Giulio Einaudi editore

Edna O’Brien 1930-2024

di Mario Capello

In una splendida intervista rilasciata alla Paris Review (per la serie The Art of Fiction, la n. 82), O’Brien afferma che quello che conta, in una storia, non è la trama, il plot, ma la verità dell’immaginazione, e la perfezione e la cura con cui viene resa. O’Brien usa un’espressione più colorita per mettere da parte la trama (f**k the plot), un perfetto esempio di quella dialettica di forza espressiva ed eleganza che caratterizza la sua opera (e anche della sua precisione nella scelta delle parole). Non è tanto la volontà di disprezzare la trama, quanto il voler sottolineare l’importanza di arrivare a cogliere la «verità», la necessità, per ogni scrittore degno di questo nome, di provare a renderla nella maniera più esatta possibile su quella superficie piatta, eppure abissale, che è la pagina. E O’Brien l’ha perseguito, questo compito inesausto, per tutta la vita, e come pochi altri.

Fin dall’esordio, quel Ragazze di campagna che ha avuto il raro privilegio di essere bruciato sul sagrato della chiesa della sua contea d’origine, in Irlanda, i suoi testi fervono di vita, e di immaginazione. Sono quasi troppo pieni, nonostante la pulizia formale, la perfezione della scrittura. La vita – concitata, sporca, tramata di desideri e fantasie e sesso – sembra tracimarne. Tutti i suoi romanzi sono, per questo, opere allo stesso tempo complesse e raffinate e perfettamente accessibili, coinvolgenti – difficile che un lettore possa non riconoscersi, almeno in parte, in uno dei suoi personaggi, e non restarne ammaliato, non soffrire con e per loro. Sono soprattutto donne, certo, per una questione di affinità e perché, per citare nuovamente l’intervista di cui sopra, «Women are better at emotions and the havoc those emotions wreak», «le donne se la cavano meglio con i sentimenti e i disastri che provocano». Ma proprio per questo voglio ricordare, tra i suoi tanti capolavori al femminile, una piccola gemma, un racconto tratto da Oggetto d’amore (Stile libero 2016). Si intitola I re della pala e mette in scena l’improbabile, e per questo splendida, amicizia tra un’intellettuale irlandese émigrée e uno sterratore di quelli che dall’Isola di smeraldo si erano riversati a Londra per ricostruirla, per farne, di nuovo, una delle capitali del mondo. È un racconto in cui accade poco o nulla, fatto di bevute, nostalgia per un paese che può essere forse amato solo da lontano, emozioni tanto sentite quanto mal, o mai, espresse. E pieno di verità, sì, di immaginazione e verità.