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I demoni
«Tradurre è un'arte: il passaggio di un testo letterario, qualsiasi sia il suo valore, in un'altra lingua richiede ogni volta un qualche tipo di miracolo».
Italo Calvino
«I demòni è una delle quattro o cinque opere che considero una spanna sopra le altre. È un romanzo profetico non solo perché annuncia il nostro nichilismo, ma anche perché mette in scena anime dilaniate e morenti, incapaci d'amare e sofferenti di non poterlo fare, che vogliono e non possono credere».
Albert Camus
«Dopo Dostoevskij tutto sembra insipido. Come se fossimo stati in un altro mondo dove altre sono le dimensioni, e ritornassimo nel nostro mondo misurato e limitato, nel nostro spazio a tre dimensioni. Una lettura profonda di Dostoevskij è sempre un avvenimento nella vita, e l'anima riceve un nuovo battesimo di fuoco. L'uomo che ha avuto contatto col mondo di Dostoevskij diventa un uomo nuovo, e a lui si aprono nuove dimensioni dell'essere».
Nikolaj Berdjaev
Il libro
Uscito a puntate sulla rivista «Russkij Vestnik» («Il messaggero russo») tra il gennaio 1871 e il dicembre 1872, I demòni nasce come immediata reazione a un fatto di cronaca, il cosiddetto «caso Necaev». Il 21 novembre 1869, a Mosca, i membri di una cellula terroristica della Narodnaja Rasprava (Giustizia sommaria del popolo), guidati da Sergej Necaev, avevano assassinato il loro compagno Ivan Ivanov, colpevole di insubordinazione e sospettato (a torto) di tradimento. Fëdor Dostoevskij, in esilio volontario a Dresda, apprende la notizia dai giornali russi e subito decide di accantonare i progetti letterari piú o meno grandiosi che gli affollano la mente, per scrivere un romanzo-pamphlet ispirato proprio a quella vicenda sanguinosa. Intende mettervi in caricatura la nuova generazione dei nichilisti, fanatici e brutali, ma anche denunciare il loro legame con gli irresponsabili «padri», i «liberali idealisti», gli occidentalisti e i socialisti degli anni Quaranta per cui lui stesso aveva simpatizzato, prima dell’arresto e dei lavori forzati. «Sto scrivendo una cosa tendenziosa», scrive all’amico A. Majkov il 25 marzo 1870, «ho voglia di essere sferzante. I nichilisti e gli occidentalisti strilleranno che sono un retrogrado! E vadano al diavolo, dirò la mia, fino all’ultima parola». Ma la composizione dell’opera è tormentosa e procede tra difficoltà con l’editore e ripensamenti. Dostoevskij inventa un narratore (il «cronista») che partecipa marginalmente all’azione, la trasporta in una sonnolenta città di provincia, inserisce un complesso intrigo amoroso e una folla di nuovi personaggi, alcuni buffoneschi, altri luminosi, per ciascuno dei quali elabora un linguaggio, uno stile particolare. Cosí col tempo il libello satirico diventa potente, profetico romanzo di idee, nera tragedia. E soprattutto grandiosa riflessione sul problema che sempre tormenta l’autore, quello della ricerca di Dio e del Male. Nei demòni-nichilisti che seminano caos e violenza, il Male assume tante forme ma resta uno scandaloso mistero, poco scalfito dalle spiegazioni che Dostoevskij esplicita o suggerisce: la malattia, le ferite dell’infanzia, vizi come la superbia, la lussuria, l’accidia e la viltà, lo sradicamento dalla terra e dalla fede del popolo, «l’idea» che «divora» e toglie umanità e compassione, fino a imporre «il dovere di uccidere». È questo stesso mistero del Male che rende indimenticabili e inquietanti la figura e la sorte del demonio-principe Stavrogin, il personaggio attorno a cui tutto ruota, il piú ambiguo e fascinoso, il piú tragico e forse il piú amato dal suo autore.