Mese: febbraio 2021
Manhattan, 2022. All’improvviso, non annunciato, misterioso: il silenzio. Tutta la tecnologia digitale ammutolisce. Internet tace. I tweet, i post, i bot spariscono. Gli schermi, tutti gli schermi, che come fantasmi ci circondano ogni momento della nostra esistenza, diventano neri. Le luci si spengono, un black-out avvolge nelle tenebre la città (o il mondo intero? Del resto come fare a saperlo?)
Cosa sta succedendo? È l’inizio di una guerra, o la prima ondata di un attacco terroristico? Un incidente?… Di certo c’è questo: era dai tempi di Rumore bianco che Don DeLillo non ci ricordava con tanta accecante precisione che viviamo, disperati e felici, in un mondo delilliano.
Come tutti i lavori dello scrittore americano anche Il silenzio ha suscitato un forte dibattito. Di seguito vi proponiamo alcuni estratti della calorosa accoglienza da parte della stampa italiana:
«"La vita può essere così interessante che dimentichiamo di aver paura”, scrive DeLillo, ed è da questo concetto che si sviluppano i temi del libro, raccontati ancora una volta magistralmente attraverso personaggi vulnerabili e spaesati, due dei quali reduci da un disastro aereo. Giunto ad ottantaquattro anni, DeLillo ribadisce la sua ammirevole e assoluta originalità di sguardo, e alterna la riflessione sui temi contemporanei a quelli eterni: la geopolitica, la tecnologia digitale, la grafologia e soprattutto il senso della fine».
Antonio Monda, «la Repubblica»
«[…] È un luogo angoscioso e cupo, ma al momento è l'unico che abbiamo, e ci dobbiamo stare. E continuo a pensare che Don DeLillo, l'ultimo americano, fosse l'unico scrittore al mondo che avesse la potenza, l'onestà, e il coraggio di darsi in sacrificio per dircelo. In Cosmopolis sta scritto: “Sarebbe morto ma non sarebbe finito. Il mondo sarebbe finito”. Ne Il silenzio non siamo morti, e non siamo finiti, ma il mondo sì: la quarta guerra sarà una genesi, e si combatterà con le parole».
Claudia Durastanti, «tuttolibri – La Stampa»
«DeLillo non chiarisce le ragioni del blackout. Ci coglie di sorpresa quando la tv si spegne a inizio partita, alle 18.30. Non ha consolazioni da offrirci. La realtà è quello che è, dobbiamo farcene una ragione. Come nel capolavoro Underworld (1997), tutto parte da un evento sportivo (in quel caso l'incontro di baseball tra i New York Giants e i Brooklyn Dodgers del 1951). In uno dei momenti più surreali della storia, Max fa la telecronaca della partita davanti allo schermo nero. Deve restare aggrappato ai ricordi. Prima di uscire di scena, il fan di Einstein Martin Dekker si congeda così: "Il mondo è tutto, l'individuo niente. Lo vogliamo capire?"».
Marco Bruna, «la Lettura – Corriere della Sera»
«Americana, suo debutto del 1971, e Il silenzio sono gli estremi di un affresco sulla storia contemporanea –che si estende per migliaia di pagine distribuite in una ventina di volumi– sempre impietoso e coerente. […] DeLillo batte i suoi romanzi su una vecchia macchina per scrivere, e non possiede nemmeno uno smartphone. Eppure nessuno meglio di lui sa, prima ancora che raccontare, percepire le crepe del nostro tempo. A 84 anni, con il Novecento sulle spalle, ha la vista più lunga di tutti verso il domani che si profila all'orizzonte».
Crocifisso Dentello, «il Fatto Quotidiano»
«L'oscurità che caratterizza Il silenzio si inserisce come una tessera riconoscibile nel mosaico di DeLillo. Il lettore potrà intravedere l'esito di Underworld nel passaggio dall'età industriale a quella digitale con l'implosione della realtà gonfiata da desideri superflui. Ci sono la dimensione dell'apocalisse, della tossicità dell'iperconsumismo e del progresso tecnologico che incombono in Rumore bianco, con cui DeLillo ha vinto nel 1985 il National Book Award».
Grabriele Santoro, «Il Messaggero»
«E per una volta anche il recensore vorrebbe imitare lo scrittore: leggete Il silenzio, mettete insieme le schegge che lo compongono, trovatene il senso, non trovatelo, trovate una via di mezzo o chissà cos'altro. Ecco il romanzo: andare soli in una foresta per trovarsi smarrendosi, eccitati e delusi, colpiti e annoiati, incerti e risvegliati. E qualcuno dirà: ma non è mica questo, che accade oggi nella stragrande maggioranza dei "romanzi"! Be', allora quella stragrande maggioranza di cose scritte non sono romanzi, e che tocchi a un ottantaquattrenne ricordarcelo: ah, questo è deliziosamente ironico…»
Giuseppe Montesano, «Il Mattino»
«I cinque protagonisti hanno già sperimentato il lockdown e capiscono subito che in confronto era stata una passeggiata. La percezione di quel che accade altrove, oltre la finestra, è sempre più vaga. Il tutto descritto nella solita vertigine che solo DeLillo sa creare frullando lo scibile intero: l'arte digitale, la comunicazione, l'economia, la medicina, la filosofia, il football americano. Un "vuoto barcollante" raccontato con la consueta poesia, tra schermi neri e luci di candela».
