La casa dei nomi
«The Times»
«Questo romanzo è un inno a ciò che il romanzo può fare. Ci offre introspezione, dettaglio, e tutto...
Abbiamo incontrato Colm Tóibín a Roma, in occasione della sua partecipazione al festival letterario Libri Come. Tóibín è nato a Enniscorthy, in Irlanda, nel 1955 e ha pubblicato finora undici romanzi, due raccolte di racconti, una raccolta di poesie (Vinegar Hill, Interno Poesia editore, 2024) e quattordici libri di saggistica. Presso Einaudi ha pubblicato La casa dei nomi, Il Mago, Long Island e l’edizione tascabile di Brooklyn.
Molti dei tuoi personaggi sembrano trovarsi in bilico tra due mondi, tra il vecchio e il nuovo, tra il paese natale e l’America, tra i doveri familiari e i desideri personali. Cosa ti attrae di questa dinamica?
Credo che il grande dramma dell’Irlanda nel XX secolo, e forse anche di altri paesi — il sud Italia, per esempio, o molti paesi africani — sia il movimento delle persone, le grandi migrazioni. E questo porta con sé un dramma personale straordinario che spesso viene cancellato dalla storia, perché chi si muove, la prima generazione che emigra in America, per esempio, non ha tempo di scrivere libri: è troppo impegnato a costruirsi una vita. Spesso sono i figli o i nipoti a scrivere di quell’esperienza, ma dalla prospettiva della seconda o della terza generazione. È un tema che trovo molto interessante. E naturalmente non è qualcosa che è capitato solo ai poveri: con l’ascesa del nazismo è successo anche a uno come Thomas Mann. Dopo il 1933 non è più rientrato in Germania, ha perso due case, diversi conti bancari, molti quadri. Aveva costruito tutto un patrimonio: era un grande borghese, aveva due automobili, viveva molto bene. E poi improvvisamente si ritrova in California. Il fatto è che non aveva davvero imparato bene l’inglese. Non ebbe mai un amico americano. È stato in America dal ’37-’38 fino al 1952, ma come molti esuli tedeschi, non strinse legami. Non amavano gli americani. Pensavano semplicemente che non facessero per loro.
Come racconti ne Il Mago! E il tuo recentissimo racconto per il New Yorker, Five Bridges, parla di ritorno — dall’America all’Irlanda.
Sì, credo che oggi la questione dell’essere «illegali» in America abbia una valenza tutta nuova. Nei tre giorni intorno all’insediamento di Trump — diciamo dal venerdì al lunedì — ho lavorato ininterrottamente per scrivere un racconto ambientato proprio in quei giorni. Il mio protagonista è un irlandese che è stato clandestino in America per molti anni e decide di tornare a casa proprio in quel lunedì. Quindi la storia monta nel corso del fine settimana: sabato fa una lunga passeggiata con la figlia, e tutto si accumula fino a quella decisione. Ho scritto mentre quegli stessi giorni stavano accadendo nella realtà: la domenica, mentre scrivevo, sapevo che “domani, lunedì, lui tornerà”. Tutto in tempo reale.
Un po’ come ha fatto Ali Smith nel suo Seasonal Quartet.
Esatto, lei inserisce gli eventi in tempo reale. È molto divertente, perché hai la sensazione non tanto di scrivere narrativa, quanto di essere immerso nel momento storico.
Chi si muove non ha tempo di scrivere libri: è troppo impegnato a costruirsi una vita. Colm Tóibín
Five Bridges è nato come racconto o potrebbe essere l’inizio di un romanzo?
No, è un racconto. Non penso di farne altro. Ho quel personaggio in quel momento. Penso che un racconto debba avere un presente molto intenso, con forse qualche elemento di passato. Ma se rendi quel «presente» abbastanza forte, poi non riesci più a tornarci sopra. Non puoi continuare a giocarci.
E a questo punto saresti già in ritardo per scriverne in presa diretta.
