Giulio Einaudi editore
Viola Ardone

Amerigo Speranza è l'io narrante di una storia straordinaria, dura, di un romanzo che racconta la vicenda poco conosciuta di migliaia di bambini meridionali che nel secondo dopoguerra, grazie al Partito Comunista, vennero strappati alla miseria e affidati a famiglie del Nord e del Centro.

Amerigo è povero, vive a Napoli con la madre Antonietta, figlio unico senza un padre, forse sparito in America, «a faticare». La madre decide di offrirgli l'opportunità di una vita migliore, non vuole più mandarlo a raccogliere le «pezze»; per lui desidera scuola, cibo, salute.

Il bambino parte per il Nord spaventato dalle dicerie sulle cattiverie e sulla crudeltà dei comunisti; sale sul treno per recarsi in un altrove sconosciuto dove troverà, gli hanno garantito, una famiglia affettuosa e una casa accogliente. Il romanzo di Viola Ardone «ha il pregio, davvero consolante, di raccontare la storia di un bambino in affido senza occultarne alcun aspetto. E anzi rispettando la straziante “doppiezza” della vita di Amerigo, la perdita della mamma e la sconfitta della fame, le radici recise e la nuova serenità, l’insicurezza indegna e la protezione “artificiale” imposta dall’altro e al tempo stesso provvidenziale» (Michele Serra, «la Repubblica»).

Un assaggio del romanzo nella lettura dell'attore Lino Guanciale

Si dovrà confrontare con un nuovo dialetto, con cibi diversi e con una donna, Derna, che lo accoglie con paura e timore, spaventata quanto lui perché «di bambini non ne capisco proprio», e deve consolare, rassicurare un cuore infantile segnato dalla separazione e dalla perdita.

«La Ardone ha affondato le mani nella storia più dolorosa della sua città. Ha setacciato il dialetto, la mentalità di quegli anni, e ha plasmato lo scenario perfetto per un grande romanzo sulle scelte. Perché quello che Amerigo ci racconta, salendo sul treno, è proprio il momento in cui i binari della vita si separano, costringendoci a prendere una decisione. Una decisione sostanziale, in grado di definire la nostra identità» (Simona Sparaco, «La Stampa»).

Questo è un libro bellissimo e importante, che dovete leggere. Vi assicuro che vi resterà nella testa, una volta finito, come quelle cose che ti cambiano un po'. Per sempre. Maurizio de Giovanni

L’autrice ci affida la storia commovente di una separazione e solidarietà, concetto che «si è totalmente smarrito, cioè fare del bene a fondo perduto. Nel dopoguerra furono i semplici, alla fine, moltissimi contadini e artigiani, ad accogliere questi ragazzini. Oggi, quanti benpensanti prenderebbero per sei mesi un ragazzetto venuto dal mare, sceso dalla Open Arms?» (Viola Ardone intervistata da Conchita Sannino, il venerdì – la Repubblica»).

«Viola Ardone scava fino a farci male, indaga negli animi fino a farci tremare. Amerigo al bivio fra i due mondi farà una scelta che avrà conseguenze dolorose ma produrrà nuovi semi. Se non saranno soffocati, cresceranno, diventeranno piante rigogliose. Perché il dolore, anzi soprattutto il dolore può essere fertile. E le lacerazioni magari dopo molti anni possono essere ricomposte. Perché il treno della vita è comunque mosso dall’amore e anche se deraglia e torna indietro, comunque non si ferma» (Ritanna Armeni, «L'Osservatore Romano», link).


Il treno dei bambini è stato il caso editoriale italiano dell'ultima Fiera di Francoforte, in corso di traduzione in 25 lingue:

«Un romanzo appassionante e scritto benissimo. La storia di questo bambino del dopoguerra, della sua lotta per la sopravvivenza e l’amore, tiene incollati alle pagine».
Marion Kohler, DVA-Penguin, Germania

«Originale, emotivo, di grande qualità letteraria. Un libro che tutti dovrebbero leggere».
Anne Michel, Albin Michel, Francia

«Uno splendido romanzo. Viola Ardone ci fa riflettere, con delicatezza e maestria, su come certe decisioni possano cambiare per sempre la nostra vita».
Elena Ramírez, Seix Barral, Spagna

Auður Ava Ólafsdóttir

Hekla è una ragazza bellissima che dalla remota Dalir si è da poco è trasferita a Reykjavík. Siamo in Islanda, nel 1963, e una donna dovrebbe gestire la casa e occuparsi dei figli. Al massimo, ambire al titolo di Miss Islanda.

