Giulio Einaudi editore
Margherita Botto

Margherita Botto, insegnante di Lingua e Letteratura francese in varie università, si è dedicata alla traduzione sin dalla fine degli anni Settanta. Tra i suoi autori Fernand Braudel, Emmanuel Carrère, Alexandre Dumas, Marc Fumaroli, Jonathan Littell, Stendhal, Laurent Binet, Fred Vargas, insieme a molti altri. Per Einaudi aveva recentemente firmato la traduzione della Certosa di Parma, dopo essersi dedicata alcuni anni prima a un altro capolavoro di Stendhal, Il rosso e il nero. «Nella secolare disputa fra gli amanti di Stendhal che preferiscono Il rosso e il nero e quelli che preferiscono La Certosa di Parma (i rougistes e gli chartreux, come vengono chiamati in Francia), quasi a smentire la dedica che chiude il romanzo, “To the happy few”, questi ultimi sono senza confronto i piú numerosi», scriveva nel risvolto di copertina. E lei, da «rougiste sfegatata», come si definiva in un’intervista della primavera del 2017 per la rivista «tradurre», era riuscita a restituire in italiano anche la grandezza della Certosa, nella sua traduzione classica e moderna al tempo stesso, tanto accurata quanto briosa, in cui Fabrizio del Dongo, la duchessa Sanseverina e i numerosi personaggi prendono forma e vita in un affresco brulicante di passioni grazie alla sua straordinaria lingua.

Ed è proprio attraverso le sue parole che vorremmo ricordarla oggi, attraverso alcuni incipit dei libri più celebri a cui ha lavorato. Sono le parole che hanno dato una voce italiana a tanti autori francesi, le parole che sempre rimarranno tra le pagine delle traduzioni di Margherita Botto.

«Il 15 maggio 1796 il generale Bonaparte fece il suo ingresso a Milano alla testa di quel giovane esercito che aveva appena attraversato il ponte di Lodi, e reso noto al mondo che dopo tanti secoli Cesare e Alessandro avevano un successore. I prodigi di coraggio e di genialità di cui in pochi mesi fu testimone l’Italia risvegliarono un popolo assopito. Ancora otto giorni prima che i francesi arrivassero i milanesi li consideravano semplicemente una manica di briganti, abituati a darsi sempre alla fuga di fronte alle truppe di Sua Maestà imperialregia. Perlomeno, era quel che ripeteva loro tre volte alla settimana un giornaletto grande come il palmo della mano, stampato su cartaccia».

Stendhal, La Certosa di Parma, 2022

«Fratelli umani, lasciate che vi racconti com’è andata. Non siamo tuoi fratelli, ribatterete voi, e non vogliamo saperlo. Ed è ben vero che si tratta di una storia cupa, ma anche edificante, un vero racconto morale, ve l’assicuro. Rischia di essere un po’ lungo, in fondo sono successe tante cose, ma se per caso non andate troppo di fretta, con un po’ di fortuna troverete il tempo. E poi vi riguarda: vedrete che vi riguarda. Non dovete credere che cerchi di convincervi di qualcosa; in fondo, come la pensate è affar vostro. Se mi sono deciso a scrivere, dopo tutti questi anni, è per mettere in chiaro le cose per me stesso, non per voi».

Jonathan Littell, Le Benevole, 2007

«Vi siete mai chiesti quante volte al giorno dite grazie? Grazie per il sale, per la porta, per l’informazione.
Grazie per il resto, per il pane, per il pacchetto di sigarette.
Grazie di cortesia, di buona creanza, automatici, meccanici. Quasi vuoti.
A volte omessi.
A volte troppo insistiti: grazie a te. Grazie di tutto. Grazie infinite.
Grazie mille.
Grazie professionali: grazie per la sua risposta, il suo interessamento, la sua collaborazione.
Vi siete mai chiesti quante volte nella vita avete detto grazie sul serio? Un vero grazie. Espressione della vostra gratitudine, della vostra riconoscenza, del vostro debito».