Esatto. A meno che il protagonista del racconto non volesse tornare in America, ma non credo.
Il tuo stile è spesso caratterizzato da un certo riserbo. La tensione si costruisce più sul non detto che su ciò che è esplicitato. Questo è particolarmente evidente in Long Island, dove i momenti chiave — come la scena all’hotel Montrose — restano in sospeso, lasciando molto spazio all’immaginazione del lettore. Diresti che è una degli elementi centrali del tuo modo di scrivere?
È difficile giudicare questo aspetto, sapere quando è giusto lasciar fuori qualcosa. In Brooklyn, per esempio, anche se Eilis parte per la prima volta, la scena in cui dice addio a sua madre non è nel libro. Perché? Perché sarebbe stato un cliché: il lettore sa già che tipo di emozione comporta. Se una scena non serve, non la scrivo e vado avanti. In Long Island c’è stato un caso particolare: Eilis e Jim sono in hotel, ed è evidente che in qualche modo faranno sesso, ma sono entrambi molto riservati. Non ne parlerebbero mai. Quindi ho deciso di chiudere la porta — e lasciarla chiusa su qualunque cosa sia successa. Sappiamo che è successo qualcosa, ma non volevo entrare nei dettagli. Quindi sì, molte scene semplicemente non ci sono.
Invece le scene in cui Eilis nuota, sia in Irlanda che in America, sembrano avere sempre un significato importante, quasi segnano un punto di svolta nei romanzi. Come mai?
Perché se cresci in Irlanda, come è successo a me, e vivi a pochi chilometri dal mare, d’estate ci vai davvero in spiaggia. Affittavamo una casupola direttamente sul mare. L’acqua era fredda. Mia madre era molto tosta: entrava dritta in acqua e nuotava via. Noialtri invece eravamo congelati. Stavamo lì, con l’acqua alle ginocchia, sperando che succedesse qualcosa per non dover entrare del tutto. L’idea di immergersi completamente in quell’acqua… non è ghiacciata, ma è fredda. Semplicemente non riuscivamo a farlo. E per me è sempre stata una cosa enorme. Qualcuno mi ha detto che in tutti i miei romanzi c’è una scena in cui qualcuno deve entrare in mare, nel mare freddo. In ogni libro. Avrei voluto saperlo fin dall’inizio — ma è successo sempre per caso. Non ho mai deciso consapevolmente di includere una nuotata in ogni libro, ma in qualche modo ci è finita sempre dentro. Immagino perché per me è un momento importante, ogni anno. Ho dei veri e propri rituali. Ogni anno, quasi sempre l’ultimo giorno di agosto, vado al mare. Dopo diventa davvero troppo freddo. Ora sono più coraggioso di quanto lo fossi da ragazzo. Devo dire che non rimango più per ore a esitare, sperando di non dover entrare.
In un’altra intervista hai detto che «Dio ha inventato l’adulterio per permetterci di scrivere romanzi».
Sì. In America c’è un problema particolare: i ragazzi, diciamo sui vent’anni, ce l’hanno proprio con chi «tradisce» — usano la parola cheaters. Io associo «cheating» a barare a carte: giochi a poker, prendi una carta e bari. Ma loro usano quella parola con un senso morale molto forte. Quando cerco di parlare di un romanzo, dico: «Mi dispiace, ma se Madame Bovary non tradisce, non c’è il libro. Non abbiamo niente». Quindi, perché esiste l’adulterio? Forse è una cosa orribile, ma Dio l’ha creata per i romanzi, così gli scrittori possono avere una storia. Solo che gli studenti non trovano divertente questa affermazione — soprattutto in America.
E in Long Island c’è Tony, e il suo tradimento è ciò che scatena la reazione di Eilis.
Esatto. Sono cose che accadono. E se non accadono in un romanzo, non accade niente. Se scrivi: «Era felicemente sposata, si alzò la mattina dopo, era ancora felicemente sposata, preparò la colazione, uscì, tornò, lui la baciò, lei disse: “Che bello vederti” e lui: “Che bello vederti anche per me”», non è un romanzo, è noia. E allora Dio deve intervenire per far scorrere la storia.
