Giulio Einaudi editore
Raphael Bob-Waksberg

Qualcuno che ti ami in tutta la tua gloria devastata è il primo libro di Bob-Waksberg, sceneggiatore, produttore televisivo e attore, conosciuto principalmente per aver creato la serie di culto BoJack Horseman: «Non esattamente un esordiente sprovveduto, dunque, ma piuttosto un abilissimo costruttore di meccanismi narrativi (anche molto piccoli) in cui colpi di scena e finali a sorpresa (o semplicemente commoventi) arrivano al momento giusto come in un perfetto congegno a orologeria. C'è del mestiere e un'intelligenza molto… newyorkese nella sua scrittura brillante che sa mischiare - perfino con cinismo - ironia e fragilità, sogno e divertissement, umorismo e malinconia. […] Le pagine scorrono con una grazia sottile che sommessamente ti avvolge e ti cattura» (Claudia Bonadonna, «Rumore»).

Un uomo e una donna che saltano tutte le fermate della metropolitana della loro vita in attesa dell’occasione giusta. Due sposi costretti dai parenti a sacrificare caproni per assicurarsi la felicità futura. Uno scienziato che fa avanti e indietro da un universo parallelo in cui ha fatto solo le scelte giuste. E altri quindici racconti pieni di umorismo e sincerità sul sentimento più bello e su quello più terribile: l’amore.

I racconti di Bob-Waksberg sono in grado di fare ciò che solo la vera arte può fare: riempiono il cuore di tenerezza, gli occhi di lacrime di gioia, le labbra di un largo sorriso. E tutto allo stesso tempo «The Washington Post»

Il libro raccoglie alcune pagine dall’autore disseminate negli anni, «storie surreali e assurde, amori dolorosi impastati in un umorismo dark, cenni di vita racchiusi in poche righe o in lunghi elenchi» (Dario Ronzoni, «Linkiesta», link).

«Ma soprattutto è una richiesta, amami nella mia gloria devastata, con uno stile che è quello che abbiamo già incontrato con Bojack – iniziare in un contesto di routine e precipitare nell’assurdo – e che, allo stesso modo, ci fa ridere e riflettere simultaneamente su quelle disgrazie che sono solo colpa nostra» (Corinne Corci, «Rivista Studio», link).

Leggendo questi racconti preparatevi a essere devastati e ricostruiti pezzo a pezzo. Raphael Bob-Waksberg  è «capace di tutto. Sa rendere credibili le storie più assurde […] benissimo tradotte dallo scrittore Marco Rossari che passa dall'impenetrabilità di Malcolm Lowry all'assurda comicità di questi racconti, senza mai un'incertezza» (Mariarosa Mancuso, «Il Foglio»).

Maurizio de Giovanni

Torna in libreria l'irresistibile Mina Settembre, assistente sociale del Consultorio Quartieri Spagnoli Ovest, fra i personaggi più amati del maestro del giallo italiano, Maurizio de Giovanni, e ora anche protagonista di una fortunata fiction Rai.

Accadono due fatti. Due fatti che appaiono chiari, eppure a Mina i conti non tornano. Un’anziana viene scippata, cade e finisce in coma. Sin qui nulla di strano, purtroppo; è la soluzione del caso, il modo in cui arriva, a non convincere. E convince poco pure il secondo episodio, una scena di povertà estrema mandata in onda da una televisione locale: un bambino che si contende del cibo con un cane fra montagne di spazzatura.

No, a Mina i conti non tornano proprio. Non è una donna che si lascia incantare dalle mille voci che circolano in città; è curiosa, caparbia, e così inizia a indagare con l’aiuto dell’innamoratissimo Mimmo Gammardella, il ginecologo più bello dell’universo, e a dispetto del suo caustico ex marito, il magistrato Claudio De Carolis. Solo che deve stare attenta, perché di mezzo, in questa vicenda, ci sono parecchie sirene, e le sirene, si sa, incantano.

È il mio miglior libro, quello più napoletano e quello più legato alla personalità narrativa di mia madre, scomparsa lo scorso autunno. Spero di restituire un centesimo della sua capacità di raccontare. Maurizio de Giovanni

Meno male che a far da guida fra inganni e malintesi c’è la Signora, straordinaria presenza che attraversa l’intero romanzo. Una delle invenzioni più poetiche dell’autore. Abita in un vicolo e ne ha viste tante nella vita. È convinta che le storie siano tutte legate da fili nascosti che, però, bisogna scovare.

