Mese: settembre 2022
Con Quattro galline Polzin ha scritto una singolare meditazione filosofica sulla maternità. L’autrice affronta temi come quelli dell'aborto spontaneo, della perdita e della frustrazione, con profondità stemperata di leggerezza: «Il mio è un romanzo ironico su una esperienza devastante e ho da subito pensato che fosse possibile avvicinare una materia così bruciante e triste al senso dell'umorismo. Mi sono sempre pensata come una scrittrice umoristica e quando dicevo che stavo scrivendo un libro sulle galline la gente dava per scontato che fosse un romanzo buffo. Poi mi sono detta che potevo concedermi di essere entrambe le cose, sia seria che ironica» (Jackie Polzin intervista da Giulia Caminito su «7 - Corriere della Sera»).
Un romanzo sorprendente, che sta entusiasmando critica e mondo letterario:
«Nell’occhio della gallina è custodita la verità del mondo. La gallina non pensa, sa. Doveva arrivare il romanzo sulla migliore e piú derisa amica dell’uomo».
Niccolò Ammaniti
«Può un pollaio diventare la lente con cui leggere la vita, le nostre fragilità, le nostre cadute, i timori degli uomini e i pensieri delle donne, la maternità, le speranze e le perdite e le piccole conquiste, può offrire veri lampi di illuminazione esistenziale? Con un pizzico di ironia e un incedere narrativo lieve, quasi zen, con una lingua precisa, chirurgica, del tutto priva di compiacimenti, Jackie Polzin riesce in tutto questo […] Quattro galline è uno dei migliori romanzi che io abbia letto negli ultimi anni, una sorpresa totale. Leggetelo, lo amerete in un modo che non potete immaginare. E io da oggi ho una nuova autrice preferita».
Matteo Bussola, link
«Le colombe di Mercè Rodoreda, i pavoni di Flannery O’ Connor e le galline di Jackie Polzin, tutti volatili letterari che sanno raccontare le donne, i loro pensieri intimi e le loro assurdità. Un romanzo che sotto l’ironia e la lingua ben misurata cova speranze e perdite, un universo umano sodo e compatto».
Giulia Caminito
«Quattro galline è un libro intriso di dolore ma allo stesso tempo lieve; la storia di più di un fallimento, e della lotta quotidiana per fallire beckettianamente ancora, ma se possibile un po' meglio. Vi ricorda qualcosa?»
Giuseppe Culicchia, «tuttolibri – La Stampa»
«Quattro galline di Jackie Polzin è un romanzo commovente e spiritoso, lieve e struggente, un libro sull’assenza, sulla nostra continua lotta contro la solitudine, sulla difficoltà di comunicare – ma sulla bellezza di riuscire a volte a farlo – sulla maternità agli inizi del XXI secolo, sulla necessità di prendersi cura degli altri. C’è un mondo intero e pieno di emozioni, nel piccolo pollaio immaginato da Jackie Polzin».
Nicola Lagioia
«La grande forza del libro sta nella risolutezza con la quale Polzin tiene sul palcoscenico, quasi costantemente, le sue galline, come per farsene schermo, per evitare cedimenti sentimentali, cadute retoriche, per conservare pudore alla sua scrittura. […] Anche se la scrittura di Polzin è spesso carica di ironia (altra forma di pudore), la dignità delle galline, direi anzi la serietà delle galline, non è mai in discussione. Il disegno della loro morfologia e del loro comportamento ha precisione etologica e forza letteraria, gli avvenimenti del pollaio non solo non sono "minori" rispetto a quelli della casa degli uomini, ma ne sono il contrappasso costante. Se quella che si narra è una tragedia – e per molti aspetti lo è – non è mai stabilito se siano le galline a fare la parte del coro di fronte alle vicende umane, o viceversa. Le pagine più intense del libro attingono indifferentemente a quanto capita nella casa e a quanto capita nel pollaio».
