Mese: maggio 2018
Philip Roth ha vinto il Premio Pulitzer nel 1997 per Pastorale americana. Nel 1998 ha ricevuto la National Medal of Arts alla Casa Bianca, e nel 2002 il piú alto riconoscimento dell'American Academy of Arts and Letters, la Gold Medal per la narrativa. Ha vinto due volte il National Book Award e il National Book Critics Circle Award, e tre volte il PEN/Faulkner Award. Nel 2005 Il complotto contro l'America ha ricevuto il premio della Society of American Historians per «il miglior romanzo storico di tematica americana nel periodo 2003-2004». Recentemente Roth ha ricevuto i due piú prestigiosi PEN Award: nel 2006 il PEN/Nabokov Award e nel 2007 il PEN/Saul Bellow Award for Achievement in American Fiction.
Roth è stato l'unico scrittore americano la cui opera sia stata pubblicata in forma completa e definitiva dalla Library of America mentre era in vita.
Nel 2011 ha ricevuto la National Humanities Medal alla Casa Bianca, ed è poi stato dichiarato vincitore della quarta edizione del Man Booker International Prize.
Tutte le opere di Philip Roth sono presenti nel catalogo Einaudi: Pastorale americana (1998), Operazione Shylock (1998), Il teatro di Sabbath (1999), Ho sposato un comunista (2000), Lamento di Portnoy (2000),La macchia umana (2001), L'animale morente (2002), Lo scrittore fantasma (2002), Chiacchiere di bottega (2004), Zuckerman scatenato (2004), Il complotto contro l'America (2005), Il seno (2005), L'inganno (2006), La lezione di anatomia (2006), L'orgia di Praga (2006), Everyman (2007), Patrimonio(2007), Il fantasma esce di scena (2008), Il professore di desiderio (2009), Indignazione (2009), L'umiliazione (2010), La controvita (2010), Nemesi (2011), «Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno» ovvero, guardando Kafka (2011), La mia vita di uomo (2011), Goodbye, Columbus (2012),Quando lei era buona (2012), I fatti (2013), La nostra gang (2014), Il Grande Romanzo Americano (2014) e Lasciar andare (2016).
Nei prossimi mesi uscirà nelle Frontiere Einaudi l'edizione definitiva dei suoi saggi con il titolo Perché scrivere? Saggi 1960-2013, nella traduzione di Norman Gobetti.
Una raccolta di interventi che dialogano incessantemente con l'opera narrativa di Roth e al tempo stesso ci rivelano le sue tante passioni e l'acutezza del suo sguardo sul presente.
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Da questo romanzo, il nuovo film di Abdellatif Kechiche, il regista dello straordinario La vita di Adèle - nelle sale italiane dal 24 maggio.
La ferita, quella vera è il nuovo romanzo di François Bégaudeau. È la storia dei tormenti di un adolescente in bilico sulla vertigine del desiderio ed ha ispirato Mektoub My Love: Canto uno, il nuovo film di Abdellatif Kechiche, il regista vincitore della Palma d'Oro a Cannes con lo splendido La vita di Adele. La trasposizione cinematografica, presentata allo scorso Festival di Venezia, e distribuita da Vision Distribution nelle sale italiane a partire dal 24 maggio, è stata definita «un inno alla libertà» da Repubblica e «un capolavoro» da Express.
In La ferita, quella vera François, stanco di eludere e di imbrogliare se stesso, decide di raccontare, di risalire alla sua ferita, di ritornare all'estate dell'86. È in vacanza nella casa famigliare, in un paesino della provincia francese; lui è il «nantese» che torna ogni anno, il villeggiante che, come tutti gli altri, arriva d'estate ad animare una vita altrimenti monotona.
François ha quindici anni, la voce si sta trasformando, ha qualche brufolo e uno strato di peluria sotto il naso; è comunista dall'83, dall'85 comunista con tendenza leninista. Ha l'urgente bisogno di perdere la verginità. Sente che il tempo passa ma che è complicato iniziare, ha baciato qualche ragazza ma deve passare di livello. Con lui c'è Joe, l'amico che non studia, fuma e abborda le villeggianti con fare sicuro, monopolizzando le migliori. François aspetta con la vertigine del desiderio, sa che nella vita ci sono le incognite e, infatti, arriva Julie, l'incontro che cambia la sua estate.
Bégaudeau ha saputo descrivere le «le gioie fragili e febbrili dei ragazzi, la litania della loro insofferenza e dei loro desideri, raccontati in modo assolutamente perfetto» («Le Monde»).