Ma Hekla vuole diventare una scrittrice. Non basteranno un buon impiego, un gatto o l’amore di un poeta a farle cambiare idea. Perché lei, che porta il nome di un vulcano, ha un cuore inquieto e in sé la forza di un fiume di lava incandescente: «È la storia di una donna che non riesce a trovare il suo posto in una società letteraria maschile dove le donne non sono ammesse» (Auður Ava Ólafsdóttir intervistata da Francesco Moscatelli, «Tuttolibri – La Stampa»).

Arrivata nella capitale, la ragazza prima incontra la sua amica d’infanzia, sua coetanea che si è trasferita per il marito ed è già madre, poi va a vivere da Jón John, il suo più caro amico; con Hekla condivide la fame di sogni e libertà, ma come lei è emarginato dalla società ottusa degli anni Sessanta perché omosessuale, anzi, «invertito».

Perché scrivo? La risposta che mi sono data è questa: scrivo per dare voce a chi non ce l’ha. Auður Ava Ólafsdóttir, «Tuttolibri – La Stampa»

Per Francesco Moscatelli, che ha intervistato l’autrice per «Tuttolibri – La Stampa», con Miss Islanda, «Auður Ava Ólafsdóttir mette in scena una sorta di Bohème islandese popolata di esistenzialisti timidi e omosessuali alle prime armi e fotografa l’istante in cui tutto stava cambiando […] Hekla vuole diventare la moglie di un poeta o essere lei stessa una poetessa? Come sempre con i personaggi di Auður Ava Ólafsdóttir per cercare una risposta c’è bisogno di mettersi in viaggio».

Nel romanzo c’è anche, sullo sfondo, il ritratto di una terra distante, soprattutto negli anni pre-digitale, ingabbiata da una lingua complessa e sconosciuta: «Nel libro ho voluto esplorare i sentimenti che si provano verso ciò che è lontano, sconosciuto. Voglio che il lettore percepisca cosa significa l’isolamento per l’animo umano. L’isolamento è qualcosa di centrale nel mondo d’oggi. E noi islandesi, soprattutto noi scrittrici e scrittori islandesi, sappiamo bene cosa voglia dire essere sconosciuti al mondo» (Auður Ava Ólafsdóttir intervistata da Francesco Moscatelli, «Tuttolibri – La Stampa»).

Mariolina Venezia

Il 22 settembre è andata in onda su Rai 1 la prima puntata di Imma Tataranni – Sostituto procuratore, la nuova crime fiction ispirata al personaggio di Mariolina Venezia, ambientata nella bella e calda Matera: un «boom di ascolti che, con oltre 5 milioni 100 mila spettatori e il 23,3% di share, stravince la prima serata» (Ufficio Stampa Rai, link).

Imma, interpretata da Vanessa Scalera, è una donna determinata, forte, preparata e decisamente fuori dagli schemi: «Porta con sé la forza dei deboli che credono in se stessi, è una donna che si autodetermina, che sceglie come rapportarsi eroticamente. Pur non essendo la bellona di turno ha una vita erotica, si gusta l’esistenza insieme al marito, si esprime con i colori e non si castra» (Mariolina Venezia a «Io Donna – Corriere della Sera»).

Questa stagione è basata sui primi tre romanzi dell’autrice: Come piante tra i sassi, Maltempo e Rione Serra Venerdì. «Incorruttibile, dissacrante ma anche ironica e capace di gesti di grande compassione, Imma indaga circondata da un gruppo di personaggi curiosi, destreggiandosi con abilità tra il Procuratore capo, il bell’appuntato Calogiuri, un polemico anatomopatologo, i coloriti marescialli di zona, la suocera, il marito e la figlia. Il risultato finale? Un giallo sui generis, con la regia di Francesco Amato, che diventa anche l’occasione per un divertente e a tratti pungente ritratto dell’Italia di oggi» (Francesco Canino, «Panorama»).