Michele Serra, «la Repubblica»
«Quattro Galline racconta di una casa, dei suoi proprietari e di un pollaio. Le galline si rivelano l’unico punto di vista dal quale capire qualcosa di sé stessi. In questa spassosa meditazione su cosa diventa ricordo o memoria e cosa no, Jackie Polzin risponde insomma alla domanda se sia nato prima l’uovo o la gallina. La gallina. Animale sintesi delle nostre nostalgie e dei nostri perché».
Chiara Valerio
«Pieno di sfumature, umorismo e stravaganza. Polzin scrive magnificamente».
«The New York Times»
Anche lo sport, come la storia, celebra spesso i vincitori, dimenticando non solo gli sconfitti, ma anche quanto la competizione sia necessaria per raggiungere livelli di eccellenza impensabili in solitudine. La rivalità è un tipo di rapporto che può prendere sfumature diverse, ognuna interessante: può essere tossica, quando finisce per avvelenare uno dei due sfidanti, oppure virtuosa, quando porta entrambi i protagonisti a superare i propri limiti.
Quante vittorie, quanti record individuali sono, almeno in parte, merito anche di chi viene sconfitto, del secondo classificato?
Che siano vissute in modo tragico o come stimolo a migliorarsi, le storie raccontate in questo volume sono diventate l’archetipo di altre rivalità, presenti e future, e ancora a distanza di anni non hanno smesso di emozionare.
Due rivali sono necessari l’uno all’altro, la storia dell’uno appartiene, almeno in parte, anche all’altro. In fondo, come tutte le faccende umane, lo sport è fatto soprattutto di relazioni l’Ultimo Uomo
«Sfide fra grandi atleti che vanno oltre il campo di gioco e diventano un modo per raccontare tanto altro, soprattutto quell'intreccio indissolubile fra sport e storia».
Mauro Berruto, «Il Foglio»
«Le più originali dentro Rivali sono però tre, emozioni pure che restituiscono allo sport tutta l'umanità di cui ha bisogno per diventare immortale. La prima è la gara a chi scende più in profondità negli abissi marini fra Enzo Maiorca e Jacques Mayol, il bronzo siciliano di Siracusa e l'intellò francese nato a Shanghai. […] Il secondo duello riguarda due monumenti del tennis, Björn Borg e John McEnroe. Senza il rissoso e geniale americano, il gelido svedese non avrebbe mostrato al mondo limiti e umanità. […] La terza pepita del libro è un duello fra scriccioli atomici, Nadia Comaneci e Nelli Kim. Luogo dello scontro un tappeto, una trave, due parallele, un cavallo con maniglie, due anelli sospesi; il tutto avvolto da una nuvola di talco».
Giorgio Gandola, «Panorama»
«[…] La rivalità per eccellenza che ancora oggi infiamma i cuori partenopei e non solo, è quella fra Diego Armando Maradona e Pelé. Certo, chiarisce lo scrittore Fabrizio Gabrielli, i due non si sono mai affrontati sul rettangolo di gioco, non hanno mai incrociato i loro scarpini fra scatti, finte, dribbling e colpi di tacco, eppure, chiunque aspiri al trono di miglior giocatore del mondo – da Messi a Cristiano Ronaldo sino a Francesco Totti – deve passare da qui. Edson Arantes do Nascimento o El Pibe de Oro?»
Francesco Musolino, «Il Messagero»
«Se amate lo sport, questo è il libro che fa per voi […] una miscellanea di articoli che sono racconti e paiono elzeviri sopraffini. A cura di “l'Ultimo Uomo”, una rivista fondata nel 2013 che ha fatto dello sport un'imperdibile occasione di letteratura»
Alberto Pezzini, «Libero»
«Chi conosce lo stile della rivista troverà lo stesso equilibrio tra letteratura e tecnica, cultura pop e giornalismo sportivo».
Alberto Piccinini, «il venerdì – la Repubblica»
Alcuni anni fa, in occasione di un incontro con i lettori romani, scrissi le parole che seguono e che pubblico soltanto ora perché, da un’ora, ho saputo che Javier Marías è morto, nella sua Madrid. Non sapevo che stesse così male.
Preferisco pubblicare queste parole pensate con calma per lui piuttosto che improvvisare trascinato dall’emozione, dalla tristezza, dalla mancanza.
