Mese: novembre 2020
In una mattina di dicembre il capitano del Chiwi, l’imponente yacht dell'imprenditore Ademaro Proietti, ha lanciato l'allarme: «Uomo in mare». È proprio il proprietario ad essere scomparso, non si è presentato a colazione, il letto della sua cabina è intatto. Quando il mare di Ostia restituisce il cadavere di Ademaro, la prima ipotesi è che l’uomo sia annegato in seguito a una disgrazia. Eppure c’è qualcosa che non torna, un piccolo indizio che potrebbe richiedere per l’episodio una spiegazione diversa.
Ad indagare viene mandato il magistrato melomane Manrico Spinori, primo personaggio seriale nato dalla penna di Giancarlo De Cataldo. Insieme a lui «riecco il team delle collaboratrici del pm, Deborah Cianchetti, Gavina Orru e Sandra Vitale. Per fortuna: era bastato un romanzo per farci venire voglia di ritrovarle» (Alberto Mattioli, «tuttolibri – La Stampa», link).
Sullo yacht, che tornava da Ponza, c'erano sette persone: il capitano, un marinaio, lo scomparso i suoi tre figli, il genero. Il corpo del palazzinaro non è ancora corroso dal mare né deturpato dai gabbiani. Ha però una sospetta lesione alla testa. Da qui parte un «giallo d'atmosfera, nella migliore tradizione del genere» che, secondo Maurizio Crosetti, si trasforma in un «giallo psicologico, dove il garbuglio di possibili moventi rivela tutta la sporcizia cacciata sotto il tappeto per decenni, comprese le turpi origini della fortuna del palazzinaro ucciso, il cui padre se la faceva con i nazisti» (Maurizio Crosetti, «la Repubblica»).
De Cataldo «non si limita a regalare al lettore un giallo impeccabile per meccanica, scrittura e descrizione d'ambienti, un mondo romano altoborghese ma sostanzialmente cafone. Sommessamente, com'è nello stile suo e del suo pm, lancia frecce sottili ma per questo ancora più acuminate contro l'horror che ci circonda, la violenza verbale e la miseria intellettuale dei social, il giustizialismo isterico, i processi celebrati dai media invece che nei tribunali, la volgarità di modi e mode. Rivendicare il valore e magari pure la bellezza delle infinite tonalità di grigio in un mondo che vede solo il bianco e il nero non è poco. L'understatement, l'ironia, la signorilità diventano allora una forma di resistenza al Grande Chiasso che ci assedia, un argine precario ma prezioso alle colate di guano che tracimano ovunque, un piccolo spazio personale di sopravvivenza nella gara a chi urla più forte, e generalmente delle sciocchezze. Come quando Spinori si chiude nel suo studio, indossa un vecchio kimono e si abbandona alla bellezza di un'opera lirica» (Alberto Mattioli, «tuttolibri – La Stampa»).
L’indagine deve essere condotta con prudenza. Ademaro era un potente imprenditore, incensurato e con amicizie politiche e anche l'avvocato di famiglia è una donna influente, presente nei media. Stavolta nemmeno l’opera lirica, che da sempre lo ispira nella soluzione dei casi, sembra venire in soccorso a Spinori: «Per lui la morte è sempre, soprattutto nel caso dei delitti, uno spreco ingiustificabile. Gli omicidi spesso sono commessi in modo stupido per delle ragioni trascurabili, anche se possono apparire profonde e urgenti a chi commette il delitto, ma costituiscono un'autentica offesa al creato" [...] Le sue qualità migliori sono la tenacia, la pazienza e l'ironia. Con l'esperienza s'è convinto che c'è più autenticità, sincerità e verità nelle passioni rappresentate sul palcoscenico che in quelle urlate nella vita reale, che nascondo solo la banalità del male» (Giancarlo de Cataldo, intervistato da Francesco Mannoni «Il Mattino»).
Con Un cuore sleale, già in via di traduzione in Francia per Métailié, De Cataldo ha creato una storia intensa e coinvolgente ambientata in una Roma fredda e umida in cui Spinori si ritrova solo: una condizione troppo malinconica anche per un appassionato del melodramma come lui. Ma ideale per concentrarsi su un mistero che pare un autentico «giallo della camera chiusa».
Nel nuovo romanzo di Nesbø protagonisti sono due fratelli, Roy e Carl. Roy vive da solo, da anni, in un paese della Norvegia, nella casa di famiglia; gestisce una stazione di servizio, è un uomo taciturno ma capace nel suo mestiere. Carl, il fratello adorato, sempre protetto, presente in tutti i suoi ricordi, se ne è andato quindici anni prima. Ora è inaspettatamente tornato con il grandioso progetto di costruire un hotel e trasformare il paese in una località turistica.
Il suo arrivo però risveglia ricordi, rancori, sospetti e invidia; riemerge un segreto di famiglia che giaceva nascosto nell'animo di entrambi. Roy si trova di nuovo a doverlo difendere dall’ostilità e dai sospetti degli altri, deciso a non far riaffiorare i fantasmi del passato.
