Giulio Einaudi editore
Maria Pace Ottieri

Insolito e molto bello questo libro di Maria Pace Ottieri. Narrazione tra passato e presente, cronaca viva, poesia, storia, antropologia, reperto archeologico, inchiesta, memoria Corrado Stajano, «Corriere della Sera»

 

Maria Pace Ottieri ha vissuto da bambina nell'area flegrea, quel paesaggio ha lasciato un segno, pur nella lontananza. Il Vesuvio torna nei suoi pensieri, richiamando sentimenti ambivalenti, «come una scheggia d'infanzia» nascosta nel profondo che riemerge e la chiama a sé.

Inizia un viaggio, si immerge in un’inchiesta in cui il protagonista è Lui, il Vesuvio. La scrittrice sta nell'ombra, raccoglie voci, viviseziona il mondo di uomini e donne che lo popolano. «Curiosità, cocciutaggine indagatrice, ironia, confronti continui tra il vicino e il lontano, sensibilità sociale: ecco gli elementi di questa scrittrice a pieno titolo, spesso travestita da reporter che si ripresenta ai lettori con Il Vesuvio universale. Si tratta di un libro libero e sorprendente, l’avventura conoscitiva di una “camminatrice di ritorno”. Potremmo definirlo un libro-armadietto – il vulcano armadietto è una delle immagini suscitate dal vulcano – dove ad ogni cassetto corrisponde una storia e dove con pudore e nettezza la voce propria si accosta a quella altrui e dove l’arte della descrizione affabulante e sussultoria spesso eccelle e affascina, celandosi a tratti in veri e propri “scatti verbali” simili ad emblemi» (Silvio Parrella, «Il Mattino»).

L’autrice «attraversa i generi della narrazione e del reportage per regalarci un racconto a più voci […] Con occhio estraneo agli scenari, Ottieri si cala in una realtà difficile come un’etnografa» (Fuani Marino, «Corriere del Mezzogiorno»). Il vulcano, con il suo aspetto di «montagna benevola e generosa» sembra far dimenticare la sua violenza e capacità distruttiva; sotto vivono oltre due milioni di abitanti abituati a quella promiscuità, grati ad una terra fecondata dalla sua linfa. Sono irresponsabili? Immemori? Fatalisti o fiduciosi in San Gennaro?

Maria Pace Ottieri indaga, ascolta, raccoglie le paure e l'orgoglio, la rassegnata abitudine a vivere nel pericolo; «non risparmia passione e fatica. Non lascia nulla all’immaginazione, il suo libro è anche una lezione a quei giornalisti, non pochi, che fondano le loro inchieste su quel che gli dice il tassista del posto dove approdano, oltre alle notizie trovate in internet. ’N coppa ’o Vesuvio la scrittrice riempie la sua bisaccia di fatti veri piccoli e grandi» (Corrado Stajano, «Corriere della Sera», link). Vede anche altre devastazioni: quella provocata dall'abusivismo e dalla lontananza dello Stato, dall'abitudine alla trasgressione e dalla potenza della Camorra, ancora più presente dal terremoto del 1980.

«Tra Ottaviano, San Giuseppe Vesuviano, Boscotrecase, Bosco Reale, Torre del Greco, Portici, Torre Annunziata, Anastasia, Pompei, Maria Pace Ottieri ha vivisezionato un mondo. Chissà se da tutti quegli inferni che ha visto è riuscita, alla fine del suo libro, a riveder le stelle» (Corrado Stajano, «Corriere della Sera», link).

Roberta Dapunt

Roberta Dapunt, con Sincope, uscito a marzo 2018, è la vincitrice del Premio Letterario Internazionale Viareggio Rèpaci 2018, sezione Poesia. Per la giuria «in questo libro il pensiero si svolge dentro un mondo distante, separato, fatto solo di silenzio e di solitudini tali da cancellare persino le normali possibilità di comunicazione fra gli individui, anche un semplice scambio di parole».

Rispetto ai precedenti lavori, nella nuova raccolta la spinta verso l'inquietudine è decisamente più forte. È la stessa autrice a sostenere che «Sincope racconta un tempo debole, racconta il corpo debole, è uno spostamento di accenti sulla fragilità dell’essere umano. Partendo da me, dunque dalla mia fragilità, del mio corpo, del mio pensiero» (Roberta Dapunt a «Fahrenheit», Radio Tre).

Il tono compassato lascia dunque il posto a un'agitazione interiore, i segni senza tempo della natura non danno più stabilità: «Sincope come ritmo che saltella e ti leva il fiato e ti fa abitante e abitatore e mescola gli istinti con gli estinti» (Silvio Parrella, «Il Mattino»).

Le poesie che compongono questa raccolta «scavano nell’anima come uncini […] In questo libro dove i titoli tracciano già una poetica, si stremisce di affollati particolari. In un continuo andare e venire tra il pagano e il sacro. Il verbo si fa carne, la carne si fa verbo» («Avvenire»):

In questa carne ho radicato gli anni, li ho educati.
In questo corpo la materia dei miei pensieri
e le parole e le domande.
Su questa pelle l’ambiente delle loro risposte,
fino a contrarla, le vocali e le consonanti.
Ho consegnato ad ogni osso della mia struttura una lettera
e da lí le parole, una ad una le ho nutrite e ho appreso,
mentre crescevo la carne si faceva verbo.
Composte membra, ordinate si sono gonfiate,
dilatate le loro cavità e da lí io ho ascoltato,
ed era voce del mio corpo. Che mi chiamava
e io sorda alle sue espressioni, finché
ho appoggiato le labbra alla loro imboccatura,
organica relazione, ho forgiato la lingua
ed essa ha compreso il gusto
e cosí finalmente io le ho parlato.

(Sincope, della carne e della lingua, p. 3)