Il trailer

Il 24 settembre è uscito nelle librerie Via del Riscatto, la nuova avventura della «Piemme tacco 12», questa volta alle prese con una femme fatale dal profumo conturbante, due fratelli coltelli, una simpatica vecchia canaglia e il cadavere di un agente immobiliare che giace tra le mura di palazzo Sinagra. Chi ha ucciso Antonello Ribba? Difficile essere sicuri di qualcosa, in un luogo popolato di antichi fantasmi come i Sassi di Matera.

Marcello Fois

Marcello Fois torna in Sardegna, la terra da cui ci si allontana senza mai andarsene, per raccontare «una storia sull’amicizia, sulla fede e sulla fiducia». Pietro e Paolo sono «nati diversamente», anche se nello stesso anno, il 1899, e nello stesso paese, Lollove, in Barbagia.
Paolo è figlio di don Pasqualino, ricco possidente, Pietro di un pastore alle sue dipendenze. Uno sa leggere e scrivere, l'altro conosce il linguaggio della natura; Pietro è forte, è il «verbo ausiliare» dell'amico, sempre pronto a sorreggere, consolare, a essere la guida nelle avventure infantili.

La guerra li porta lontano, nel continente, entrambi vengono imprigionati in abiti estranei e imperfetti, ascoltano dialetti mai sentiti, scorgono orizzonti sconosciuti. L'amicizia e le promesse vengono messe alla prova: «Non lasciarmi» dice Paolo, e lo scudiero, il figlio del servo, si fa carico dell'amico più fragile e sprovveduto. Riuscirà a mantenere la promessa e il patto fatto con don Pasqualino, l'impegno di riportarlo a casa?

Marcello Fois, raccontando con il nuovo romanzo due “ragazzi del ’99”, trova il tono, il respiro del classico. Paolo Di Paolo, «La Stampa»

Quello di Fois è «un romanzo commovente e feroce dedicato all’amicizia (sempre tradita: e sempre tradisce chi ritiene, erroneamente, di essere tradito) e alla fine dell’adolescenza, sullo sfondo sanguinante della Grande Guerra» (Filippo La Porta, «Robinson – la Repubblica»).

Nuoro, con le sue leggi di fedeltà e vendetta, è sullo sfondo e l’autore, con una lingua sempre potente e ricca di suggestioni, riesce a far rivivere ancora quel mondo trasportando il lettore verso un finale inaspettato. Pietro e Paolo «è un libro bello e misterioso, fatto come al carboncino. Colpisce la concentrazione: la capacità di raddensare, far convergere tutto in un punto. Fois, abilissimo narratore di stirpi, qui concentra, appunto, in centocinquanta pagine parecchi livelli di vita. Quelli più concreti, e quelli che restano intangibili» (Paolo Di Paolo, «La Stampa»).

Il legame dei due ragazzi, consumato da una promessa, è tenuto in vita da una preghiera e il romanzo ha un respiro «epico-storico straordinariamente concentrato, che somiglia più a un racconto lungo e che riecheggia antiche narrazioni mitiche (il ritorno di Ulisse nell’Odissea). La lingua scandisce la vicenda attraverso quadri o visioni successive, quasi poema narrativo, con un tono a volte fiabesco: di primo mattino “il sole e la luna confabulano…”» (Filippo La Porta, «Robinson – la Repubblica»).

 

