Giulio Einaudi editore
Agus Morales

Agus Morales segue le orme degli esiliati della terra e dà voce a coloro che sono stati obbligati a fuggire.

«Oggi anche Einstein rischierebbe la vita in un barcone».
Agus Morales, «la Repubblica»

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Morales, con questo faticoso e importante lavoro di giornalista/narratore, sfida tutti coloro che vogliono soltanto informazioni, che non vogliono sapere, non vogliono essere provocati dalla verità perché hanno paura di sentir franare sotto di sé il terreno delle certezze.

Scrive un libro sui rifugiati, ascolta e racconta le loro storie, fa conoscere i muri, che molti vorrebbero altissimi, che separano noi da loro. Sono migliaia, milioni di persone in movimento, sedentari, non nomadi, che hanno perso la loro casa, i mezzi di sussistenza; esseri vulnerabili che fuggono dalle guerre, che non hanno il tempo di rielaborare lutti e perdite, che varcano confini. La loro sofferenza arriva fino a noi, le loro storie, raccontate con umiltà e pudore, sembrano non finire mai. Per Morales, intervistato da Stefania Parmeggiani, «una cronica deve emanare odore, tatto, gusto; deve avere una precisione linguistica, essere consapevole di se stessa e delle parole che pronuncia. La formula che ho trovato per trasportare il lettore su una nave di salvataggio non era la descrizione impersonale, ma la scrittura di frasi successive che erano come onde, che oscillavano, che cercavano di riprodurre la sensazione che avevo a bordo» («la Repubblica»).

Sono persone, quelle che arrivano e quelle che rimangono intrappolate, in Siria,nel Sud Sudan, in Afghanistan; la loro presenza nell'Occidente testimonia una sofferenza che non è più asettica e lontana ma provoca il nostro sguardo. «Durante la Guerra Fredda la parola rifugiato aveva un’aura di prestigio, riguardava anche scrittori, artisti, scienziati, uomini e donne illustri. Oggi la guerra è stata decentrata e la maggior parte dei rifugiati lascia i paesi poveri e viene accolta dai paesi poveri. Non interessano più così tanto. Oggi Einstein rischierebbe la vita in un barcone» (Agus Morales, «la Repubblica»).

Le storie che vengono raccontate,quelle di chi è arrivato e di chi non arriverà mai, devono essere ascoltate; il destino di Ulet, di undici anni, morto dopo il salvataggio, «quando stava per vincere», sembra riassumere tutti gli esodi del mondo.

Morales ha viaggiato lungo le rotte degli esodi, è entrato nei campi dei rifugiati e negli ospedali che li soccorrono, e lascia al lettore una testimonianza dura e preziosa sulla storia del nostro tempo, con la consapevolezza che «c’è sempre qualcuno più in basso di te, anche tra i rifugiati».

Cristina Cassar Scalia

«La vicequestora Giovanna Guarrasi,  detta Vanina, ha l’acume, la tenacia e la fantasia di una grande poliziotta».
Giancarlo De Cataldo

«Una storia secca, ritmica, scandita, che ti avvolge e ti stritola pagina dopo pagina, sospesa sul ponte instabile tra un passato che non vuole saperne di farsi seppellire e un presente mai del tutto comprensibile».
Maurizio de Giovanni

«La chiameranno l’antimontalbano, ma non è vero. Cristina Cassar Scalia è lei e basta, e Sabbia nera è un gran bel romanzo».
Carlo Lucarelli, «La Lettura - Corriere della Sera»

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Cristina Cassar Scalia dà vita ad una nuova serie di serie di gialli, ambientati in Sicilia e con protagonista una donna testarda, scontrosa, tormentata dalla morte del padre e dalla fine di una relazione difficile: il vicequestore aggiunto Giovanna Guarrasi. È donna capace, con un curriculum di tutto rispetto, di metodi spicci e dolorosamente legata ad un passato che non riesce a rielaborare: «Non ha bisogno di fare la dura perché lo è, una dura, e non ricorre a metodi autoritari perché è un personaggio autorevole [...] Ciò non toglie che anche lei, come molte donne oggi, sia in crisi» (Cristina Cassar Scalia intervistata da Giancarlo De Cataldo, «D- la Repubblica»).

La lettura di Sabbia nera ha conquistato tre grandi maestri del crime italiano:

«La vicequestora Giovanna Guarrasi, detta Vanina, ha l’acume, la tenacia e la fantasia di una grande poliziotta».
Giancarlo De Cataldo

«Una storia secca, ritmica, scandita, che ti avvolge e ti stritola pagina dopo pagina, sospesa sul ponte instabile tra un passato che non vuole saperne di farsi seppellire e un presente mai del tutto comprensibile».
Maurizio de Giovanni

«Una storia che inizi a leggere e non molli più, perché è lei che non ti molla, obbligato a percorrerla tutta, senza pause, non col fiato sospeso del thriller, che è quello dei centro metri piani, ma con il respiro intenso, serrato e appassionato del maratoneta, che è quello, appunto, del giallo classico».
Carlo Lucarelli, «La Lettura - Corriere della Sera»

Dopo una giornata ricca di ricordi malinconici, nella sua casa sotto «La Muntagna» appena risvegliata e che ha iniziato a ricoprire la terra di sabbia vulcanica, Giovanna riceve una telefonata dell'ispettore Bonazzoli: in una villa a Sciara è stato trovato un cadavere.

