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Moby-Dick (Einaudi)
«[Melville] sentiva il richiamo dell'origine delle cose,
il primo giorno, il primo uomo, il mare ignoto,
Betelgeuse, il continente sepolto. Da luoghi inerti
la sua immaginazione scagliò una fiocina.
Cercava il primigenio. Aveva la nostra stessa freddezza
ma si scaldò ai primi fuochi dopo il Diluvio.
Ciò gli diede la forza di trovare il passato perduto
dell'America, il presente non individuato,
e fare un mito, Moby Dick, per un popolo di Ismaeli».
Charles Olson
Il libro
Da piú di un secolo e mezzo uno spettro si aggira nelle acque extraterritoriali della letteratura: Moby Dick. Coalizzati in una sacra caccia, da allora non facciamo che braccarlo, per sottometterlo alle nostre interpretazioni, e questa caccia maniacale e consapevole, che è anzitutto una caccia a noi stessi, ci condanna. Protagonisti per noi dell’impresa: Ishmael, come l’esule del racconto veterotestamentario; Ahab, lo sciamano che ha viaggiato in altri regni restandone sfregiato e mutilato, non soltanto fuori, ma che da quel contromondo torna da iniziato: iniziato senza setta, mistico senza religione; il Pequod, una nave di pazzi governata da un pazzo furioso: la riprova è che come in ogni manicomio c’è chi parla lo shakespeariano; una ciurma d’ogni colore, razza e fede, dai quaccheri ai cannibali agli adoratori del fuoco; Moby Dick, Leviatano su misura per moderni, inafferrabile; e l’oceano mondo. Con questi elementi primitivi Melville compose in una stagione di creatività febbrile quello che è un romanzo d’avventura e un trattato gnostico, un saggio enciclopedico e una cosmogonia pagana, una fiaba mostruosa e un’allegoria intollerabile, un’epopea o una forma totalmente nuova: ma – scientifico, religioso, filosofico o artistico l’intento – sempre di netto timbro eretico. S’inizia cosí a leggere, come Sinbad sull’isolotto si appresta a mangiare e accende un fuoco quando, a un tratto, il dorso dell’animale (che altro non era) s’inabissa portando tutto e tutti appresso a sé.