Salvatore Mannuzzu

Caro Toti te ne sei andato. E devo confessare che quando mi hanno detto che era successo, che ti eri finalmente messo in viaggio per raggiungere le tue care donne, non sapevo se essere sollevato o triste. Per te l’esistenza è stata prodiga ma anche, testardamente, vendicativa. Come se rivolesse indietro quei doni tanto straordinari che ti erano stati dati. Tu sei, e resterai, uno dei più grandi fra tutti coloro che spesso con protervia, se non con superficialità, si definiscono scrittori. E molti di noi hanno accumulato nei tuoi confronti più crediti di quanto pensino.  Perché tu, in tempi non sospetti, hai attraversato, esercitato e agito, molte delle strade stilistiche, narrative, editoriali, che vengono attribuite ad altri. Quando hai scritto Procedura hai anticipato di anni quella tendenza tanto cara alle nuove generazioni di mescolare la grande scrittura alla narrazione di genere. Sei stato il nostro Gadda e il nostro Simenon. Ora che sei morto finalmente potranno collocarti nel posto che ti spetta che è quello dei padri e non dei figli, anche se alcuni dei figli sono morti prima. Abbiamo una tale passione per il culto dei morti che finalmente verrai inserito nella giusta casella e considerato per quanto di profondo hai elaborato. A qualcuno verrà persino il desiderio perverso di leggerti. Tu sei uno scrittore immenso, un pensatore immenso, un politico immenso, un giurista immenso. Tutte cose che ti ho sempre detto nonostante le tue proteste. Oggi che sei, fisicamente, morto queste cose le ripeto a tutti perché conoscano l’entità del patrimonio che tu rappresenti. Stasera rileggerò le tue cose: La figlia perduta, Un morso di formica, Le ceneri del Montiferro, e parlerò di te. Tu meriti quell’attenzione da cui ti sei sempre sottratto non con timidezza, ma, come ti piace ripetere, con accidia. Che è un sentimento narrativo e poetico allo stesso tempo. Questi due sistemi in te non erano tanto distanti, le tue riflessioni, le tue narrazioni, le tue pagine sono sempre intrise di questa affascinate ambiguità, come se non sapessero decidere se essere versi o prosa, aforismi o digressioni, poemetti, racconti, romanzi o saggi. Sono tutt’uno, sono tutto insieme. I tuoi personaggi sono te, ma ti contrastano perché sulla pagina quella tua accidia si addolcisce e prospetta soluzioni e mostra vie d’uscita. Tu conosci la strada del ritorno, proprio quel preciso territorio in cui si dice che passato e futuro non si trovino esattamente alle spalle e di fronte ad ognuno di noi, ma viceversa: il passato ci sta davanti e il futuro dietro, perché come tu hai sempre detto sappiamo molto bene cosa siamo stati ma non sappiamo affatto cosa saremo. Qualunque cosa tu abbia scritto racconta di questa ritorsione di senso, di questa ansa nello scorrere del tempo. La tua scrittura è la più fulgida, la più necessaria, la più adatta che si possa immaginare, a tal punto che a leggere ogni tua frase è impossibile considerare un’alternativa. Si ha l’impressione che ogni parola sia stata vagliata oltre ogni sopportazione. Tu hai quell’ostinazione del liutaio, hai l’orecchio perfetto, il senso della frase e del silenzio. Non hai scritto solo parole, ma anche assenza di parole. Tu sai descrivere ogni possibilità, ma soprattutto ogni impossibilità. Entri nella sostanza del dolore senza pretendere di dargli un senso, a tal punto che quel dolore non appare mai gratuito, ma necessario. Tu guardi gli uomini come paesaggi: pianeggianti o montuosi e li fai agire nel tuo mondo di principii. In contrasto col becero para realismo, nuovismo, dei nostri tempi grami. E sai che la verità è una chimera talmente presuntuosa da riuscire a rovinare i piani di qualunque scrittore o intellettuale che non sia abbastanza attrezzato. Tu hai letto, e leggi, con voracità e anche con la curiosità che solo il lettore genetico ha. Sei un lettore che conosce il potere della lettura e se ne lascia rapire nonostante tu abbia la capacità, e lo scetticismo, di svelare tutti i suoi inganni. Ti ho ascoltato ogni volta che mi hai messo in guardia dal tendere alla soluzione facile, a tratti, in questo senso, temo di averti deluso. Ma sempre si torna io e te nel sentiero della stima, in quel preciso sentire che riunisce gli spiriti affini per tensione seppure diversi per formazione e per generazione. C’è l’affetto Toti. Quello non passa. Buon viaggio, riposa.

Marcello Fois

Adieu (1963-2005) - di Salvatore Mannuzzu

Non c’è nulla da dire
Se il cielo sta per finire
Se il mare si cancella
E ogni altra cosa bella
Adieu, mes amours…
Addio miei amori
Perduti splendori
Tramontati destini
Non ci sono più mattini
Non ci sono più sere
Addio estati autunni primavere
È passata la festa
Si smonta ogni storia
Tutto ciò che resta
È una vuota memoria
Uno spento sentire
Non c’è nulla da dire

Nota: Adieu, mes amours è una chanson per quattro viole di Josquin
Desprez (1440-1521?)
Nora Krug

Heimat di Nora Krug è la storia di una giovane donna alla ricerca delle proprie radici che affondano nel periodo e nel luogo più complessi del Novecento: la Germania hitleriana. L’autrice setaccia archivi, colleziona foto, scova cimeli, rievoca memorie per ricostruire le vicende della sua famiglia e comprendere che ruolo essa abbia avuto durante il Nazismo.