Bussola sa scrivere. Usa le parole con accortezza, con cura, come se fossero importanti. Tanto importanti quanto le esperienze che raccontano Michele Serra
Dopo il successo di Notti in bianco, baci a colazione, «una bomba atomica […] all'improvviso tutti mi conoscevano come scrittore e quasi più nessuno sapeva che disegnavo», Matteo Bussola, scrittore e fumettista, torna nelle librerie con un libro sull'amore di coppia. Vissuto, immaginato, sperato, fallito.
La vita fino a te è un libro intimo in cui Bussola sceglie di illuminare con le parole ciò che per lui ha senso, l'amore ma anche il dolore e la bellezza, la tenerezza e il rimpianto di ciò che si è perso. Racconta con efficacia emotiva tutti i sentimenti che spesso rimangono nascosti negli angoli ma che continuano ad attirarlo come un'esca: «Affronto un tema che mi sta a cuore: le relazioni con l'altro. Per me l'amore è una forma di sguardo sull'altro. Uno sguardo che ho imparato a caro prezzo perché ho un passato di tragedie sentimentali alle spalle, alcune dovute a me, altre no. A un certo punto ho capito che tutto il dolore che provavo, al punto di pensare di essere io il vero problema, non derivava mai dall'amore ma dalla necessità di avere una persona accanto, proprio nel modo in cui la volevo io. Il dolore nasce sempre da questo, dalla necessità di avere dall'amore qualcosa in cambio» (Matteo Bussola intervistato da Alessia Arcolaci, «Vanity Fair», link).
L'autore non ha paura di mettere a nudo le sue emozioni, di guardarsi allo specchio. Osserva e disegna biografie possibili, incontri e separazioni, strade percorse insieme o abbandonate perché il passo era diverso e alla fine non ci si riconosce più. «Questo è un libro sul quale, per la prima volta, ho fatto anche un lavoro di invenzione. Anche per tutelare alcune persone, perché tutti i racconti del libro partono da esperienze autentiche, ma mi sono accorto che non mi interessava mantenere la fedeltà al dato biografico. Mi interessava mantenere la verità delle cose che volevo raccontare» (Matteo Bussola a Rep.tv, link).
Scorrendo le pagine, dunque, si incontrano non solo l'autore ma tanti personaggi con le loro brevi e illuminanti storie: ogni incontro è una sfida a camminare per un momento insieme, a usare il ponte per raggiungere l'altro: «Tutte le cose migliori della mia vita sono arrivate mentre non le stavo cercando. Compresa la mia compagna attuale, Paola» (Matteo Bussola a Rep.tv, link), a cui La vita fino a te è dedicato.
«Accade subito, senza lasciare scampo: in quella prima scena in cui molto, in fondo, è già prefigurato. Tre ragazzi che si immergono nudi, di notte, in una piscina; lo sguardo di una ragazza che dall’alto li scopre, li studia in silenzio, ne accompagna la fuga. È qui, in quella trasgressione insieme innocua e premonitrice, che inizia l’innamoramento per il nuovo romanzo di Paolo Giordano, Divorare il cielo».
Davide Casati, «Corriere della Sera»
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A dieci anni di distanza da La solitudine dei numeri primi, Paolo Giordano torna a raccontare la giovinezza, poi l'azzardo di diventare adulti. Divorare il cielo è la storia di Teresa e del suo incontro con «quelli della masseria», Nicola, Tommaso e Bern, soprattutto Bern.
«Accade subito, senza lasciare scampo: in quella prima scena in cui molto, in fondo, è già prefigurato. Tre ragazzi che si immergono nudi, di notte, in una piscina; lo sguardo di una ragazza che dall'alto li scopre, li studia in silenzio, ne accompagna la fuga. È qui, in quella trasgressione insieme innocua e premonitrice, che inizia l'innamoramento per il nuovo romanzo di Paolo Giordano, Divorare il cielo» (Davide Casati, «Corriere della Sera», link).
I tre ragazzi, tre fratelli non di sangue, vivono in una masseria pugliese, centro gravitazionale del romanzo, aspettando di crescere; li guida Cesare, tra preghiere, lavoro della terra e riflessioni sulla vita. Sono giovani con esperienze famigliari difficili, alla ricerca di un padre, una guida autorevole, e quest'uomo sembra esserlo.