«Raccontare è quasi sempre un regalo», scrive Javier Marías nella prima pagina di Il tuo volto domani. E se ogni lettore prova a ripensare i libri letti e amati nel corso del tempo e lungo la propria vita non fatica a scoprire o a riconoscere la naturale verità di queste parole. Esistono scrittori a cui siamo grati per un libro o due, per una storia, per un personaggio, addirittura per un dialogo o una frase, o anche solo per una scena, che entra così a far parte del catalogo di quelle scene assolute – come le chiamava Stevenson – che si imprimono per sempre nella nostra memoria e che ci servono nel corso della vita per dar forma alle nostre esperienze, ai sentimenti, ai pensieri. Anche per questo si legge, non per trovare formule, ma per cercare forme. E con esse provare a fermare provvisoriamente l’indefinito che incontriamo sul nostro cammino.
Differente, e più raro, è il caso degli scrittori a cui siamo grati per aver creato un regno in cui, se certamente loro sono sovrani, noi lettori di sicuro non ci sentiamo sudditi ma cittadini. Voglio dire che in quel regno, sempre a intermittenza fra verità e immaginazione, noi non ci sentiamo in alcun modo costretti, ma ci ritroviamo. Ne condividiamo i luoghi e il tempo, le aperture fantastiche e il lato oscuro, le figure, le citazioni, le letture e perfino i tic, che riconosciamo come segnali di orientamento. In questi casi allora non si tratta di una singola storia, di un personaggio o di una scena assoluta, ma di un’opera, o meglio di un universo in movimento, di una «forma di durata», «quel luogo della mia eternità» – come scrive Marías – che ci convoca al proprio interno da ogni punto della sua sfera, sia che abbia la forma narrativa di un romanzo o di un racconto, di una poesia, di un saggio, di uno scherzo, o anche solo di un articolo di giornale o di una cronaca sportiva. Credo che Javier Marías appartenga a questo genere ultimo di scrittori. Certo, come sempre, li si può incontrare o disincontrare, ma se li si incontra allora sarà difficile preferire o rifiutare questo o quel libro, nel nostro caso Un cuore così bianco, Domani nella battaglia pensa a me, Nera schiena del tempo, L’uomo sentimentale, Vite scritte, Quand’ero mortale, (oggi aggiungo) Così ha inizio il male, Berta Isla, Tomás Nevinson. Piuttosto li si distinguerà come passaggi differenti di una stessa città, in cui avviene sempre, in mille forme diverse, uno stesso evento, un gioco che diventa anche il nostro gioco. «So che nel momento di scrivere o raccontare storie e inventare personaggi – dice Marías – ho saputo o ho riconosciuto oppure ho pensato cose che solo nella scrittura si possono sapere o riconoscere o pensare. A volte solo nella finzione, ecco, nella scrittura di romanzi e racconti. Spesso mi torna presente l’esistenza di qualcosa che si tende a dimenticare e che anticamente si chiamò “pensiero letterario”, differente da qualsiasi altro, da quello scientifico e filosofico, da quello logico e matematico e perfino da quello religioso e politico». Marías spiega che non si tratta di un pensiero sulla letteratura, ma di un modo di pensare letterariamente il mondo, un pensiero difficile da definire perché può contraddirsi e non è soggetto ad alcuna dimostrazione o verifica, può sembrare arbitrario, capriccioso e perfino ridicolo. È una forma di «riconoscimento», che ci fa dire: ecco, è così. Insomma, «è un modo di sapere che si sa ciò che non si sapeva di sapere».
La letteratura che interessa a Javier Marías, come scrittore ma anche come lettore, è quella che, senza proporsi di spiegarlo, «racconta il mistero». Se il nostro sentire accoglie un’idea del mondo e dell’esperienza fatta sia da ciò che è accaduto che da ciò che sarebbe potuto accadere, sia da ciò che è reale e sia da ciò che è, più profondamente, vero, sia dall’immaginazione che dal ragionamento, non avremo trovato solo un libro o qualche storia, ma un regno in cui, senza consolazione alcuna, potremo riconoscerci.
Ernesto Franco, Cittadino Onorario del Reino de Redonda