L’accoglienza internazionale per il lavoro della Krug è stata strepitosa: è stato eletto come miglior graphic novel 2018 dal Guardian, da Comics Beat e dal New York Times; ha vinto inoltre il National Book Critics Circle Award nella categoria Autobiografie e il premio come illustratrice dell'anno per il Moira Gemmill Prize del Victoria and Albert Museum.

Prima ancora che uscisse in Italia, l’autrice è stata intervistata da Tonia Mastrobuoni per «il venerdì – la Repubblica». Per la giornalista «pochi hanno avuto il coraggio di Nora Krug, di andare a scavare nella propria storia famigliare, di mettere alla prova le leggende che si tramandavano sugli anni più bui, di indagare la vita quotidiana dei suoi nonni e dei suoi zii, e dei villaggi in cui erano cresciuti negli anni del contagio bruno. Il suo Heimat è una straordinaria graphic novel che intreccia la sua personalissima ricostruzione della “colpa” più tedesca di tutte e le sue piccole e commoventi nostalgie della Germania.

Dal profilo Twitter de «il venerdì - la Repubblica»

Il racconto dell’autrice tedesco-americana è poetico, commovente, interroga su un senso di colpa collettivo che non accenna a disperdersi. E rivela le zone d’ombra di una generazione che non ha voluto più parlare del nazismo, quella dei suoi nonni: «Esatto. A cominciare dal fatto che ho sempre creduto a quello che mi era stato raccontato. Che mio nonno non aveva mai tenuto un’arma in mano, che era solo un insegnante di scuola guida. Così pensavo di sapere tutto. E invece ho cominciato a fare ricerche su quelle storie. E il mio libro racconta quel percorso anche perché trovo che sia importante raccontare cosa succede nelle famiglie quando qualcuno comincia a scoprire la verità…»

È un libro imprescindibile, che riempie un vuoto nella memoria collettiva e squarcia il velo della retorica tedesca sull’esauriente ed esemplare ricostruzione del nazismo. Tonia Mastrobuoni, «il venerdì – la Repubblica»

Ma cosa vuol dire «Heimat», termine che in italiano può significare sia patria sia casa? «Per me la questione della Heimat è indissolubilmente legata a quella della Schuld, della colpa. Si intersecano e si inseguono per tutto il libro. D’un lato c’è la domanda da dove vengo, e cosa ha fatto la mia famiglia durante la guerra. Dall’altro cosa vuol dire essere tedesca per me […] Heimat è un tentativo di capire meglio, piuttosto che quello di trovare risposte» (Nora Krug intervistata da Tonia Mastrobuoni, «il venerdì – la Repubblica»).

Al via nella suggestiva cornice della città di Mantova, la XXIII edizione del Festivaletteratura: cinque giorni di incontri, laboratori, concerti e spettacoli con narratori e poeti di fama internazionale, saggisti, artisti e scienziati provenienti da tutto il mondo. Qui il programma completo.

Il calendario degli appuntamenti con gli autori Einaudi:

Mercoledì 4 settembre

Ore 18.30, Palazzo Te - € 6,00
Umanesimo inquieto
Massimo Cacciari

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Giovedì 5 settembre

Ore 10.00, Piazza Castello - € 7,00
I personaggi della buona novella
Corrado Augias e Giovanni Filoramo

Ore 12.00, Tenda Sordello - ingresso libero
Un libro molto serio
Marco Presta

Ore 14.30, Palazzo San Sebastiano - € 6,00
Sulle onde del mistero
Marcello Simoni con Luigi Caracciolo

Ore 14.45, Seminario Vescovile - € 6,00
Fede
Marcello Fois e Alessandro Zaccuri con Simonetta Bitasi

Ore 15.00, Basilica Palatina di Santa Barbara - € 6,00
La pagina bianca a volte è il mio nemico
Jonas Hassen Khemiri con Lorenzo Pavolini

Ore 17.15, Conservatorio di musica Campiani - € 6,00
Sono quello che sono, sono sempre la stessa
Patrizia Valduga con Silvia Righi

Ore 18.30, Palazzo Te - € 6,00
Non so saziarmi di libri
Lina Bolzoni con Nicola Gardini