Teresa, giovanissima, va in vacanza con il padre pugliese proprio a Speziale, vicino a quella masseria che la attrae come un magnete; in quell'assolata campagna vive l'esperienza di un amore totale, di un'amicizia il cui ricordo l'accompagnerà per la vita. Si innamora di Bern, il più inquieto, un ragazzo che vuole disperatamente credere in qualcosa, affamato di esperienze, che vuole divorare la vita, il cielo; il suo corpo non sembra mai nutrito a sufficienza di esperienze, assetato di tutto ciò che la vita sembra volergli negare. «È una fame pericolosa: vuoi divorare il non divorabile. Dopo che ci hai provato sei ancora più affamato di prima. Bern, il protagonista di questa storia, è il grande divoratore. Gli altri intorno - Teresa, Tommaso, Nicola - si nutrono dei suoi slanci. Li scambiano per vitalità, e invece sono qualcosa di molto più complesso» (Paolo Giordano intervistato da Silvia Nucini, «Vanity Fair»).
Il rapporto, difficile e doloroso, fra i ragazzi si sviluppa nell'arco di vent'anni, è un cammino di formazione intessuto di sogni, delusioni, passione che rivivrà nei ricordi di Teresa, anche quando molti dei suoi amici non ci saranno più.
«Ho trovato l'operazione letteraria di Giordano molto coraggiosa. Da equilibrista, quasi: ha affrontato il tema del rifondare un mondo dentro una dinamica comunitaria e il tema ecologista senza mettere in ridicolo chi lo pratica oggi in modo quasi mistico: penso ai melariani, ai seguaci di Osho, ai davidiani. Giordano smonta l'illusione di essere veramente diversi. Da un lato dà l'impressione che l'unica strada per la libertà sia fuggire dalla responsabilità, dall'altro affida a questo gruppo di persone il compito di fondare una nuova forma di responsabilità: un nuovo rapporto con la natura, coi sessi, di fratellanza» (Roberto Saviano, «L'Espresso»).
Negli anni in cui Teresa perde, ritrova, ripercorre il suo rapporto con Bern e i suoi fratelli si sente il disperato bisogno di credere in qualcosa, cercando di non morirne o esserne sopraffatti. Un'utopia? «Non lo so, ma ne ho sempre avuto molta nostalgia. La nostalgia di una fede, di una forza superiore che muove le azioni e le orienta. Una specie di nostalgia di quello che manca, che ci manca. Il senso di perdita di qualcosa che non abbiamo avuto» (Paolo Giordano intervistato da Concita De Gregorio, «la Repubblica»).
In molti conoscono Fortunato Cerlino come Don Pietro Savastano, il boss della fortunatissima serie Gomorra. Con Se vuoi vivere felice, il suo romanzo d'esordio, è invece nato uno scrittore.
L'autore racconta la storia di un ragazzino, il cui nome è proprio Fortunato, cresciuto in mezzo alle strade di Pianura, quartiere della periferia di Napoli, nei primi anni '80. Gli inseguimenti sul Califfone, le sparatorie in pieno giorno, le condizioni economiche in cui naviga la sua famiglia, non riescono a spegnere la vitalità del protagonista che, grazie alla sua immaginazione e ai suoi sogni, non si arrende e va avanti. È «la storia bella e intensa di un bambino salvato dalla fantasia e dalla voglia testarda di sfuggire a un destino segnato, un racconto di formazione che ha gli accenti della verità e lo stile del narratore di razza» (Titta Fiore, «Il Mattino»).
Questo racconto ci lascia cicatrici, com’è giusto: e la consapevolezza di aver trovato uno scrittore vero nelle pieghe e nelle piaghe di un grande attore Maurizio de Giovanni, «La Lettura – Corriere della Sera»
Fortunato è costretto a vivere una vita «parallela»: la sua infanzia a Pianura è scandita dai morti per strada, da lunghi silenzi in famiglia, dal Canale 21, rete locale che imita i programmi della Rai; ma, al di fuori di questa difficile realtà, sogna di diventare un cantante neomelodico, un astronauta e, prendendo a calci un Supersantos, di vincere dieci scudetti e la Coppa dei Campioni con il Napoli.
Il nome del piccolo protagonista, l'ambientazione del romanzo e l'uso del dialetto napoletano sono elementi che indicano una forte relazione fra il bambino e l'autore anche se è proprio quest'ultimo a specificare che «non è un'autobiografia, però in questa storia tutti gli elementi sono autentici […] Il dialetto ha il sapore della verità, era necessario» (Intervistato da Titta Fiore, «Il Mattino»).