Delphine de Vigan, Le gratitudini, 2020

«Gabčík – cosí si chiama – è un personaggio che è realmente esistito. Ha forse sentito, fuori, dietro alle imposte di un appartamento immerso nell’oscurità, solo, sdraiato su un lettuccio di ferro, ha forse ascoltato lo stridio cosí inconfondibile dei tram di Praga? Mi piace pensarlo. Conoscendo bene Praga, posso immaginare il numero del tram (ma forse è cambiato), il suo percorso, e il luogo dove, dietro alle imposte chiuse, Gabčík aspetta, sdraiato, riflette e ascolta. Siamo a Praga, all’angolo tra Vyšehradska e Trojička. Il tram numero 18 (o 22) si è fermato davanti all’Orto botanico. Soprattutto, siamo nel 1942. Nel Libro del riso e dell’oblio Kundera lascia intendere che si vergogna un po’ di dover dare un nome ai suoi personaggi, e benché quella vergogna non traspaia nei suoi romanzi, che pullulano di Tomas, di Tamina e di Tereza, la sua è l’intuizione di un’evidenza: c’è forse qualcosa di piú volgare dell’attribuire arbitrariamente, per un puerile scrupolo di realismo o, nel migliore dei casi, per semplice comodità, un nome inventato a un personaggio inventato? Secondo me, Kundera avrebbe dovuto spingersi oltre: c’è forse qualcosa di piú volgare, infatti, di un personaggio inventato?»

Laurent Binet, HHhH, 2011

«Gardon, il piantone del commissariato del XIII arrondissement, a Parigi, maniacalmente scrupoloso, era al suo posto alle sette e trenta in punto, testa china verso il ventilatore dell’ufficio per farsi asciugare i capelli, come al solito, il che gli permise di veder arrivare da lontano, a passi lentissimi, il commissario Adamsberg. Il quale, palmi all’insù e con la cautela da riservare a un vaso di cristallo, reggeva sugli avambracci un oggetto non identificato. Con quel cognome talmente appropriato alla funzione che ricopriva da avergli procurato un sacco di prese in giro finché tutti non si erano stufati, Gardon non si segnalava per il suo acume, ma adempiva il proprio compito con uno zelo quasi eccessivo. Compito che consisteva nell’individuare qualunque stranezza in avvicinamento, per quanto minima, da cui proteggere il commissariato. E in questo era bravissimo, tanto per l’occhio esercitato da anni di servizio quanto per l’inattesa velocità dei riflessi. Nel sancta sanctorum che era l’Anticrimine non entravano cani e porci, e dovevi avere un aspetto più che raccomandabile perché il cerbero del luogo – tutt’altro che impressionante – acconsentisse ad aprire il cancello di sicurezza all’ingresso. Ma nessuno avrebbe mai avuto da ridire sull’ossessione sospettosa di Gardon, che più di una volta aveva notato i rigonfiamenti a malapena visibili di armi nascoste sotto i vestiti, o aveva dubitato di maniere troppo melliflue per sembrargli naturali, e bloccato le velleità degli aggressori. In genere si era trattato di tentativi di liberare un indiziato in stato di fermo, ma a volte invece di fare la pelle a Adamsberg, né più né meno, e questi allarmi si andavano moltiplicando. Due in venticinque mesi. Con gli anni, e i successi del commissario  nelle indagini più tortuose, la sua fama si era consolidata così come le minacce alla sua vita».

Dalla traduzione di Sulla pietra di Fred Vargas a cui Margherita Botto stava lavorando, inedita.

Aveva compiuto da pochi giorni 98 anni. È uscito per la solita passeggiata mattutina e al ritorno ha avuto un attacco di cuore dall’esito rapido. Si è conclusa così, nella maniera meno traumatica, la lunga e operosa vita di Carlo Carena, a dieci anni più o meno esatti dalla scomparsa del suo grande amico e conterraneo Roberto Cerati. Lui di Borgomanero, Cerati di Cressa, a pochi chilometri di distanza. Due novaresi che hanno fatto la storia dell’Einaudi.

Quando ancora Carena insegnava al liceo Rosmini di Domodossola, Cerati gli affidò la sua prima traduzione, Le tragedie di Eschilo. Siamo nel 1956 e il «Millennio» doveva uscire per Natale. Cerati faceva il corriere tra Torino e Domodossola per recuperare in tempo reale le ultime parti delle traduzioni appena sfornate consegnando le bozze di quelle precedenti. Carena non era contento di quella sua prima traduzione e giurò che non avrebbe mai più tradotto con ritmi così incalzanti. Per Einaudi ne ha fatte poi almeno una trentina, dal greco, dal latino e dal francese, tutte ben ponderate e nei tempi giusti. E parliamo di opere capitali come tutte Le poesie di Orazio, le Vite parallele di Plutarco, Le confessioni di Agostino, gli Adagia di Erasmo, i Pensieri di Pascal. L’ultimo lavoro ha riguardato una scelta dai Moralia di Plutarco intitolata L’arte della politica: ha spedito le ultime correzioni sulle bozze pochi giorni prima di morire. Ancora una volta ha consegnato nei tempi…

Oltre al lavoro di traduttore e curatore di testi classici, Carena ha lavorato come interno della casa editrice dalla fine degli anni Sessanta ai primi anni Ottanta, come responsabile dei classici, come segretario generale e come direttore editoriale. Sotto la sua spinta i «Millenni» sono diventati una collana di riferimento per la letteratura greca e latina, proponendo nuove edizioni degli autori più famosi ma anche, per la prima volta, opere mai pubblicate prima interamente come l’Antologia Palatina in quattro volumi, la Storia naturale di Plinio in cinque volumi e L’arte dell’agricoltura di Columella.

