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Cormac McCarthy 1933-2023
di Grazia Giua
A volte la morte è generosa. A noi quella di Cormac McCarthy ha lasciato il tempo delle sue ultime parole: sarebbe bastata una manciata di mesi e il capitolo finale del suo lavoro – Il passeggero e la sua storia sorella Stella Maris, che pubblicheremo il prossimo settembre – non avrebbe preso vita durante quella del suo autore. Un capitolo finale che concentra almeno un quindicennio di elaborazioni intorno alla storia tragica di Bobby e di Alicia Western, e che è insieme una summa, uno slancio e un rimpianto: cerchio, linea e punto.
La coppia Il passeggero-Stella Maris segue il perimetro della scrittura di McCarthy, fa visita ai suoi personaggi più antichi e recenti, dai Rinthy e Culla di Il buio fuori al Ragazzo – il Kid – del Meridiano di sangue al Bianco e Nero di Sunset Limited, ripesca con nuovi ami nel bacino della sua cosmogonia, e chiude il cerchio là dove tutto è cominciato, a Knoxville, in quel sottomondo di vitalistici reietti ed esilaranti svirgolati che McCarthy ci ha regalato una volta e per sempre in Suttree, a cui Il passeggero è legato in un intimo e nostalgico abbraccio.
La linea, in quest’ultimo capitolo, punta all’oltre, e in alto. Si radica nel buio delle profondità subacquee e dell’inconscio silenzioso, casa di paure e pericoli in agguato, attraversa e sgretola il fango del mondo noto, e buca la membrana di ciò che è materiale in cerca di uno sbocco etereo e forse divino. La linea di questi romanzi è una lancia puntata verso nuovi orizzonti, narrativi e perfino spirituali. Il McCarthy del Passeggero e di Stella Maris è un mistico carnivoro.
Lo slancio per sfuggire al confine include la sua stessa arte. Com’è noto, Cormac McCarthy ha trascorso molta parte degli ultimi anni nel tempio delle scienze esatte del Santa Fe Institute, unico scrittore ammesso in un cenacolo di matematici, fisici e astronomi, e dei loro campi di azione ha respirato il fascino e il mistero. Con Il passeggero porta dentro la sua scrittura la materia arcana delle discipline dure, di cui contempla l’irriducibile bellezza, «informandola – come nota la traduttrice della diade, Maurizia Balmelli, – in un movimento prosodico che ha del rituale, anzi del liturgico, e che di quella materia allarga ed eternizza il respiro». Giustapponendo questo respiro al limite insito nel linguaggio, McCarthy sembra quasi voler dare scacco al se stesso scrittore, che dentro quel limite deve lavorare. Ma quella che leggiamo, paradossalmente, meravigliosamente, è proprio la rivincita dello scrittore. Attraverso quella creazione di genio che è il personaggio del Kid, McCarthy ci dimostra che anche la scienza, nelle sue mani, diventa un miracolo di affabulazione, e solo grazie a questo riesce a suggerirci una sua superiorità.
«La lingua del Kid, – osserva ancora Maurizia Balmelli – specchio deformante, sorta d’incarnazione dell’inconscio della protagonista, è stratificata e anacronistica come solo potrebbe essere quella di un’entità che superi i confini dell’umano. E tuttavia, anche entro i confini dell’umano, i dialoghi mccarthiani conservano una portata metafisica. A un tratto siamo su una piattaforma petrolifera e si fanno iperralistici, e per venire a capo dei vuoti, delle sospensioni, devo andare fino in Congo, e affidarmi alla perizia di chi su una piattaforma ci lavora». Le piattaforme petrolifere, le corse di automobili, le immersioni subacquee, la meccanica quantistica, l’amore proibito, le armi automatiche, il gioco di parole: non c’è limite all’esattezza quasi biunivoca del lessico di McCarthy, alla competenza delle sue descrizioni, al gusto di un’estensione verbale che riflette quella dei mondi a cui attinge; ma la ricerca della giusta espressione non trabocca in sovrabbondanza. La parola perfetta è solo una, a volte meno di una: Il passeggero celebra ad ogni riga, giù fino alla contrazione della punteggiatura, la promessa contenuta nell’ellissi.
Rimane solo il punto ora. L’immagine del punto, dopo quella del cerchio e della linea, per l’ultimo capitolo dell’avventura mccarthiana è autoevidente, ed è per noi: è il punto fermo della fine delle storie, anche di quelle lunghe e intense come questa. È il rimpianto che si porta appresso. Bobby Western ci ha accompagnato fino al tramonto di un figlio inimitabile di quell’Occidente americano che profeticamente si porta nel nome. Chi o cosa abbia accolto quel figlio, non è dato sapere. «Lo so eccome – mi contraddice Cormac McCarthy dalle pagine del suo Sunset Limited –. So cosa mi aspetta e so chi mi aspetta. Non vedo l’ora di strofinare il naso contro la sua guancia ossuta. Sicuramente sarà sorpresa di vedersi trattata con tanto affetto. E mentre la abbraccio forte le sussurrerò all’orecchio secco e antico: Eccomi qui. Eccomi qui». Forse l’ultimo capitolo che ci ha consegnato contempla la minuscola possibilità di un’estrema sorpresa.