Enniscorthy è la cittadina irlandese dove sei nato e dove hai vissuto fino al 1976, l’anno esatto in cui si svolgono i fatti raccontati in Long Island. Come hai scritto in un bellissimo saggio su Enniscorthy, i lettori hanno l’impressione di osservare ciò che accade dalla finestra, mentre girano le pagine. Hai mai avuto delle reazioni da parte degli abitanti della città su come la descrivi nei tuoi libri?
Sì, assolutamente. Mai avuto problemi. Credo che gli scrittori irlandesi abbiano avuto qualche difficoltà in passato — negli anni ’50, all’inizio degli anni ’60. Edna O’Brien, per esempio, o John McGahern. Scrivevano da una prospettiva locale e questo creava tensioni. Ma le cose sono cambiate. Anzi, ormai è quasi il contrario: tutti sono molto gentili.
Due i titoli Einaudi presenti nei dodici selezionati tra i dodici candidati al Premio Strega Poesia 2025: L'intravisto di Elisa Biagini e Il brusío di Tiziano Rossi.
L’intravisto è ciò che osserviamo con difficoltà, per frammenti, «con l’occhio appoggiato alla crepa». Un impedimento che nei versi di Elisa Biagini diventa una forza per conoscere meglio se stessi e l’altro da sé, uno sguardo obliquo che apre orizzonti in cui situare i ricordi.
«Un libro intrigante e profondo, con un modo tutto proprio di sviluppare certi temi, certe attitudini apparentemente familiari ai lettori di Biagini – soprattutto in Da una crepa, 2014 e in Filamenti, 2020 – ma che ora assumono una sorta di forma concentrica e avvolgente, che porta chi legge direttamente al centro del qui, del luogo e del suo mistero: rarefatto, a volte, e paradossalmente così concreto, così fisicamente tangibile da prendere la forma di un materiale ruvido, che raschia dolorosamente la superficie di lettura».
Stefano Colangelo, «il manifesto»
Nei versi di Tiziano Rossi il lettore troverà la consueta passione dell’autore per la varietà del mondo e molti dei motivi presenti nelle raccolte precedenti: ricordi familiari «emersi dall’oceano dei possibili», la «porcheria mondiale» della guerra, frammenti di vita condominiale e istantanee di città, i giochi e le fantasie dei bambini, immersi in un tempo senza misura ma pieno di futuro.
«Rossi, che è nato a Milano nel 1935, ha scritto queste poesie giusto sulla soglia dei novant'anni, e però con una voce fresca e reattiva, persino frizzante. […] Cordialità, affabilità, gentilezza, capacità di comprensione, benevolenza: sembra che Rossi abbia posto un cuscino di raziocinio e di salutare buon senso tra sé stesso e gli accadimenti della propria esistenza, così che anche i ricordi più crudi e dolorosi (nella prima sezione del libro troviamo ad esempio il poeta bambino nel tempo di guerra), o viceversa quelli più toccanti e coinvolgenti (come soprattutto le immagini dei propri cari), non comportano rispettivamente né il senso di una tragedia senza ritorno né lo scivolamento nel sentimentalismo o nella nostalgia».
Roberto Galaverni, «La Lettura – Corriere della Sera»
Qui tutti i libri candidati.
Abbiamo incontrato Paul Murray a Firenze, in occasione della presentazione a Testo de Il giorno dell’ape, il suo nuovo romanzo appena uscito in Einaudi Stile Libero. Prossimamente pubblicheremo anche il secondo romanzo dell’autore irlandese, Skippy muore, uscito la prima volta in Italia nel 2010 per Isbn Edizioni.
