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Paul Auster, 1947-2024 Tra il quotidiano e il mito
di Andrea Canobbio
Per una di quelle sincronie che lo affascinavano tanto, Paul Auster è morto nel giorno in cui la polizia in tenuta antisommossa ha assaltato la Columbia University occupata dagli studenti, come nei tumultuosi giorni del 1968 che ritornano in molti dei suoi libri: allora protestavano contro la guerra in Vietnam e il reclutamento dei Marines all’interno dell’università, oggi contro il massacro di civili inermi a Gaza. Nel 1968, studente della Columbia, Auster era un contestatore svogliato e non troppo convinto, e il suo impegno politico (si definiva “molto più a sinistra del partito democratico”) trovò poi nella letteratura uno strumento forte attraverso il quale esprimere il proprio dissenso. La sua opera è attraversata da una riflessione radicalmente pessimista sulla natura del potere, ed è sufficiente leggere alcuni dei suoi libri più noti, La musica del caso, Leviatano, Uomo nel buio fino al più recente 4321, per rendersene conto. Mi piace ricordare questa versione battagliera di Paul Auster (che fu tra l’altro a lungo impegnato in prima fila con il PEN Club), perché nei trent’anni in cui l’ho frequentato ho parlato con lui molto di letteratura, ma altrettanto spesso di politica: gli argomenti non mancavano da entrambi i lati dell’oceano. Il libro con cui si congederà dal pubblico italiano si intitola Un paese bagnato di sangue (uscirà il prossimo autunno da Einaudi) ed è uno straordinario pamphlet contro la diffusione delle armi da fuoco negli Stati Uniti e le fondamenta di violenza che reggono la storia americana.
In una frase di Peter Brook che Auster citava spesso, è nascosto forse il segreto della sua scrittura: “Nel mio lavoro cerco di combinare la vicinanza del quotidiano alla distanza del mito. Perché senza vicinanza non ci si può commuovere, e senza distanza non ci si può meravigliare”. La vicinanza del quotidiano si manifesta nei suoi libri nell’attenzione al dettaglio banale e nello stile realistico della narrazione. I romanzi partono talvolta dal micromondo della scrittura stessa: un taccuino intonso, una penna stilografica, oppure una macchina per scrivere, una scrivania in una stanza chiusa, isolata dal mondo. Poi arriva l’ondata di marea delle storie che investe il lettore e lo trascina per pagine e pagine, lontano. Auster ha trovato un modo unico per inserirsi nel solco della tradizione novecentesca di sovvertimento dei dogmi della letteratura, coltivando nello stesso tempo il gusto per un’arte antica, preromanzesca della narrazione. Ho sempre ammirato i suoi libri più famosi, da L’invenzione della solitudine a Trilogia di New York, ma il libro a cui sono più affezionato e in cui riaprendolo ritrovo lo scrittore che conoscevo, è un suo romanzo meno noto, La notte dell’oracolo. Raccontando l’avventura del giovane scrittore Sydney Orr, Auster porta a zonzo il lettore, apparentemente con lo scopo di fargli perdere l’orientamento, seguendo una linea narrativa ondivaga e tortuosa, e poi con un virtuosismo stupefacente riesce a trasformare quella stessa linea in una retta impeccabile, e il romanzo divagante in un intreccio perfetto.
Andrea Canobbio da «doppiozero», link