Ore 19.15, Seminario Vescovile - € 6,00
La difficile arte della commedia
Stefania Bertola e Piersandro Pallavicini con Elsa Riccadonna

Ore 21.30, Aula Magna dell'Università - € 6,00
Una storia intima del Nazismo
Nora Krug con Francesco M. Cataluccio

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Venerdì 6 settembre

Ore 10.00, Spazio Studio Sant'Orsola - € 10,00
L'altro mondo
Chiara Lagani

Ore 12.15, Basilica Palatina di Santa Barbara - € 6,00
Tra le gole dell'Armenia
Narine Abgarjan con Donatella Di Pietrantonio

Ore 14.45, Piazza Castello - € 7,00
12 dicembre 1969
Benedetta Tobagi con Carlo Lucarelli

Ore 15.00, Palazzo Panzera - € 8,00
Se questo è Levi - 1. Se questo è un uomo
Fanny & Alexander

Ore 15.30, Palazzo San Sebastiano - € 6,00
Trafficanti di esseri umani
Francesca Mannocchi e Lorenzo Tondo con Christian Elia

Ore 17.00, Piazza Castello - € 7,00
L'amore è sempre amore per l'altro
Massimo Recalcati

Ore 17.15, Liceo Virgilio - € 8,00
Se questo è Levi - 2. Il sistema periodico
Fanny & Alexander

Ore 18.30, Sala del Consiglio Comunale - € 8,00
Se questo è Levi - 3. I sommersi e i salvati
Fanny & Alexander

Ore 19.00, Conservatorio di musica Campiani - € 6,00
Abiti
Jane Sautière con Elvira Seminara

***

Sabato 7 settembre

Ore 10.00, Basilica Palatina di Santa Barbara - € 6,00
Identità e memoria
Michela Marzano

Ore 15.00, Palazzo Panzera - € 8,00
Se questo è Levi - 1. Se questo è un uomo
Fanny & Alexander

Ore 16.45, Piazza Castello - € 7,00
Ascoltare l'anima e non il cervello
Abraham B. Yehoshua con Wlodek Goldkorn

Ore 17.00, Conservatorio di musica Campiani - € 6,00
Il silenzio e la luna
Chandra Livia Candiani con Elisabetta Bucciarelli

Ore 17.15, Piazza Castello - € 6,00
Il libro è un palcoscenico
Chiara Lagani con Magdalena Barile

Ore 17.15, Liceo Virgilio - € 8,00
Se questo è Levi - 2. Il sistema periodico
Fanny & Alexander

Ore 18.30, Sala del Consiglio Comunale - € 8,00
Se questo è Levi - 3. I sommersi e i salvati
Fanny & Alexander

Ore 19.00, Teatro Bibiena - € 6,00
Contro il virus della noia
Annalena McAfee con Gaia Manzini

Ore 21.00, Basilica Palatina di Santa Barbara - € 6,00
Come diventiamo lettori
Maryanne Wolf e Alberto Manguel con Alessandro Zaccuri

Ore 21.00, Tenda Sordello - ingresso libero
Climate Fiction: la distopia dietro l'angolo
Amy Brady e Fabio Deotto con la redazione di la Balena Bianca

Ore 21.30, Conservatorio di musica Campiani - € 6,00
Una lingua per ogni emozione
Paolo Colagrande e Adrián N. Bravi con Giuseppe Antonelli

Ore 22.00, Teatro Bibiena - € 6,00
Ci sarebbe poco da ridere
Francesco Abate e Francesco De Carlo

***

Domenica 8 settembre

Ore 10.00, Conservatorio di musica Campiani - € 6,00
La poesia insegna il necessario
Antonio Prete con Massimo Raffaeli

Ore 10.00, Teatro Bibiena - € 6,00
Tutte le guerre del mondo
Alessandro Sanna e Melania G. Mazzucco con Simonetta Bitasi

Ore 11.00, Tenda Sordello - ingresso libero
Roma come metafora
Domenico De Masi

Ore 11.30, Piazza Castello - € 7,00
Le parole per dirlo
Gianrico Carofiglio, Massimo Gramellini e Arianna Porcelli Safonov con Neri Marcorè

Ore 12.15, Palazzo San Sebastiano - € 6,00
Affermare l'umanità
Frédéric Gros e Donatella di Cesare con Elettra Stimilli

Ore 15.00, Conservatorio di musica Campiani - € 6,00
In viaggio
Erica Barbiani con Roberto Abbiati 

Ore 18.30, Piazza Castello - € 7,00
Il bisogno primario del romanzo
Ian McEwan con Marcello Fois

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Per informazioni:

Il sito di Festivaletteratura e il calendario completo degli appuntamenti.
Festivaletteratura su twitter (hashtag #FestLet).
Festivaletteratura su facebook.

