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Appuntamento a Positano
Rimasto inedito fino a oggi, l'ultimo romanzo dell'autrice de L'arte della gioia.
Il libro
«La vedo scivolare nella sua lunga gonna bianca giú per la scalinata, incorporea e come illuminata da un suo faro personale. Ho appena il tempo di scorgere i suoi piedi nudi, lunghi ma forti, e arcuati, da danzatrice». Nella Positano scintillante degli anni Cinquanta, la storia della profondissima amicizia tra una donna fragile, seducente, misteriosa e chi, trent’anni piú tardi, la ricorda e ne scrive.
«Ecco, quella lunga sfilata di quinte rocciose, che chiudono in un abbraccio vertiginoso la piccola baia e il mio corpo, sono per me una delle infinite forme magnifiche che il diavolo, trasformista per antonomasia, sa prendere». Negli anni Cinquanta il lavoro cinematografico porta Goliarda Sapienza a Positano, rivelandole un angolo di mondo quasi intatto, popolato da un’umanità con una dolcezza sconosciuta. È la scoperta di una felicità senza aggettivi. La conca protetta dalle montagne e dai silenzi del mare diventa il suo rifugio e risveglia le emozioni del corpo, a lungo inaridite dagli orrori della guerra e dalla frenesia della città. E lí, tra l’oro e l’azzurro del mare, in un’atmosfera fuori dal tempo, una figura di donna si muove a passo di danza sulle scalinate del paese. La gente del posto la chiama principessa, ha una bellezza antica, gli occhi che cambiano colore. Quello tra Erica e Goliarda è un incontro felice, immerso in una pace che si avvicina all’ebbrezza: l’inizio di un rapporto che nel corso degli anni si fa sempre piú intenso, tra i fantasmi del passato e le ombre imminenti. Conoscersi, svelarsi, cambiare, sono i pilastri di quella vicinanza. Una storia che la memoria non riesce a scolorire e anzi trasforma in romanzo: la rievocazione di un’amicizia perduta e l’affresco di un luogo che non esiste piú, ma che rivive grazie a una scrittura sensoriale, vibrante di suggestioni, appena velata di malinconia, come al risveglio da un sogno d’infanzia che fatica a dissolversi. Un libro capace di raccontare la fugacità dell’incanto come se l’incanto non dovesse mai finire.