La villa, signorile, è fatiscente e saltuariamente abitata da Alfio Burrano, unico erede del patrimonio di famiglia. È stato lui, per caso, a scoprire il corpo mummificato di una donna, in uno spazio segreto. Giovanna Guarrasi, detta Vanina - o Vannina «per una discreta quantità di corregionali» - si trova davanti una scena da romanzo gotico: il cadavere ha sul capo i resti di un foulard di seta, un cappotto di pelliccia e alcune collane.

Un primo sguardo all'abbigliamento e agli oggetti sparsi intorno al corpo fanno pensare ad un delitto che si perde nell'abisso del passato, «poi, però succedono tante cose, colpi di scena, improvvise inversioni di marcia, anche indietro nel tempo, scoperte inattese che cambiano tutta la prospettiva, nuovi punti di vista e tanta, tantissima tensione» (Carlo Lucarelli, «La Lettura - Corriere della Sera»).

In Sabbia nera, sempre secondo Lucarelli, «l’ultimo pilastro è l’ambientazione. La Sicilia, con tutte le sue bellezze e le sue contraddizioni, è una cornice perfetta, che permette di sporcare il folklore con il dramma giocando su qualcosa che tutti credono di conoscere ma che sempre sorprende. Qui, infatti, inizia con la sabbia nera dell’Etna, che copre, corrode e maschera tutto».

Paolo Genovese

Un uomo, due donne e un ragazzino convinti di aver toccato il fondo incontrano un personaggio misterioso che gli regala sette giorni per scoprire come sarebbe il mondo senza di loro. E, se possibile, per innamorarsi ancora della vita

Il primo giorno della mia vita è il nuovo romanzo di Paolo Genovese, scrittore e fra i più noti registi italiani, vincitore del David di Donatello con Perfetti sconosciuti, film nuovamente sulle prime pagine di tutti i giornali per lo straordinario successo che sta avendo anche in CinaL'autore «ora riversa il suo humour nero in un libro a tratti esilarante ed esaltante, a volte traboccante di toni bui» (Mirella Serri, «La Stampa»).

Napoleon ha 49 anni, sta invecchiando in modo «morbido» ma ha perso il sorriso; è un grande affabulatore, uomo di teatro che vuole offrire al suo pubblico la possibilità di essere felice. Ora però è sul Manhattan Bridge e sta per buttarsi di sotto, ma un uomo misterioso è lì a rovinargli il «momento più importante della sua vita». Lo invita a fermarsi dandogli la possibilità di vedere come sarà la sua vita dopo e senza di lui. Gli mostrerà cosa accadrà quando non ci sarà più, cosa lascia, cosa perde, quale sarà la reazione di amici e parenti. Con lui, in questo viaggio di sette giorni ci saranno anche due donne sfiancate dalla vita, Emily e Aretha, e un ragazzino, Daniel. Tutti erano pronti a farla finita.

«È un angelo che si scoraggia o entusiasma, ma non ha tutte le risposte, fa casino: come i quattro suicidi. Un traghettatore che non ha chiaro il suo stesso percorso. Tutto molto umano, come vede […] qui un uomo deve fare innamorare della vita persone disperate, totalmente. Lo fa con l'arma della curiosità: cosa succede dopo? Cosa ti perdi se molli? Nessun dogma» (Paolo Genovese, intervistato da Alvaro Moretti, «Il Messaggero»).

Emily è stata azzannata dal destino, ridotta a sanguinare su una sedia a rotelle, lei che volteggiava acclamata sulla trave. Aretha è una poliziotta travolta da un passato doloroso. La comitiva è strampalata, la situazione fuori da ogni logica ma i tre aspiranti suicidi accettano di vivere altri sette giorni per vedere quel futuro che vogliono rifiutare. Daniel è un piccolo divo della pubblicità, un po' grassoccio e bullizzato a scuola. Sullo sfondo New York e le sue contraddizioni, «la città più irreale, dove tutto può accadere, anche l'imprevedibile o il surreale» (Paolo Genovese intervistato da Mirella Serri, «La Stampa»).

Ogni personaggio di questa storia ha l'anima lacerata da demoni, lati oscuri che hanno ridotto l'esistenza a un cumulo di macerie. Ha senso dire addio alla vita? Si può resuscitare dalla cenere ? «Anche questi personaggi, come i protagonisti dei miei ultimi film, hanno toccato il fondo del dolore. Eppure si rialzano. Per loro c'è un futuro: l'ultimo giorno può anche essere il primo, quello della rinascita e dalla riscoperta di sé» (Paolo Genovese intervistato da Mirella Serri, «La Stampa»).