Se vuoi vivere felice «viaggia sicuro e limpido, sospeso tra un realismo diretto e sincero, nobilitato dall'uso di un dialetto autentico, e l'onirica sensazione soggettiva del Fortunato adulto, attore realizzato e prossimo padre felice, che osserva dolente il proprio passato. Che si riconosce come un'esplosione rivista all'incontrario, i frammenti e le schegge che tornano indietro uno e uno per ricomporre un quadro perduto ma mai dimenticato» (Maurizio de Giovanni «La Lettura - Corriere della Sera»).
Fortunato Cerlino ha scritto un romanzo unico, vivissimo, scintillante di intelligenza creativa; il bambino ricorda «l'Arturo di Aspetta primavera, Bandini di John Fante, che è come lui spettatore della durezza di un mondo in cui con la sua famiglia è costretto a una parte secondaria e residuale, e tuttavia è capace di sognare, di inventare, di trasfigurare quella realtà» (Francesco Durante, «Il Mattino»).
«La prima cosa che mi ha colpito in questo libro è l’intimità, è un libro sussurrato che racconta a tocchi leggeri un personaggio molto interessante. La protagonista è una vera ingenua, ricorda la Stefania Sandrelli di Io la conoscevo bene. Un tipo umano che in tanti nel mondo del cinema sogniamo di raccontare ma che è molto difficile da incontrare [...] La Rosita di questo romanzo è una creatura priva di stereotipi anche se è un personaggio classico: e uno scrittore che riesce a creare un personaggio classico senza cadere negli stereotipi è una rarità».
Umberto Contarello, «L'Espresso»
L’animale femmina segna l’esordio di Emanuela Canepa, vincitrice all’unanimità del Premio Calvino 2017. La giuria, durante la cerimonia, ha definito il romanzo «compiuto, maturo, di esemplare nitidezza nella struttura e incisivo nella lingua, che mette in campo uno spiazzante gioco di seduzione senza sesso e che, pur attento alla psicologia maschile, dà in particolare voce, con stringente analitica, alla forza carsica del femminile».
Rosita, la protagonista, abitava in un paesino vicino a Caserta, con una madre dai gesti imperiosi, meticolosa nell'occuparsi di lei ma incapace di trasmetterle l'amore che desiderava. A casa si sentiva vulnerabile ed infelice, oppressa da quello che gli altri pensavano di lei.
La salvezza sembra Padova dove riesce ad andare a studiare, mantenendosi con un lavoro in un supermercato, e dove, con difficoltà, porta avanti i suoi studi. Un incontro fortuito con un anziano avvocato dai modi signorili sembra offrirle un'opportunità per migliorare la sua vita e proseguire l’università; diventa la sua segretaria ma presto comprende come Ludovico Lepore sia un uomo dall'animo volgare, che approfitta della sua posizione di forza per deridere ed umiliare, che considera le «le femmine animali interessanti», con una debolezza ideologica.
«Sin dal primo giorno nel suo nuovo impiego, si trova invischiata in un sottile gioco psicologico, una sottomissione veicolata da sguardi, rimproveri velati e richiami alla disciplina […] Tutto ciò scatena una danza pericolosa e perturbante, in un racconto appuntito che è soprattutto una liberazione femminile dallo sguardo maschile. (Francesco Musolino, «il Fatto Quotidiano»).
Rosita, abituata al silenzio, obbediente, fragile, sembra destinata a soccombere alla dialettica feroce dell'avvocato; ma i fallimenti e le delusioni, l'esperienza della solitudine e lo sforzo di uscire dall'anonimato a cui la vita a volte sembra condannare, servono a conoscersi e trovare risorse inaspettate… forse la scialba segretaria può vincere nel duello finale. Per lo sceneggiatore Umberto Contarello «la cosa meravigliosamente scorretta di questo libro è la capriola con cui un uomo che esercita un potere abnorme su una donna finisce per produrre in lei una nuova libertà: libera una persona che lei non sapeva di essere. Ricorda My Fair Lady, ma c’è in più questo lato scorretto» («L'Espresso», link).
«L’animale femmina è un sofisticato romanzo d’esordio […] Usa un lessico scelto e del resto la stessa Rosita avverte il lettore che lei ha sempre detestato il dialetto. Dunque è un’autrice sapiente, che, nel montare la vicenda, sa che deve evitare il “romanzesco” d’altri tempi se vuole, appunto, raccontare quel che accade oggi con tutta la drammaticità di un presente senza filtri» (Paolo Mauri, «la Repubblica»).