla storia, perché chi si muove, la prima generazione che emigra in America, per esempio, non ha tempo di scrivere libri: è troppo impegnato a costruirsi una vita. Spesso sono i figli o i nipoti a scrivere di quell’esperienza, ma dalla prospettiva della seconda o della terza generazione. È un tema che trovo molto interessante. E naturalmente non è qualcosa che è capitato solo ai poveri: con l’ascesa del nazismo è successo anche a uno come Thomas Mann. Dopo il 1933 non è più rientrato in Germania, ha perso due case, diversi conti bancari, molti quadri. Aveva costruito tutto un patrimonio: era un grande borghese, aveva due automobili, viveva molto bene. E poi improvvisamente si ritrova in California. Il fatto è che non aveva davvero imparato bene l’inglese. Non ebbe mai un amico americano. È stato in America dal ’37-’38 fino al 1952, ma come molti esuli tedeschi, non strinse legami. Non amavano gli americani. Pensavano semplicemente che non facessero per loro.

Come racconti ne Il Mago! E il tuo recentissimo racconto per il New Yorker, Five Bridges, parla di ritorno — dall’America all’Irlanda.

Sì, credo che oggi la questione dell’essere «illegali» in America abbia una valenza tutta nuova. Nei tre giorni intorno all’insediamento di Trump — diciamo dal venerdì al lunedì — ho lavorato ininterrottamente per scrivere un racconto ambientato proprio in quei giorni. Il mio protagonista è un irlandese che è stato clandestino in America per molti anni e decide di tornare a casa proprio in quel lunedì. Quindi la storia monta nel corso del fine settimana: sabato fa una lunga passeggiata con la figlia, e tutto si accumula fino a quella decisione. Ho scritto mentre quegli stessi giorni stavano accadendo nella realtà: la domenica, mentre scrivevo, sapevo che “domani, lunedì, lui tornerà”. Tutto in tempo reale.

Un po’ come ha fatto Ali Smith nel suo Seasonal Quartet.

Esatto, lei inserisce gli eventi in tempo reale. È molto divertente, perché hai la sensazione non tanto di scrivere narrativa, quanto di essere immerso nel momento storico.

Chi si muove non ha tempo di scrivere libri: è troppo impegnato a costruirsi una vita. Colm Tóibín

Five Bridges è nato come racconto o potrebbe essere l’inizio di un romanzo?

No, è un racconto. Non penso di farne altro. Ho quel personaggio in quel momento. Penso che un racconto debba avere un presente molto intenso, con forse qualche elemento di passato. Ma se rendi quel «presente» abbastanza forte, poi non riesci più a tornarci sopra. Non puoi continuare a giocarci.

E a questo punto saresti già in ritardo per scriverne in presa diretta.

Esatto. A meno che il protagonista del racconto non volesse tornare in America, ma non credo.

Il tuo stile è spesso caratterizzato da un certo riserbo. La tensione si costruisce più sul non detto che su ciò che è esplicitato. Questo è particolarmente evidente in Long Island, dove i momenti chiave — come la scena all’hotel Montrose — restano in sospeso, lasciando molto spazio all’immaginazione del lettore. Diresti che è una degli elementi centrali del tuo modo di scrivere?

È difficile giudicare questo aspetto, sapere quando è giusto lasciar fuori qualcosa. In Brooklyn, per esempio, anche se Eilis parte per la prima volta, la scena in cui dice addio a sua madre non è nel libro. Perché? Perché sarebbe stato un cliché: il lettore sa già che tipo di emozione comporta. Se una scena non serve, non la scrivo e vado avanti. In Long Island c’è stato un caso particolare: Eilis e Jim sono in hotel, ed è evidente che in qualche modo faranno sesso, ma sono entrambi molto riservati. Non ne parlerebbero mai. Quindi ho deciso di chiudere la porta — e lasciarla chiusa su qualunque cosa sia successa. Sappiamo che è successo qualcosa, ma non volevo entrare nei dettagli. Quindi sì, molte scene semplicemente non ci sono.

Invece le scene in cui Eilis nuota, sia in Irlanda che in America, sembrano avere sempre un significato importante, quasi segnano un punto di svolta nei romanzi. Come mai?