Mario Salvini, «La Gazzetta dello Sport»
Il 2 febbraio è uscito per Einaudi Stile Libero il nuovo caso di Vincenzo Arcadipane e Corso Bramard, Una rabbia semplice. Contestualmente la collana ha ripubblicato anche i due precedenti romanzi della serie, Il caso Bramard e Le bestie giovani.
L’arrivo nelle librerie di questi tre romanzi è stato accompagnato dalle calorose parole di Alessandro Baricco: «Chiedo, e trovo gente che non ha mai letto la saga di Bramard e Arcadipane. Oh, ma vogliamo scherzare? Quei due sono la risposta del Nord al commissario Montalbano! Sono l’invenzione del poliziesco piemontardo! Fango e pioggia, schiene diritte, tristezza, amori disperati, humor impassibile, violenza sepolta, sogni poetici, anarchia. E i corpi? Altro che la siciliana fisicità splendente. Qui i corpi sono una debolezza, un incidente, uno scandalo, una scusa. Scritture di cui si è persa la chiave. Solo nelle nebbie del Nord, dove “il sole è un lampo giallo al parabrise”, c’è gente del genere, e Longo la racconta da dio, con quel suo scrivere che ho studiato a lungo, come potrei studiare un cocktail, e adesso credo di aver capito: due parti di Fenoglio, due di Simenon, una di Paolo Conte e cinque di Davide Longo. Aggiungere una spezia che non so (qualcosa come una goccia di disperazione, direi, ma non so) e servire. Ne butti giú uno e poi non smetti piú. Giuro».
È una primavera malinconica per il commissario Arcadipane. Ha cinquantacinque anni, un matrimonio fallito alle spalle e un futuro che non promette granché. Due anni di solitudine senza la moglie e con i figli che ormai hanno la loro vita.
Un caso, però, risveglia la sua attenzione e l'istinto che credeva aver perduto: una donna colombiana, Dolores Mendes, viene aggredita fuori da una stazione della metropolitana di Torino. Sembra un caso facile, il colpevole viene subito rintracciato dalle telecamere della stazione, vestito con un kimono, i bermuda a fiori e una maschera. È un ragazzo di periferia con capelli rasati ai lati che spaccia vicino al suo vecchio istituto, spesso coinvolto in risse. La soluzione sembra a portata di mano ma il commissario non è soddisfatto e vuole indagare più a fondo con l'aiuto del suo vecchio capo, Corso Bramard, in lotta contro un male oscuro, e dell'agente Isa Martini.
Una rabbia semplice ha ricevuto subito un’ottima accoglienza da parte della critica. Ecco alcuni estratti:
«Davide Longo è un appartato, una bestia rara. Scrive noir, o forse no. Scrive mondi. Ha inventato un commissario in congedo che si chiama Corso Bramard ed è un uomo verticale, algido, una scultura di Giacometti col passo anche interiore di un Clint Eastwood, insieme a un altro commissario che è il suo allievo anche se ha già 55 anni e di nome fa Vincenzo Arcadipane, un trattore, una macchina basculante costruita per funzionare. Quanto è mentale Bramard, tanto è corporeo Arcadipane che in saccoccia tiene un mucchio di sucai da estrarre compulsivamente e ingoiare insieme ai pelucchi che stanno sul fondo delle tasche. Due così non li dimentichi».
Maurizio Crosetti, «la Repubblica»
«Perché parte tutto da quello che sembra un brutto ma semplice fattaccio di cronaca, con una donna in coma per essere stata presa a calci in metropolitana, e poi si allarga a qualcosa che diventa più grande, e per quanto sembri una follia posso assicurarvi che accade davvero, e proprio per questo deve farci paura […] L'avevo perso, l'ho ritrovato e non lo mollo più. Davide Longo è uno dei grandi».
Carlo Lucarelli, «Corriere della Sera»
«Simbolica via di mezzo tra "una nuvola d'ira" e "una questione privata", comunque distante dalla lugubre ferocia dell'ennesimo massacratore seriale preda delle sue deliranti fobie. Una rabbia quasi immobile, quella dipinta con profonda partecipazione emotiva da Davide Longo, che torna a muovere le fila dei suoi recenti protagonisti con la rustica volontà di scavare nell'anima più che nel sangue […] Non sappiamo se siamo stati più coinvolti dalla trama umanamente in crescendo o dai personaggi che vivono le loro faticose storie sbattendosi per portare a casa un stella al merito per sopravvivere».