Non c’è l’amato Harry Hole dunque, ma il maestro del crime scandinavo ha dato vita a un thriller sulle menzogne, i segreti, i tradimenti nascosti dietro la rassicurante facciata della vita familiare. Per Stephen King è animato da «una tensione fortissima ed è davvero originale. Un libro speciale da tutti i punti di vista».
In un’appassionata recensione su «Robinson – la Repubblica», Claudia Morgoglione descrive Il fratello come «una storia libera da tentazioni politiche e sociali, che per la sua potenza narrativa appassionerà sicuramente i nesbiani duri e puri […] Qui le cose sono diverse. Perfino nel dipanarsi della violenza: lenta, lentissima, in apparenza assente per lunghi tratti del racconto. Ed è per questo che II fratello conquisterà anche chi nesbiano non lo è mai stato: meno stilemi di genere, più viaggio al termine di una notte piena di incubi».
Come ha raccontato lo stesso Nesbø a «The Independent» (link) attraverso questo romanzo, l’autore ha fatto i conti col proprio passato, con la forza dei legami tra fratelli, con l’insidia dei segreti trasmessi da una generazione all’altra. Scrivere storie è il suo modo per affrontare dubbi e fantasmi, trasformando il passato in qualcosa di nuovo.
«Non è stato facile ricominciare dopo L'Arminuta. Non ritrovavo il silenzio dentro di me, non il vuoto doloroso da cui nasce la scrittura. A ogni tentativo mi ritiravo frustrata, insoddisfatta. Poi la mia tiroide si è ammalata di un piccolo tumore e l'ho dovuta togliere». Con queste parole Donatella Di Pietrantonio apre la sua toccante presentazione di Borgo Sud a «tuttolibri – La Stampa». Ma nel momento più difficile, nella sua stanza dell’ospedale, «Adriana ha invaso la scena con la sua energia […] Illuminava di nuovo le pagine, le attraversava come un vento. Mi portava nel suo matrimonio, e in quello della sorella».
Adriana irrompe sempre nella vita di sua sorella con la forza di una rivelazione. Sono state bambine riottose e complici, figlie di nessuna madre. Ora sono donne cariche di slanci e di sbagli, di delusioni e possibilità, con un'eredità di parole non dette e attenzioni intermittenti.
Donatella Di Pietrantonio ci regala un romanzo teso e intimo, intenso a ogni pagina, capace di tenere insieme emozione e profondità di sguardo. Nato dalle «voci delle due sorelle che non si erano mai spente dentro di me, nei lunghi mesi di tentativi ed errori. All'improvviso avevo convocato accanto a loro un personaggio maschile inaspettato. Non potevo prevedere in quel momento quanto mi sarebbe diventato caro, Piero. Sono rimasta in ascolto. Mi sentivo come Geppetto davanti al suo Pinocchio sgrossato dal legno. Era quell’attimo benedetto in cui il personaggio è appena venuto al mondo e non sa quale strada prendere».
Di seguito alcuni estratti dell’eccezionale rassegna stampa di Borgo Sud:
«Chi ha già letto L'Arminuta, di Donatella Di Pietrantonio, sarà felice di ritrovare "sòreta", Adriana, la sorella minore, "come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia": la resistenza al dolore, la salvezza della complicità. Chi invece inizia il viaggio da questo nuovo e totalmente autonomo romanzo, resterà avvinghiato a due donne piene di altre delusioni e altre speranze, che portano addosso il peso, l'odio e l'amore per il borgo d'Abruzzo che le ha cresciute disadorne e le ha spinte ad andarsene. Una per studiare, per guadagnarsi un'altra possibilità, l'altra per andare, per sentire la vita, per scappare, per amare […] Adriana viene maledetta dalla madre, una vera maledizione arcaica, con il seno avvizzito tirato fuori dall'abito e puntato contro, una maledizione che la madre dirà poi di non saper levare, alzando le spalle come per sminuire la violenza totale e primitiva di quel gesto. "Se sòreta non cambia coccia fa una brutta fine". Una madre incapace di curare i vivi e due sorelle incapaci di perdonarla, ma anche di fare a meno di lei che ripulisce i peperoni dalla pelle e dai semi, e che guarda arrivare le sue figlie con il coltello a mezz'aria e non dice nulla. In questa triade femminile potentissima entra la scrittura intima e rude di Donatella Di Pietrantonio, capace di scavare fino a dove è più difficile giungere senza ferirsi».
Annalena Benini, «Il Foglio»
«… Ma la professoressa si trattiene e sceglie il silenzio. S'infila la sua giacca mentre resta colpita dalla tenerezza della giovinezza che non merita di essere esposta a quella verità crudele. E se la sorte invece risparmiasse i loro sogni? Il carattere limpidamente tragico della scrittura e della struttura narrativa di Donatella Di Pietrantonio trova in questa scena la sua cifra più propria: sapere che la vita porta con sé una atrocità irredimibile non significa cedere a questa atrocità. È la lezione della più grande letteratura italiana del Novecento: da Elsa Morante a Primo Levi. Borgo Sud riflette questa temporalità pienamente tragica».