«Ma qui per me i giorni migliori sono quando tremo di paura». Il romanzo si apre con un’epigrafe dal Sonetto sacro XIX di John Donne, una poesia sull’incostanza della fede. Ne Il giorno dell’ape, vediamo i personaggi lottare con il senso di colpa, il destino e la redenzione personale, temi con forti connotazioni religiose. Vedi il tuo romanzo come un’opera che affronta idee religiose, in particolare legate al cattolicesimo?
Non credo, almeno non direttamente. A volte, quando ripenso al libro, mi sorprende che ci sia così poca religione. Certo, fino a poco tempo fa l’Irlanda era un luogo fortemente religioso, ma la maggior parte dei personaggi del libro, anche quando le cose gli vanno molto male, non sembra percepire una forza superiore a cui rivolgersi. Sì, c’è un’occasione degna di nota in cui il piccolo PJ prega, ma per il resto, anche quando vanno in chiesa, non credono davvero che qualcosa possa aiutarli, e questo li mette in una situazione difficile. Avevo un’altra epigrafe che volevo usare, presa da John Berger: diceva più o meno così: «Quello che non capivo da giovane è che il passato non scompare, ma si raccoglie intorno a te come una placenta per il morente». Trovo che sia davvero bella. Ma il mio editor pensava che fosse troppo deprimente per il libro. Così ho scelto John Donne, che in fondo dice che quando le cose vanno malissimo, almeno sai di essere vivo. Sei scosso dalla paura, ma almeno sei consapevole della tua esistenza. Invece nei giorni normali sei in una sorta di torpore e non presti davvero attenzione al tempo che passa. I personaggi del libro sono sottoposti a uno stress enorme: tutto ciò in cui credono, tutto ciò che li lega gli uni agli altri e al mondo viene messo in discussione. E così si arriva all’essenza di ciò che sono, nel bene e nel male.
La tradizione dei Sidhe appare sia in Skippy muore che ne Il giorno dell’ape, ma in modi diversi: nel primo confonde i piani della realtà nella scuola in cui è ambientato, mentre nel secondo assume una presenza più cupa e fatalista. Cosa ti attrae di questo aspetto del folklore irlandese e come vedi il suo ruolo cambiare tra questi due romanzi? Pensi che miti come questo influenzino ancora la vita irlandese contemporanea?
I Sidhe, o - se volete - le fate, sono una superstizione molto antica, ma non sono creature graziose e svolazzanti con vestiti eleganti. Sono esseri piuttosto sinistri, il cui mondo si sovrappone al nostro. Il loro mondo e il nostro occupano lo stesso spazio, ma di solito non possiamo vederli. Tuttavia, ci sono punti nel nostro mondo in cui i due piani si toccano: in Irlanda potrebbero essere per esempio un albero o una collina, e lì è più probabile incontrare i Sidhe. Ed è pericoloso, perché sono capricciosi e piuttosto crudeli: potrebbero maledirti, ucciderti le mucche, rubarti il bambino o girarti le orecchie al contrario, cose del genere. Non sono una persona superstiziosa, non credo a queste cose, ma trovo affascinante l’idea di un mondo dentro al nostro, un mondo che a volte lavora contro di noi, altre volte è semplicemente indifferente, ma è sempre lì. Viviamo in un’epoca in cui ci dicono continuamente che tutto è stato capito: gli scienziati, gli economisti e i grandi della tecnologia con i loro computer hanno risolto il problema dell’esistenza. Ma è bello avere una superstizione che ci ricordi che non esiste una soluzione all’esistenza, che non è qualcosa che si può «risolvere». E proprio quando pensi che tutto stia andando alla grande, qualcuno ti gira le orecchie al contrario.