Sergio Pent, «tuttolibri – La Stampa»
Quante volte parliamo dei medici come di eroi, martiri, vittime… In verità, fuor di retorica, uomini e donne esposti al male. Appassionati e fragili, fallibili, mortali. Paolo Milone ha lavorato per quarant’anni in Psichiatria d’urgenza, e ci racconta esattamente questo. Nudo e pungente, senza farsi sconti. Con una musica tutta sua ci catapulta dentro il Reparto 77, dove il mistero della malattia mentale convive con la quotidianità umanissima di chi, a fine turno, deve togliersi il camice e ricordarsi di comprare il latte.
Quello di Milone è un esordio straordinario, come è straordinaria l’accoglienza che sta ricevendo da parte della critica e del mondo letterario. Di seguito alcuni estratti:
«L’arte di legare le persone di Paolo Milone mi ha stecchito. Che accidenti di libro. Ti porta dentro un mondo, quello della malattia psichica, del dolore insensato, che sembra opaco e impermeabile: invece Milone te lo spiega con pagine che sembrano canzoni belle, racconti di Carver, poesia. È un libro che fa venir voglia di mollare tutto, cambiare vita, fare qualcosa di utile per gli altri. Se lo avessi letto a diciotto anni, invece di leggere e rileggere Nietzsche, forse avrei fatto la psichiatra.
Dicono che gli psichiatri siano tutti matti. Non so se Paolo Milone sia matto ma sicuramente è uno scrittore molto bravo. L’arte di legare le persone racconta cosa vuol dire sentire il dolore degli altri e cercare di farci qualcosa. Spiega che anche quando non puoi farci niente devi esserci. Che le parole servono poco, i fatti molto. È un grandissimo libro. Complimenti gente di Einaudi».
Daria Bignardi, link
«In questo libro che sembra un diario, con una forma libera e poetica che a volte sembra una preghiera umanissima all’amore verso di sé, a volte il ricordo di una notte passata a impedire a una ragazza di buttarsi dalla finestra, Paolo Milone muove tutta l’umanità e l’intimità di un medico che vive tenendo tra le mani il dolore degli altri…»
Annalena Benini, «Il Foglio»
«L'arte di legare le persone è un’opera letteraria sulla malattia mentale tra le più belle, inusuali e poetiche degli ultimi anni. Pura emozione, intuizioni non banali, qualche provocazione, non ci si annoia mai. Un libro unico nel panorama italiano. Per forma, oggetto di scavo, capacità di indagine, arte del paradosso. Se ho citato Spoon River l'ho anche fatto con spirito provocatorio poiché, in questa ballata del mare salato, da quale regno escano i vivi e da quale i morti non è mai del tutto chiaro».
Nicola Lagioia, «Robinson – la Repubblica»
«Non è un romanzo, non è un saggio, è una storia che contiene noi stessi. Custodisce gli esseri umani per come vengono al mondo: c’è chi cura, chi è curato, chi rimane nel mezzo, chi lega e chi è legato. Leggerlo è come salire su una zattera e avere il coraggio di oltrepassare le colonne d’Ercole per vedere come siamo fatti, laddove ci consideriamo inesplorabili. Paolo Milone ce lo permette e lo fa con un mosaico emotivo che respira di verità dalla prima all’ultima pagina. Alla fine della lettura era commozione. Era spavento, stupore, fastidio, tenerezza. Era compassione. Alla fine della lettura, ho vissuto. È questo, per me L’arte di legare le persone è questo. Un’anatomia della vita».
Marco Missiroli
«Milone, con gli occhi di un protagonista di finzione ispirato a se stesso, racconta la routine del Reparto di psichiatria d'urgenza in un ospedale genovese e ci fa conoscere Lucrezia che ha 20 anni e si taglia con le lamette e Carmelo, che farebbe di tutto per comprarsi la dose. Il risultato è un libro delicato e sincero che sta riscuotendo consensi online con il passaparola, "parlando delle nevrosi senza scivolare nel politicamente corretto"».
Francesco Musolino, «Il Messaggero»
“Con una scrittura che ha il passo della poesia, la stoffa del coraggio e l'intensità del mettersi a nudo, Milone ci porta per mano nel suo reparto, tra urla perforanti e silenzi assordanti, scalpiccii notturni, sedie spostate, la macchinetta del caffè che gorgoglia nella stanza infermieri, fruscio di lenzuola. […] Se ne esce col cuore felicemente crepato perché ogni istantanea è struggente umanità e salvifica lucidità, pugno e carezza, ferita e sutura, vita e morte insieme».
Carlotta Vissani, «il Fatto Quotidiano»