Massimo Recalcati, «la Repubblica»
«Uno stile asciutto, che ben scava nelle anime […] Una sorellanza e un'orfananza capaci di superare le contrarietà. Perché, confessa l'Arminuta, "da lei ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate". Una salvezza faticata, in questa intensa "storia di disgrazie e miracoli, morti e sopravvivenze: la storia disadorna della nostra famiglia", attorno alla quale si muovono però anche altri personaggi che l'autrice tratteggia con tenerezza e finezza: da Piero a Isolina, mamma di Rafael; all'amico Vittorio; ai pescatori di Borgo Sud. E a quel paesaggio a sua volta personaggio».
Ermanno Paccagnini, «la Lettura – Corriere della Sera»
«Raccontato in prima persona da una donna timida, austera ma ostinata che ha il suo doppio nella sorella, Adriana, esuberante e sfrenata, Borgo Sud è un piccolo Vangelo. Nel quale tutti i personaggi sono insieme antichi e giovani, creature di terra affacciate sul mare arduo dei pescatori, artigliati da famiglie in cui non ci si riesce ad amare in modo semplice. Di Pietrantonio, nata nella provincia di Teramo, è una delle più importanti romanziere italiane di questi anni, che ha costruito la sua strada di scrittore con tenacia e senza errori. Dall'orrore del terremoto fino a qui, dove tutto, continuamente, si spezza. La sua scrittura rocciosa, che si avvita con perfezione alle storie, implacabili, non può che rimandare al suo conterraneo, Ignazio Silone».
Elena Stancanelli, «D – la Repubblica»
«Ritroviamo molte cose simili anche in Borgo Sud, il nuovo romanzo pubblicato in questi giorni da Einaudi con cui la Di Pietrantonio torna nelle librerie riportandoci anni dopo in quei posti, anche se diversi, e la cosa bella tra le tante in cui vi imbatterete in questo autentico gioiello di scrittura, è che questo libro può essere letto indipendentemente dall’altro, come un libro a sé. Al panorama verdeggiante di colline e montagne si aggiunge il mare, che però qui, rispetto al primo libro, “è solo una sfumatura del nero che bagna la sabbia e si ritrae”. Non importa vederlo sempre o descriverlo meglio perché – come dice la protagonista – si sa da sempre “che sta lì”».
Giuseppe Fantasia, «Huffington Post», link
«Avevo voglia da tanto tempo di raccontare la schola come divertimento perché in effetti nasce così: in greco scholè significa avere tempo libero, divertirsi, avere piacere di quello che fai». Così Roberto Vecchioni, intervistato da Luca Valtorta, presenta il suo nuovo libro a «Robinson – La Repubblica».
Lezioni di volo e di atterraggio è un viaggio fra i miti classici, che contengono già la verità del mondo, fra le parole del sacro e del profano, della poesia e della filosofia; il cantautore aiuta ad aprire altre porte senza fermarsi alla prima, a «non ripetere il risaputo», a sondare il possibile, a lanciarsi con l'immaginazione.
Le sue parole, sempre poetiche e pregnanti, ci spingono in alto, sopra il quotidiano, senza paura di perderci. «Un libro dal quale devi farti proprio portare. Un libro il cui piano di volo si lascia a sua volta assorbire da risucchi memoriali, salvo riprendere il filo rosso strutturale costituito da quelle specie di lezioni all'aria aperta, quasi a poter meglio respirare il senso della libertà di pensiero, nella volontà di stravolgere le idee preconfezionate, scomporre le apparenze, sondare le possibilità parallele e "guardar fuori, oltre, immaginando dove ha casa la speranza"» (Ermanno Paccagnini, «la Lettura – Corriere della Sera»).
La scuola di Vecchioni prima di tutto è un luogo in cui s’insegna senza impartire lezioni. I ragazzi hanno coraggio, desideri, paure, e una sete dentro che non si spegne mai. Sono irrequieti, protervi, insicuri: in una parola veri. C’è il momento del volo e quello dell’atterraggio, ma «non è proprio una divisione: è un andare con la fantasia più avanti che si può, perché è bello partire e cercare soluzioni diverse di tutti i tipi nel passato e nel presente. Posso inventare che Socrate non è morto in mezzo agli amici ma da solo, però poi devo dirlo ai ragazzi: la verità è questa. La parte "dell'atterraggio" è la parte più umana, più debole, nostra: quella di un quotidiano monotono. Nel "volo" tutti i giorni sono bellissimi e sublimi» (Roberto Vecchioni intervistato da Francesco Mannoni, «Il Mattino»).
Ecco allora Socrate, Platone, Prometeo, De Andrè, Alda Merini… tutte voci che il professore offre attraverso un dialogo incessante con i suoi alunni, portandoci a osservare con la coda dell’occhio un’altra, potentissima, forma di verità.