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Abraham B. Yehoshua 1936-2022
di Andrea Canobbio
Ci sono autori che preferiscono frequentare il meno possibile il loro editore, altri che amano seguire da vicino la produzione e la pubblicazione del proprio libro. Poi c’era Yehoshua. Abraham non concepiva relazioni asimmetriche, non accettava un rapporto che non fosse paritario e reciproco. Se noi ci occupavamo di lui, lui doveva occuparsi di noi. Seguiva la carriera scolastica dei nostri figli ricordandone ogni dettaglio (spalleggiato dall’adorabile Ika, la moglie, che lo accompagnava sempre nei suoi viaggi), e chiedeva di vedere foto recenti dei bambini, e si scandalizzava che non ne tenessimo una aggiornata nel portafoglio. Conservo, come credo altri miei colleghi, i suoi fax di saluti e felicitazioni per le occasioni più disparate, messaggi scritti a mano in grossi e tremolanti caratteri stampatello, le linee che si inclinavano sempre di più nella pagina come a voler riacquistare la giusta direzione di scrittura, quella ebraica da destra verso sinistra. Non si stancava di interrogarci sulle ragioni del suo successo in Italia, e si era convinto che la centralità delle tematiche familiari nella sua narrativa avesse trovato qui una terra d’elezione, un terreno fertile. Ma “trattandosi di una storia d’amore, è meglio non approfondirne troppo le ragioni”, aggiungeva saggiamente nella postfazione scritta per il volume di Tutti i racconti. Anche l’Einaudi per lui era una grande famiglia, un ramo genealogico misteriosamente legato al suo, e si stupiva che i suoi componenti non si frequentassero di più al di fuori dell’ufficio. Ogni tanto, pressato dalle sue domande, inventavo le destinazioni vacanziere dei miei colleghi, anche se non avevo alcuna idea di dove passassero il mese di agosto.
Era nato a Gerusalemme nel 1936, dodici anni prima della fondazione dello Stato d’Israele. La sua famiglia viveva in Palestina da cinque generazioni, si sentiva figlio di quella terra, ma l’origine sefardita e mediorientale non legittimava in lui alcun miope nazionalismo, anzi, lo spronava nel suo impegno sincero e generoso per la pace. Considerava l’impegno politico, nel senso più alto della parola, inscindibile dalla pratica letteraria. La sua fiducia che la letteratura potesse e dovesse incidere sulla realtà provocava talvolta animate discussioni con gli altri scrittori, quando veniva in Europa. Yehoshua non concepiva la possibilità di una letteratura senza impegno, non accettava l’idea che uno scrittore fosse responsabile soltanto nei confronti del proprio lavoro, della parola scritta. Non solo, sottolineava anche la necessità che la letteratura tornasse ad affrontare i temi etici che il postmoderno e le avanguardie avevano messo da parte. Il signor Mani, che Yehoshua considerava il suo libro più importante e profondo, utilizzava un’innovazione formale fondamentale per capire la sua poetica: nelle sue parole si trattava di “un dialogo a senso unico, vale a dire un dialogo in cui si sente la voce di un solo interlocutore (che afferma e rivolge domande), mentre sta al lettore intuire le risposte dell’altro destinatario”. I lettori del libro si rendono conto fin dall’inizio che questo “dialogo a senso unico” non fa che enfatizzare il desiderio, la preghiera di una risposta, forse proprio dal lettore. Nel coinvolgimento assiduo del lettore, nell’insistenza sul ruolo chiave giocato dalla lettura, Yehoshua mostra di aver superato la lezione dei maestri modernisti. E, più in generale, la ricerca di un dialogo con l’Altro è il tema cruciale di tutta la sua opera. Come nella Sposa liberata, dove l’andirivieni continuo del protagonista dai territori palestinesi diventa figura dei confini che ci separano dal familiare e dall’estraneo, e che dobbiamo imparare ad attraversare se vogliamo uscire dal “labirinto dell’identità”. O come nel Responsabile delle risorse umane, in cui il viaggio per riportare nel paese natale il corpo di una donna straniera, morta in un attentato a Gerusalemme, si trasforma in un percorso di scoperta di sé e di assunzione di responsabilità. Per vincere il gelo che sembra sceso sul mondo.
Andrea Canobbio