«Se volete una storia, dovete andare dalla Signora. Arrivarci non è banale. La Signora sta alla fine di un vicolo privo di uscita, in cima ai Quartieri Spagnoli […] Prima di tutto, si notano il silenzio e il fresco. Per qualche oscura ragione, le alte pareti in tufo trattengono la cacofonia perenne all’esterno e restituiscono di sera il sole, e di giorno le tenebre, cosí da fornire un perenne pomeriggio di primavera, quale che sia la stagione. E in fondo, una magnolia spontanea si inchina dalle pietre in avanti, come una naturale tettoia protettiva di foglie larghe e scure, e fiori bianchi o germogli. Nemmeno con un drone, viene da pensare, si potrebbe vedere niente di quello che succede qui.
Ma tanto non succede nulla, qui, o quasi. C’è solo una porta che dà in un basso di cui non si vede l’interno, buio com’è. E una sedia. Dove sta la Signora».
Una Sirena a Settembre
, pp. 3-4

De Giovanni presenta «Una Sirena a Settembre» su Repubblica.it
Raffaella Carrà

È stata una rockstar, e non lo sapeva. Malinconico, in queste pagine, glielo aveva detto. Diego De Silva

Rumore (1974, di Ferilli - Lo Vecchio) è uno dei grandi successi di Raffaella Carrà, forse il piú ballabile della sua discografia. Racconta le fobie serali di una donna single e la sua fatica di adattarsi all’indipendenza dopo la fine di un amore.
Nella canzone, la percezione di un rumore in casa di cui la donna non sa spiegarsi la fonte diventa motivo di resa incondizionata a una paura ancestrale (di cui quella dell’intrusione di un malintenzionato è soltanto un aspetto), e insieme l’occasione per ridiscutere una scelta d’autonomia che comporta, fra le altre rinunce (se non in primis), quella alla tutela maschile.
Il tema della paura che assale e colpevolizza finisce cosí per asservire il brano ai suoi scopi narrativi, costruendo una sorta di sintomatologia musicale dell’ansia. Il pezzo è infatti caratterizzato dalla ripetizione nevrotica, tendenzialmente infinita, di un monosillabo cantato da un coro femminile che, come in un rituale ossessivo, supporta la voce solista al battere di un tempo perentorio, tachicardico, tipicamente dance, in palese avanguardia rispetto ai canoni della musica leggera dell’epoca.
Fin dalle prime battute, Rumore ingaggia una sorta di corpo a corpo con l’ascoltatore, inchiodandolo a un tempo che non ammette variazioni e obbliga a soccombere alla tirannia del ballo. È praticamente impossibile resistere alla tentazione di muoversi, non assecondare gli implacabili colpi di cassa confermati dal basso elettrico che insiste altrettanto compulsivamente su una sola nota, evocando la pulsazione della paura sofferta dalla protagonista e giocando a un raddoppio ritmico che costringe il corpo a un riflesso d’ubbidienza, quasi ci si sentisse spinti alle spalle, come se il pezzo, per cosí dire, istigasse a buttarsi nella mischia.
E sí che in uno scenario musicale egemonizzato dalla melodia, dove le canzonette abbondavano d’archi e le percussioni rimanevano rigorosamente sullo sfondo, proporre un pezzo dove il tempo faceva da padrone e gli strumenti melodici svolgevano un lavoro impiegatizio ai margini della ritmica, deve aver costituito una provocazione artistica al limite dell’affronto.
Per non dire del testo. In quale altro brano di musica leggera italiana il sentimento della paura è stato rappresentato in una versione cosí antimetaforica e organica? Nelle canzoni d’amore, la paura è sempre paura della fine dell’amore, dell’abbandono, della solitudine: mai la paura realistica, concreta, di un male in sé (e non è un caso che un altro successo della Carrà, uscito esattamente un anno dopo, s’intitoli proprio Male), magari impersonato da un rapinatore con un passamontagna che entra di notte in casa di una donna sola (spiegherò tra poco il perché di questa figura cosí precisamente descritta nell’abbigliamento).
La paura nelle canzoni d’amore è paura della perdita della persona amata come completamento affettivo del sé, non della mancanza dell’altro (da intendersi in accezione rigorosamente maschile) in funzione di guardia del corpo.
Da questo punto di vista, Rumore compie un’operazione antiromantica e controculturale: rompe il nobile pregiudizio che accompagna, nobilitandola, la paura nelle canzoni d’amore (e perciò la esorcizza), per riconsegnarla alla piú autentica dimensione dell’angoscia.
Priva d’ogni freno inibitorio, la protagonista della canzone si consegna mani e piedi al timore dell’aggressione notturna rimpiangendo la fine di una storia che le garantiva protezione e sicurezza:

Mi è sembrato di sentire un rumore
È sera
la paura
io da sola non mi sento sicura
sicura mai
mai mai mai
e ti giuro che stasera vorrei tornare indietro al tempo
E ritornare al tempo che c’eri tu
per abbracciarti e non pensarci piú su

Il rumore è dunque una categoria dell’immaginario, una manifestazione, un richiamo. È la gaffe dell’assassino, il ciak che dà l’azione alle paure piú intime e sopite, allestendo su due piedi una scena magistralmente diretta in cui la vittima prende improvvisa coscienza della parte che le è stata assegnata.
È quanto iconograficamente accade in una delle due copertine del singolo, dove Raffa indossa un passamontagna che le scopre soltanto gli occhi, come se in una sindrome di Stoccolma, un’identificazione patologica con il malintenzionato, volesse indossarne i panni e dirci: «Io sono l’aggressore di me stessa».
Malgrado l’impietosa descrizione dell’impotenza femminile, e l’implicita negazione della possibilità della donna ad aspirare all’autonomia, Rumore è solo apparentemente una canzone maschilista, perché proprio nella piena dell’incubo, quando la protagonista sembra stia per rinnegare la sua scelta d’indipendenza, riesce a trovare il coraggio di riaffermare se stessa, rivendicando il diritto a una vita da single alla faccia della sua stessa paura:

Ma ritornare, ritornare perché
quand’ho deciso che facevo da me

Indimenticabili, poi, le esecuzioni televisive del pezzo, veri e propri video ante litteram che dimostravano la spiccata inclinazione di Raffa a concepire già allora la canzone non come una semplice esecuzione vocale, ma un concept, un pacchetto di prestazioni artistiche differenti quanto necessarie a costruire un discorso complesso, recepibile contemporaneamente su piú livelli (cosí, p. es., in uno straordinario playback in bianco e nero tuttora disponibile in rete, vediamo Raffa dimenarsi al centro della pista di una discoteca – all’epoca si chiamava night – circondata da capelloni danzanti che agitano le braccia intorno alla sua figura come in un rito d’evocazione).
Uno dei molti talenti di Raffaella consiste, senza ombra di dubbio, nella sua promiscuità estetica. Nella naturalezza con cui ha saputo adottare le forme piú estreme di una modernità ancora inedita in Italia senza causare alcun danno d’immagine al suo personaggio di conduttrice televisiva per famiglie. Nella pratica di un trasformismo che non ha mai temuto la riprovazione del pubblico, ma anzi ne ha sempre ricevuto l’approvazione spontanea.
Basta dare un’occhiata alle due diverse copertine di Rumore proposte all’epoca per avere prova certa di questa straordinaria attitudine. Di volta in volta, Raffa può mostrarsi in tenuta da motociclista, con tanto di casco alla mano e un muro di pellicce di animali selvaggi alle spalle a farle da quinta, o spingersi fino a scegliere uno stile fetish (quello del rapinatore con passamontagna) che in Italia avrebbe impiegato almeno una trentina d’anni a sdoganarsi, e poi dialogare con Topo Gigio a Canzonissima con l’affabilità della piú deliziosa delle massaie.
È questa capacità di tornare alla tradizione entrando e uscendo liberamente dall’avanguardia, quest’attitudine a vivere una doppia vita facendo in modo che nessuna delle due fagociti l’altra, la vera cifra del suo talento. Come potesse permettersi qualsiasi cosa.
Piú dei suoi indubitabili meriti di ballerina, vocalist, attrice, presentatrice e donna di spettacolo a tutto tondo, è la sua innata capacità di guadagnarsi l’indennità sul campo che fa di Raffaella Carrà il personaggio pop italiano piú significativo degli anni Settanta.

Da Sono contrario alle emozioni di Diego De Silva, pp. 44-48