Nei due libri, la stessa storia appare in forme diverse. Facendo ricerche sul folklore irlandese per Skippy muore, ho usato i Sidhe per evidenziare come il passato, ovunque, continui sempre a influenzare il presente. In Irlanda, però, questo concetto si manifesta fisicamente nelle tombe disseminate ovunque nel paesaggio, i tumuli neolitici. Newgrange è il più famoso, ma ce ne sono ovunque. Sono il mondo sotterraneo, quello dei morti. Tendiamo a cancellare la morte dalla nostra vita quotidiana, ci piace considerarci esseri superiori con i nostri telefoni, ma il paesaggio irlandese ci ricorda costantemente che il passato è reale. E questo significa che la morte è reale. Un giorno saremo tutti in una tomba, giusto? Quindi, i Sidhe offrono ai ragazzi nel libro una via di fuga, suppongo. Forse non funziona davvero, ma sembra dare loro un’opportunità per sfuggire a un certo tipo di indottrinamento sulla realtà aziendale a cui sono sottoposti a scuola.
Ne Il giorno dell’ape il concetto è più esplicito. La storia dei Sidhe racconta di un viaggiatore che si addormenta su una collina magica. Quando si risveglia, entra dentro la collina e si ritrova in mezzo a persone bellissime, con capelli dorati e gioielli sfarzosi, che stanno banchettando in una festa sontuosa. Gli offrono cibo e bevande, fanciulle danzano per lui, e tutto sembra andare magnificamente. Ma poi, il giorno dopo, si risveglia di nuovo sulla collina. Tutto è sparito, svanito nel nulla. Per Imelda, questo diventa un monito, perché lei viene da un ambiente povero, ma incontra questa famiglia ricca. Conosce un ragazzo molto benestante, Frank, il figlio di un concessionario d’auto. Ai suoi occhi, sembrano possedere una ricchezza infinita. Viene attratta in questo mondo, dove le sembra che tutti i suoi problemi possano semplicemente svanire. Per persone come loro, quelle cose non sono nemmeno problemi. Ma poi succede la stessa cosa. Il destino interviene, e tutto scompare. Si risveglia, e non le è rimasto più nulla.
All’inizio de Il giorno dell’ape, Miss Grehan dice a Cass che la poesia «fa l’opposto di fingere» e può essere liberatoria. Nel romanzo, la poesia gioca un ruolo silenzioso ma significativo, soprattutto in contrasto con le illusioni dei vari personaggi. Vedi la poesia come un antidoto al rifiuto della realtà nel libro? E, più in generale, pensi che la poesia abbia ancora il potere di dire la verità nella vita contemporanea?
Sì, nel libro Miss Grehan dice che il mondo sarebbe un posto migliore se tutti, una volta al giorno, invece di guardare il telefono leggessero una poesia. In realtà, anche solo se lo facessi io stesso. Vorrei riuscirci. Vorrei avere la disciplina per farlo. Ma sì, credo che il punto sia questo: siccome oggi abbiamo così tante possibilità di scegliere dove rivolgere l’attenzione, non ci rendiamo conto di come si tratti di una scelta illusoria. In realtà, guardiamo sempre le stesse cazzate. E se leggi una poesia, invece, è tutto un altro ordine espressivo, in cui qualcuno scava dentro di sé. La poetessa citata nel libro è Sylvia Plath, ma nei miei romanzi c’è quasi sempre un poeta: nel primo era Yeats, in Skippy muore Robert Graves. Penso che esistano altri modi di vedere il mondo, altri modi di vivere che possono liberarci dalle svariate luccicanti prigioni in cui ci chiudiamo da soli. Sì, ovviamente oggi è un lavoro difficile essere poeti, ma bisogna continuare a crederci.
La domanda sorge spontanea: tu scrivi poesie?
Circa una volta all'anno scrivo una poesia molto brutta. Non ci riesco, no, proprio no. Non riesco nemmeno a scrivere testi per canzoni. Quando ero in una band e provavo a scrivere canzoni mi chiedevo: ma come si fa a scrivere i testi? Ho bisogno di una storia. Posso creare immagini e collegarle a emozioni, ma deve esserci uno sfondo narrativo.