La sua predilezione era per una letteratura “morale”, cioè di pensiero, con un forte contenuto etico ma senza pesantezze filosofiche. Meglio ancora se scritta con uno stile elegante e non enfatico. Per questo è tornato continuamente su Plutarco e su Erasmo, che per il suo gusto concentravano tutte le migliori qualità letterarie. Eleganza, cordialità, ironia e bontà d’animo, che lui cercava negli scrittori, erano anche le sue fondamentali qualità umane. Tutti coloro che passavano a trovarlo nella sua splendida casa sopra il Lago d’Orta potevano godere dell’amabile conversazione sua e della sua amatissima Luciana in cui, a differenza di tanti altri salotti intellettuali, non albergava mai la malignità verso gli assenti. E tutti coloro che leggevano le sue recensioni nelle pagine domenicali del «Sole 24 Ore» potevano apprezzarne la chiarezza, l’arguzia, la capacità di rendere vive le discussioni dei classici senza mai forzature attualizzanti.

Mens sana in corpore sano era un motto perfettamente incarnato in lui. Fino a qualche anno fa tagliava ancora personalmente la legna del suo bosco e fino all’ultimo, come si è detto, faceva una passeggiata tutte le mattine. Gli piaceva fondere in una sola persona l’intellettuale e l’uomo di campagna. L’amico interlocutore di Contini e Isella e il sodale dei contadini cusiani. Anche questo ne fa una figura indimenticabile e forse irripetibile.

© Basso Cannarsa

Non poteva che andarsene d’autunno, A. S. Byatt, quando i colori delle foglie si moltiplicano e i boschi sono più incantevoli e incantati che mai. Mi mancherà molto, mi mancheranno le sue osservazioni sulla scrittura e il vetro, mi mancherà il rumore delle sue sinapsi, che mi pareva di udire ogni volta che avevo occasione di conversare con lei, «Non sono un’accademica cui è capitato di scrivere un romanzo, – disse in un’intervista del 2009. – Sono una romanziera cui capita di essere molto in gamba accademicamente». Da ciò lo scricchiolio sinaptico. Che sempre mi è sembrato colmo d’ironia oltre che d’intelligenza e cultura assimilata fino a diventare pelle, occhi, corpo.

Corpo che lei ha prestato ininterrottamente ai suoi personaggi, a Christabel LaMotte, ma anche a Randolph Ash, a Frederica Potter, ma anche agli uomini di cui più o meno opportunamente lei s’innamora, a Marcus Potter, che ama un altro uomo con matematica delicatezza, ai bambini e le bambine del Libro, alla narratologa Gillian, «un essere di second’ordine», che immaginando un genio uscito per lei dalla bottiglia racconta la quint’essenza del desiderio.

Quando insieme a Fausto Galuzzi traducevamo i suoi libri (migliaia di pagine in ogni senso indimenticabili), riflettevamo spesso sul privilegio di dar voce ad A. S. Byatt nella nostra lingua, che lei comprendeva bene e amava. Ne amava il suono, le etimologie, la creatività delle metafore nel parlato. E noi amavamo quel suo instancabile cercare e immaginare, quel suo complesso e documentato ragionare che non dava scampo, ora raggrumandosi in pagine terribilmente dolorose o robustamente filosofiche, ora sciogliendosi in pagine fiabesche, o di pura poesia.

Aveva un talento tutto suo nell’ascoltare e nel guardare, A. S. Byatt, e un miracoloso talento per le domande, forse perché conosceva i labirinti delle risposte.

Se n’è andata, ma i suoi libri restano. Sarei più triste se non avessi questa certezza, e poiché sono tradotti in 38 lingue, tante almeno quanti sono i colori delle foglie in questa stagione, posso immaginare una torre di babele su cui arrampicarsi con fiducia, la sua stessa fiducia nella lingua, nella letteratura e nella poesia.

«Non credo in Dio, – diceva A. S. Byatt, – ma credo in Wallace Stevens», e anche diceva: «Sono un’europea. E la mia casa è un luogo in Inghilterra, ma è la mia casa proprio perché è piena di libri in tante lingue, su scaffali che sono la mia casa».