Ian McEwan

Londra, 1982. La guerra delle Falkland si è conclusa con la sconfitta dell’Inghilterra, i quattro Beatles hanno ripreso a calcare le scene, Alan Turing è vivo. In Macchine come me, titolo ispirato da un libro di Isaac Asimov, Ian McEwan presenta un passato alternativo, un’ucronia in cui il trentaduenne protagonista, Charlie Friend, può usare l’eredità che gli ha lasciato la madre per comprarsi un robot: Adam. Bellissima e potente, dotata di un nome e di un corpo, la macchina ha intelligenza, sentimenti e una coscienza propria.

L’autore, nella lunga intervista rilasciata a Enrico Franceschini per «Robinson – la Repubblica» ha dichiarato di aver immaginato «tutto questo per dimostrare come il presente che stiamo vivendo non sia l’unico possibile. E che le grandi svolte spesso sono conseguenza di piccole coincidenze, non di una logica ineluttabile. Basta cambiare un tassello e la storia avrebbe preso un altro corso» (Ian McEwan intervistato da Enrico Franceschini, «Robinson – la Repubblica»).

Il nuovo e costoso giocattolo viene consegnato a Charlie insieme ad un voluminoso manuale di istruzioni e il ragazzo apprende con stupore che dovrà impostarne anche i parametri caratteriali, compito che decide di condividere con la sua vicina di casa, Miranda, di cui si scoprirà innamorato.

Il robot apprende velocemente e le sue capacità cognitive diventano subito profonde e complesse. A tratti è inquietante, ma esercita un fascino tale che Charlie si convince che gli sarà di grosso aiuto con la sfuggente Miranda. Per certi versi non ha torto. Il primo non-uomo ha accesso a tutto quello che si può sapere, dalla soluzione del problema matematico P e NP, all’influenza di Montaigne su Shakespeare, fino al modo di vincere le resistenze di Miranda e penetrarne il segreto. Un segreto complicato e doloroso che, quando emerge, pone ciascuno di fronte a un dilemma etico lacerante.

Ma Adam, sorprendentemente, prova anche delle emozioni e dichiara a Charlie di essere anche lui innamorato di Miranda. I due, la donna e la macchina, andranno anche a letto insieme. Ma quelle che prova Adam, sono emozioni “reali”? Ha una coscienza? E la sua stessa esistenza pone un’altra, eterna, domanda: in cosa consiste la natura umana?

«Naturalmente, e al tempo stesso imprevedibilmente grazie alla smagliante intelligenza narrativa di McEwan, Adam diventerà l’arbitro dell’insolito triangolo familiare, guidato dalla inconfutabile logica che governa i suoi algoritmi cerebrali e tiene a bada gli altrimenti impetuosi moti del suo cuore: “Non posso cambiare i mie sentimenti – dice a Charlie – Quelli me li devi consentire”» (Francesca Borrelli, «il manifesto»).

Era arrivato il momento di scrivere un romanzo su come ci sentiremmo nel vivere a contatto con una mente non umana. Ian McEwan intervistato da Francesca Borrelli, «il manifesto»

La legge più inviolabile dell’androide recita: «Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno». E per un’intelligenza artificiale tanto sofisticata da anteporre la coscienza alla scienza, il concetto di danno può essere più profondo e micidiale di quel che appare.

«A tenere insieme Macchine come me è la delicata storia d’amore, un ménage à trois raccontato in modo così leggero e conturbante da ricordare il capolavoro di Truffaut, dove Charlie è Jules, e Jim si carica con un cavo» (Lara Ricci, «Il Sole 24 Ore»).


All'interno dell'intervista rilasciata a Robinson si può trovare la colonna sonora che Ian McEwan in persona ha scelto per accompagnare la lettura di Macchine come meQui, per ascoltarla su Spotify.