Perché se cresci in Irlanda, come è successo a me, e vivi a pochi chilometri dal mare, d’estate ci vai davvero in spiaggia. Affittavamo una casupola direttamente sul mare. L’acqua era fredda. Mia madre era molto tosta: entrava dritta in acqua e nuotava via. Noialtri invece eravamo congelati. Stavamo lì, con l’acqua alle ginocchia, sperando che succedesse qualcosa per non dover entrare del tutto. L’idea di immergersi completamente in quell’acqua… non è ghiacciata, ma è fredda. Semplicemente non riuscivamo a farlo. E per me è sempre stata una cosa enorme. Qualcuno mi ha detto che in tutti i miei romanzi c’è una scena in cui qualcuno deve entrare in mare, nel mare freddo. In ogni libro. Avrei voluto saperlo fin dall’inizio — ma è successo sempre per caso. Non ho mai deciso consapevolmente di includere una nuotata in ogni libro, ma in qualche modo ci è finita sempre dentro. Immagino perché per me è un momento importante, ogni anno. Ho dei veri e propri rituali. Ogni anno, quasi sempre l’ultimo giorno di agosto, vado al mare. Dopo diventa davvero troppo freddo. Ora sono più coraggioso di quanto lo fossi da ragazzo. Devo dire che non rimango più per ore a esitare, sperando di non dover entrare.

In un’altra intervista hai detto che «Dio ha inventato l’adulterio per permetterci di scrivere romanzi».

Sì. In America c’è un problema particolare: i ragazzi, diciamo sui vent’anni, ce l’hanno proprio con chi «tradisce» — usano la parola cheaters. Io associo «cheating» a barare a carte: giochi a poker, prendi una carta e bari. Ma loro usano quella parola con un senso morale molto forte. Quando cerco di parlare di un romanzo, dico: «Mi dispiace, ma se Madame Bovary non tradisce, non c’è il libro. Non abbiamo niente». Quindi, perché esiste l’adulterio? Forse è una cosa orribile, ma Dio l’ha creata per i romanzi, così gli scrittori possono avere una storia. Solo che gli studenti non trovano divertente questa affermazione — soprattutto in America.

E in Long Island c’è Tony, e il suo tradimento è ciò che scatena la reazione di Eilis.

Esatto. Sono cose che accadono. E se non accadono in un romanzo, non accade niente. Se scrivi: «Era felicemente sposata, si alzò la mattina dopo, era ancora felicemente sposata, preparò la colazione, uscì, tornò, lui la baciò, lei disse: “Che bello vederti” e lui: “Che bello vederti anche per me”», non è un romanzo, è noia. E allora Dio deve intervenire per far scorrere la storia.

Enniscorthy è la cittadina irlandese dove sei nato e dove hai vissuto fino al 1976, l’anno esatto in cui si svolgono i fatti raccontati in Long Island. Come hai scritto in un bellissimo saggio su Enniscorthy, i lettori hanno l’impressione di osservare ciò che accade dalla finestra, mentre girano le pagine. Hai mai avuto delle reazioni da parte degli abitanti della città su come la descrivi nei tuoi libri?

Sì, assolutamente. Mai avuto problemi. Credo che gli scrittori irlandesi abbiano avuto qualche difficoltà in passato — negli anni ’50, all’inizio degli anni ’60. Edna O’Brien, per esempio, o John McGahern. Scrivevano da una prospettiva locale e questo creava tensioni. Ma le cose sono cambiate. Anzi, ormai è quasi il contrario: tutti sono molto gentili.

  • Colm Tóibín

    La casa dei nomi

    «Tóibín tramuta i miti greci in carne e sangue. La scrittura è come sempre elegante, asciutta e precisa. Il rapporto fra Clitennestra ed Egisto, cupamente voluttuoso».
    «The Times»

    «Questo romanzo è un inno a ciò che il romanzo può fare. Ci offre introspezione, dettaglio, e tutto...
    pp. 272
    € 19,50
  • Colm Tóibín

    Brooklyn

    L'America vista dagli occhi di una giovane irlandese che emigra in cerca del suo posto nel mondo.
    pp. 312
    € 13,00
  • Colm Tóibín

    Il Mago

    Un romanzo su Thomas Mann che si legge come un romanzo di Thomas Mann. Un ritratto di elaborata sensibilità, in cui si riflette l'inquieto smarrimento del ventesimo secolo.
    pp. 512
    € 15,50
  • Colm Tóibín

    Long Island

    La vita di Eilis Lacey a Long Island, accanto al marito Tony, ai due figli adolescenti e a una famiglia italo-americana troppo ingombrante, all'improvviso è andata in pezzi. Ma tornare in Irlanda dopo vent'anni significa per Eilis ritrovare una madre che non l'ha mai perdonata,...
    pp. 280
    € 20,00