Anna Nadotti

Paolo Cognetti

In questo romanzo duro e levigato come un sasso, Cognetti scende dai ghiacciai del Rosa per ascoltare gli urti della vita nel fondovalle. La sua voce canta le esistenze fragili, perse dietro la rabbia, l'alcol e una forza misteriosa che le trascina sempre più giù, travolgendo ogni cosa. Lungo la Sesia come in tutto il mondo, a subire il dolore dell'uomo restano in silenzio gli animali e gli alberi.

Col passo rapido e la lingua tersa dei grandi autori, Paolo Cognetti ha scritto il suo Nebraska: «Erano anni che volevo fare questa “operazione di cover”: scrivere un libro da un disco, da Nebraska. Ho scoperto da poco che anche Denis Johnson, altro scrittore che amo molto, aveva scritto Jesus'son a partire dalla canzone Heroin di Lou Reed; e De André con Non al denaro non all'amore né al cielo è partito dall'Antologia di Spoon River. È un’operazione che ha senso solo se la senti tua, se non è un esercizio di stile. Ascolto Nebraska, grazie a mia sorella, da una vita, quelle canzoni fanno parte di me» (Paolo Cognetti a «la Lettura», in conversazione con Vasco Brondi).

Il nuovo romanzo di Cognetti, vincitore del Premio Strega 2017 con Le otto montagne, sta ricevendo una calorosa accoglienza. Ecco alcuni estratti:

«In questo libro bellissimo – brillante come un cristallo di ghiaccio – accade che lungo il corso della Sesia ogni cosa subisca il dolore delle azioni della nostra specie: alberi, donne, uomini e animali».
Stefano Mancuso, «la Repubblica»

«Stavolta oltre Le otto montagne ci è andato davvero […] Cognetti ha questo potere qui che è proprio dei migliori letterati. Far vivere le proprie pagine oltre il tempo presente, come fosse un Melville o un Hemingway, senza la necessità di aggrapparsi a riferimenti e ammiccamenti culturali che fanno salotto buono oggi. L’esposizione dei tormenti interiori dei singoli, infine, è nuda e fiera, partecipata e diretta, tra il dolente bisogno di una calda carezza e la durezza di una selvatica libertà, verso una progressiva faticosa redenzione che riposa in una grazia di scrittura infinita e commovente».
Davide Turrini, «il Fatto Quotidiano», link

«La forma breve è di sicuro la più congeniale a Cognetti, e lui la maneggia con l'assoluta confidenza di chi ha, sviluppatissimo, il senso del ritmo. In certi punti, è come se andasse a orecchio, alternando la violenza e la dolcezza, i battere e i levare, e seguendo la musica interna di ciascun personaggio per poi ricopiarla sulla pagina».
Laura Pezzino, «tuttolibri – La Stampa»

«Giù nella valle è un libro che invita a fare delle pause. Fermarti un attimo e ricominciare».
Luciana Littizzetto

«Il mondo di mezzo di Giù nella valle è una realtà, in Piemonte come ai piedi degli Appalachi. Chi lo racconta ci aiuta a capire chi siamo».
Stefano Ardito, «Il Messaggero»

«Scende a valle, Paolo Cognetti, si immerge nelle acque della fragilità, nelle ombre delle persone perse, nella vita che sbatte a terra […] Il suo Nebraska nasce così, desolato, dritto al cuore delle cose, sul solco di un dialogo con gli autori, i “suoi classici”, dove musica e racconti trovano un terreno comune: Giù nella valle risuona duro, con la sua caratteristica scrittura asciutta e limpida, senza niente di troppo, che a tratti ha il suono crudo di una ballata per chitarra e armonica».
Francesca Cingoli, «Il Libraio», link

«Cognetti nasce come autore di racconti con un passo veloce e lo sguardo attento, qualità che tornano nel suo nuovo libro […] racconti che si intrecciano e che si chi che si chiudono, si sente l’influenza di Flannery O'Connor, maestra del racconto breve e del suo mondo perduto. Cognetti tesse destini in alta quota mentre racconta le luci lontane delle città, con una certezza amara: se le cose si sono messe male, sei fiumi sono pieni di scorie e i ghiacciai sono solo un ricordo, dobbiamo solo guardarci allo specchio»
Francesco Musolino, «L’Unione Sarda»

«Quelli di Cognetti sono eroi marginali, forse antieroi, e di conseguenza perfettamente calati in una quotidianità feroce che la montagna, sentinella fedele di ogni cosa, non può che certificare. Ma le parole di Cognetti sono anche carezze, non solo letterarie, rivolte ai luoghi che conosce bene e di cui il turismo di massa vorrebbe appropriarsi per ricavarne profitto. Il suo merito è spogliarli della loro apparente lontananza per restituirceli nella loro bellezza più intima e vera, che è anche la nostra salvezza».
Giuseppe Di Matteo, «Quotidiano Nazionale»