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Versi del senso perso
L'uccello nero
salta leggero,
si chiama merlo
senza saperlo.
Il libro
Nel 1989 Toti Scialoja raccolse sotto l’insegna del «senso perso» tutte le sue poesie, fino ad allora riservate a un pubblico di amici, bambini e intenditori: da «Topo, topo, | senza scopo, | dopo te cosa vien dopo?» sino a «La tristizia, il nevischio, il solstizio d’inverno | nel buio natalizio sono sempre di turno…» Partendo dalla strofa infantile si attraversa uno zoo di animali perplessi che si squamano in sillabe, si intrattengono con il gioco commerci non occasionali, si raggiunge la lirica dalla direzione piú inattesa. Si chiedeva Giorgio Manganelli: «Non sarà Scialoja un petrarchesco che si è bruscamente accorto di quante possibilità offra una meticolosa dementia praecox?»
Sono filastrocche filosofali: «Sento un topo | nello stipo. | Lo spalanco: | topo bianco!»; tiritere reiterate: «La mucca di Lucca | che gira in parrucca | in mezzo alla vigna | e allunga la lingua | ammicca o pilucca?»; invenzioni inveterate «Ieri vidi tre levrieri | mogi mogi, | oggi vedo tre levroggi | neri neri, | che domani sloggeranno | levri levri»; lapidi lepide e rapide: «Ahi, la vespa | com’è pesta! | Era vispa, | non fu lesta». Quello che oggi possiamo finalmente rileggere è l’inimitabile repertorio in cui Toti Scialoja ha collaudato l’esattezza del principio da lui stesso enunciato: «Nel nonsense la parola è alla prova del nulla».