Ne Il giorno dell’ape c’è un passaggio che sembra quasi un non sequitur:
«Il romanzo è stato il primo esempio di quel che sarebbe poi diventata la vasta e tentacolare industria dell’intrattenimento nel XXI secolo, una macchina pressoché infinita progettata per distrarci e indebolirci. Ci viene presentato un mondo virtuale, alimentato in tutto e per tutto dall’incenerimento del reale». Questa frase ha sorpreso Sandro Veronesi che, pur definendo Il giorno dell’ape uno dei migliori romanzi di questo secolo, si è chiesto come mai un’argomentazione spesso usata per screditare il romanzo comparisse in un libro che in realtà dimostra l’esatto contrario. E così si risponde da solo: «Il romanzo è onnivoro ed è nato con anticorpi pronti a resistere a questo tipo di attacchi e persino a nutrirsene».
Perché hai incluso questo passaggio e cosa pensi dell’interpretazione di Veronesi?
Beh, arrivati all’ultima parte del libro, in cui ci sono parecchie scene con Cass all’università, lei ha quest’insegnante molto affascinante e intelligente di nome jj. Nella prima bozza del romanzo, jj aveva molto più spazio e teneva una lunga lezione, ispirata a un mio professore del college che ci disse che un libro non è diverso da una rivista o da una pubblicità di carta igienica, che erano solo parole. Voleva scioccarci con questa visione piuttosto nichilista del romanzo, che io trovai davvero offensiva. Nella prima stesura, quel passaggio che hai citato riguardava più il tema del genere, perché il romanzo, come forma d’arte, fu inventato per essere letto dalle donne. Nel diciottesimo secolo, le donne della classe media rimanevano a casa e i mariti si preoccupavano di cosa avrebbero fatto tutto il giorno senza un lavoro. Così il romanzo divenne un passatempo coinvolgente, un’arte destinata a persone escluse dal potere, offerta loro come intrattenimento.
Oggi non parliamo più delle donne del Settecento, ma abbiamo un milione di ore di Netflix, e intanto sembra quasi che non abbia più importanza per chi votiamo. I miei editor a un certo punto mi hanno detto che ero vicino alla fine del libro e che dovevo far scorrere la narrazione più velocemente, e mi hanno suggerito di tagliare alcune parti. Ma quel passaggio lo volevo proprio tenere. Credo che ogni scrittore del XXI secolo s’interroghi su qual è il senso della scrittura. C’è un diluvio di oscurità nichilista che ci assale continuamente, e finisci per domandarti: «Perché sto facendo tutto questo?» C’è una scena in cui Cass segue un corso di poesia e tutte le poesie che leggono sono nello stile di Seamus Heaney: parlano di more, cigni, querce e così via — tutte cose che, nel frattempo, vengono abbattute e sterminate senza sosta. Ma le poesie non ne parlano, e così lei pensa che i poeti siano bugiardi. Volevo che il libro riconoscesse la situazione in cui ci troviamo: la nostra vita quotidiana si basa sulla distruzione della natura. Questo è un fatto. Non è un proclama politico o un discorso da comizio, è un dato scientifico. La visione nichilista del romanzo è un veleno che ci viene costantemente somministrato, goccia a goccia. Se leggi qualsiasi cosa dica Elon Musk, o l’intero progetto dell’intelligenza artificiale, il messaggio è lo stesso: non c’è nulla di speciale o autentico nell’espressione e nella comunicazione umane. Sono solo parole prive di significato, e un computer potrebbe farlo gratuitamente. Credo che i lettori debbano interpretare il significato del passaggio per conto loro, ma per me il senso era questo.
Quindi volevi lasciare il lettore perplesso?
Beh, Cass è esposta a tutti questi discorsi, ma alla fine del libro riesce a pubblicare una sua poesia sulla rivista dell’università. Questo significa che non ha accettato quel ragionamento. Non crede che la scrittura sia solo intrattenimento. Pensa che scrivere una poesia abbia comunque un valore, anche se è la cosa più insignificante che si possa fare. È come lanciare un sassolino contro un missile nucleare. È una cosa minuscola, ma allo stesso tempo, per un po', le dà senso alla vita.